Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21478 del 19/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 19/08/2019, (ud. 16/05/2019, dep. 19/08/2019), n.21478

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

Dott. BOGHETIC Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6791-2015 proposto da:

INTESA SANPAOLO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 32,

presso lo studio dell’avvocato LIDIA SGOTTO CIABATTINI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO TOSI;

– ricorrente –

contro

M.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. DENZA 15,

presso lo studio dell’avvocato SUSANNA LOLLINI, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 591/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 15/09/2014 R.G.N. 619/2011;

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

RILEVATO CHE:

1. il Tribunale di Monza, con sentenza n. 44 del 2010, accoglieva la domanda di M.V. volta ad ottenere il superiore inquadramento, come Quadro Direttivo di 3 livello, dall’1.12.2005, e condannava la società Intesa San Paolo Spa al pagamento delle differenze di retribuzione a decorrere dal luglio 2005 (data di effettiva adibizione alle mansioni superiori); accoglieva, inoltre, la domanda di accertamendo di un demansionamento a decorrere dal 19.12.2007 e condannava Intesa San Paolo Spa a reintegrare il lavoratore nelle mansioni in precedenza svolte ed a risarcirgli il danno che quantificava in Euro 7.800,00 alla data della decisione, oltre ad Euro 300,00 mensili sino all’effettiva riassegnazione di mansioni corrispondenti all’inquadramento;

2. la Corte di appello di Milano, con la sentenza qui impugnata (n. 591 del 2014), ha rigettato sia l’appello principale di Intesa San Paolo Spa sia quello incidentale del lavoratore;

2.1. la Corte territoriale ha osservato come i compiti assegnati al lavoratore dall’1.7.2005 di responsabile della funzione di “supporto legale imprese” dell’area di (OMISSIS), comprendente non solo otto filiali presenti in città ma anche altre, in numero superiore a 20, ivi comprese quelle di (OMISSIS), integrassero il contenuto professionale della declaratoria del livello III-IV quadri direttivi; a tale riguardo, ha ritenuto, con riferimento alla critica mossa dalla società alla pronuncia di primo grado per non aver saputo distinguere tra gestione di realtà organizzative o contesti operativi complessi e responsabilità di un ufficio inserito in una più complessa struttura, che la preposizione ad un ufficio di consulenza legale con le caratteristiche di quello in concreto gestito dal lavoratore rappresentasse, all’evidenza, gestione di un contesto operativo complesso, in ragione delle conoscenze professionali richieste, non solo di tipo bancario ma di diritto civile in generale; ha ritenuto, inoltre, integrata una dequalificazione per avere la parte datoriale privato il lavoratore dei compiti di cd. finanza strutturata, qualificanti la funzione esercitata, variazione non giustificata neppure dalla necessità di salvaguardare il posto di lavoro del dipendente, eventualmente in mansioni inferiori, per effetto della mutata organizzazione aziendale (id est: soppressione della posizione ricoperta dal lavoratore); Intesa San Paolo spa, infatti, non aveva dimostrato l’impossibilità di adibire il M. in mansioni equivalenti; la Corte territoriale ha, infine, osservato come il pregiudizio allegato e provato, in base al notorio, in termini di danno all’immagine esterna ed interna, derivante dalla perdita di funzioni, potesse ricondursi al danno non patrimoniale che il lavoratore aveva fatto oggetto di specifica domanda;

3. ha proposto ricorso per cassazione Intesa San Paolo Spa, affidato a cinque motivi ed illustrato con memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c.;

4. ha resistito, con controricorso, il lavoratore.

Diritto

CONSIDERATO CHE:

1. con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. relativamente all’interpretazione dell’art. 2 CIA 2001 e della circolare n. 11829 del 2000; secondo la parte ricorrente, i giudici milanesi avrebbero violato sia il criterio di interpretazione letterale che quello sistematico, derivante da una lettura combinata delle fonti di riferimento, non considerando, da un lato, che l’art. 2 CIA prevedeva l’inquadramento nel II livello dei quadri direttivi del ” responsabile di ufficio legale” e, dall’altro, che la circolare indicata nella rubrica del motivo inquadrava nel III livello dei quadri direttivi le “risorse operanti in autonomia nell’ambito di organizzazioni o strutture dedicate all’operatività bancaria”; secondo la ricorrente, la sentenza non avrebbe colto la distinzione, sancita dalle indicate fonti, tra la responsabilità di uffici o strutture legali nelle Aree (per la quale è previsto l’inquadramento nel II livello Quadri Direttivi) e la responsabilità di strutture operative (per la quale è previsto l’inquadramento nel III livello Quadri Direttivi);

1.1. il motivo è inammissibile;

1.2. esso (id est: il motivo) non coglie il decisum in quanto non considera l’accertamento di fatto operato dalla Corte di appello che, al riguardo, ha valorizzato la gestione, da parte del lavoratore, di “un contesto operativo complesso”, in ragione delle conoscenze professionali richieste, non solo di diritto civile in generale ma anche di tipo “prettamente bancario”, così implicitamente aderendo all’interpretazione delle fonti di riferimento patrocinata dalla parte ricorrente;

2. con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 73 e 74 CCNL ABI 2005 Quadri Direttivi e personali delle Aree Professionali e degli artt. 76 e 77 CCNL ABI 2007 Quadri Direttivi e personali delle Aree Professionali; si imputa alla Corte di Appello di non aver considerato la piena fungibilità tra le mansioni del I, II e III livello dei quadri direttivi, decisiva ai fini dell’esclusione di ogni dequalificazione, “essendo pacifico, in atti, che le mansioni espletate dal Dott. M., prima e dopo il novembre 2007, rientrano nella declaratoria contrattuale dei quadri direttivi ” (pag. 25 ricorso in cassazione);

2.1. il motivo è da respingere;

2.2. la Corte di merito ha, implicitamente, escluso l’esercizio di un legittimo ius variandi, pur nella fungibilità delle mansioni; ciò all’esito dell’accertamento fattuale di non conservazione, comunque ed in concreto, del bagaglio professionale acquisito dal lavoratore (in tema, cfr. Cass. n. 28240 del 2018; Cass. n. 15010 del 2013);

3. con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – è dedotto omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti; secondo la parte ricorrente la Corte di appello avrebbe omesso di valutare i seguenti fatti: “1. (la) riorganizzazione aziendale conseguente alla fusione tra Banca Intesa e Sanpaolo Imi; 2. (la) soppressione dell’Ufficio Supporto Legale; 3. (l’) ampio esubero di personale conseguente alla fusione; 4. (l’) assenza di posizioni vacanti in ambito legale”;

3.1. il motivo è, in radice, inammissibile in quanto formulato senza tenere in alcun conto gli enunciati di Cass., sez. un., nn. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni Unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015);

3.2. la decisività del fatto va, infatti, esclusa in una pluralità di fatti, nessuno dei quali ex se risolutivo, nel senso dell’idoneità a determinare il segno della decisione (ex multis, in motivaz., Cass. n. 13384 del 2017, p. 8.1., sulla base di Cass. n. 21439 del 2015);

4. con il quarto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – è dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. per aver la parte ricorrente chiesto il risarcimento del danno professionale/esistenziale e riconosciuto, invece, la Corte territoriale il risarcimento per danno all’immagine;

4.1. il motivo è infondato;

4.2. pur qualificando la Corte di appello il danno subito dal lavoratore in termini di pregiudizio all’immagine laddove lo stesso risultava dedotto in termini di danno esistenziale, non si pone questione di attribuzione alla parte di un bene diverso da quello richiesto oppure di pronuncia su domanda diversa da quella proposta, quanto a causa petendi, ma solo di diversa qualificazione della lesione dell’interesse di natura non patrimoniale concretamente dedotto dall’attore (“discredito nell’ambiente di lavoro derivato (…) dal declassamento (…)”, cfr. ricorso di primo grado riportato dalla società nel ricorso in cassazione, pag. 31);

5. con il quinto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218,1223,2059,2103 e 2697 c.c.; si imputa alla sentenza la violazione delle norme in punto di allegazione e prova del danno; la Corte di appello avrebbe liquidato il risarcimento esclusivamente sulla base della dedotta dequalificazione, così contravvenendo ai principi di questa Corte che escludono la possibilità di riconoscere un danno in re ipsa;

5.1. il motivo è infondato;

5.2. la Corte territoriale non dà per presupposto il danno, nè lo ritiene in re ipsa; in realtà, lo deduce da alcuni elementi emersi in atti, quali la perdita di funzioni inerenti alla cd. finanza strutturata, la privazione di funzioni di responsabilità di un ufficio, il venir meno di compiti di coordinamento di altri dipendenti, la privazione della disponibilità di uno staff di analisti;

5.3. il giudizio in tal senso reso non è di danno presunto: piuttosto la Corte di merito ritiene che la prova della conseguenza dannosa possa ricavarsi per presunzioni sulla base di indici che, nel suo apprezzamento, rivestono carattere significativo del fatto ignoto; apprezzamento che non è oggetto di censura, sia pure nei ristretti limiti in cui detto apprezzamento può essere suscettibile di sindacato di legittimità;

6. conclusivamente, il ricorso va rigettato con le spese liquidate come in dispositivo, secondo soccombenza;

7. occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali nella misura del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 16 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2019

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