Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21471 del 15/09/2017


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Cassazione civile, sez. I, 15/09/2017, (ud. 30/05/2017, dep.15/09/2017),  n. 21471

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Presidente –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FALABELLA Masismo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16706/2012 proposto da:

R.S., elettivamente domiciliato in Roma, Via Piave n.

52, presso l’avvocato Carcione Renato, rappresentato e difeso dagli

avvocati Mazzarella Ferdinando, Mazzarella Giuseppe, Mormino

Francesco, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

A.G.M.A., F.G., R.P.;

– intimati –

e contro

A.G.M.A., F.R.G.,

elettivamente domiciliati in Roma, Via Monte Zebio n. 37, presso lo

Studio avvocati Furitano Marcello e Cecilia, rappresentati e difesi

dall’avvocato Algozini Alessandro, giusta procura in calce al

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 1117/2011 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 14/09/2011;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/05/2017 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Il 12 settembre 2001 il Tribunale di Palermo rigettava le domande proposte da R.S. nei confronti della madre A.G.M.A. e dei fratelli R.F.G. e R.P.. Tali domande avevano ad oggetto: il risarcimento dei danni subiti dall’attore in conseguenza della condotta della predetta A., la quale, dopo aver prestato fideiussione in favore del figlio, si era spogliata di una parte del suo patrimonio, determinando così la revoca degli affidamenti bancari concessi allo stesso attore; la declaratoria di inefficacia, nei confronti di quest’ultimo, di alcuni atti mediante i quali la madre aveva trasferito agli altri due figli propri beni; l’accertamento della fittizia intestazione, in capo a A.G.M.A., di un immobile, con i relativi accessori – poi trasferiti a R.G. – che l’istante assumeva dover divenire di sua proprietà in forza di un patto fiduciario. Lo stesso Tribunale accoglieva parzialmente, poi, la domanda riconvenzionale proposta da A.G.M.A. e condannava l’attore a rimborsare alla predetta convenuta la somma di Lire 20.000.000, oltre interessi legali.

2. – La sentenza era impugnata da R.S. e in data 14 settembre 2011 la Corte di appello di Palermo, nella resistenza di A.G.M.A. e di R.F.G., respingeva il gravame.

3. – L’appellante soccombente ricorre per cassazione contro detta sentenza facendo valere un unico motivo di impugnazione. Hanno depositato controricorso con ricorso incidentale, anch’esso basato su di un solo motivo, A.G.M.A., R.P. e F.G.R.. Vi è memoria ex art. 378 c.p.c., del ricorrente.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il motivo posto a fondamento del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 809,1175,1218,1374 e 1375 c.c., nonchè dell’art. 2 Cost. e dei principi generali in tema di correttezza e buona fede, come pure “del divieto di abuso del diritto, di solidarietà sociale e, comunque, del neminem laedere”; contiene altresì una censura di insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo. Sostiene il ricorrente che la prestazione della fideiussione rilasciata dalla madre in suo favore era connotata da spirito di liberalità. L’istante qualifica quindi detta prestazione come liberalità indiretta o negotium mixtum cum donatione e sostiene che tale liberalità avrebbe dovuto essere “non solo realizzata, ma anche gestita e condotta secondo obiettiva buona fede e correttezza”. Di contro, la sentenza impugnata aveva mancato di prendere in considerazione il comportamento della garante avendo riguardo alla specifica posizione del figlio. Aggiunge il ricorrente che nella fattispecie si sarebbe configurata una responsabilità da contatto sociale e che la Corte di merito avrebbe dovuto apprezzare la correttezza della condotta posta in essere da A.G.M.A., la quale aveva alienato i propri beni (con i quali rispondeva nei confronti del creditore) senza preavvertire di ciò il figlio. In particolare, non poteva reputarsi soddisfacente l’affermazione del giudice distrettuale secondo cui la fideiubente si era limitata ad esercitare un proprio diritto: infatti, l’esercizio del diritto in tanto è ammesso in quanto non sconfini nell’abuso. Non poteva d’altro canto reputarsi pertinente il rilievo secondo cui, comunque, le banche creditrici avrebbero continuato a erogare finanziamenti ad esso ricorrente, posto che si ignorava a quali condizioni finanziarie ciò sarebbe avvenuto e per quale scopo.

2. – Il motivo su cui si basa il ricorso incidentale lamenta violazione degli artt. 347,348,358 e 359 c.p.c.. Si duole la controricorrente che la controparte aveva impugnato la sentenza di primo grado, depositata il 12 settembre 2001, notificando il proprio atto d’appello il 28 ottobre 2002, senza provvedere, poi, a costituirsi in giudizio. La causa era stata successivamente riassunta con atto notificato al procuratore degli appellati il 3 ottobre 2003. Secondo i ricorrenti per incidente la mancata costituzione dell’appellante nel termine di cui all’art. 165 c.p.c., determinava, come conseguenza, l’improcedibilità del gravame.

3. – Presenta antecedenza logico-giuridica la trattazione del ricorso incidentale, con il quale è stata sollevata una questione di rito.

La legittimazione dei controricorrenti a impugnare la sentenza resa in esito all’appello in cui sono risultati totalmente vittoriosi trova fondamento nel rilievo per cui, con il ricorso per cassazione, essi tendono, in definitiva, a far valere il giudicato interno che si sarebbe formato intorno alle statuizioni di primo grado (sulla facoltà della parte integralmente vittoriosa a proporre la quaestio judicati con ricorso per cassazione, cfr. ad es.: Cass. 28 febbraio 2011, n. 4929; Cass. 10 giugno 2008, n. 15362; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1691).

Ciò posto, il ricorso incidentale è fondato.

Risulta dalla pronuncia impugnata: che la sentenza del Tribunale risale al 12 settembre 2001; che R.S. notificò la citazione il 28 settembre 2002 (quindi tempestivamente avendo riguardo al c.d. termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis); che, nondimeno, nessuna delle parti si costituì nei termini di legge; che l’appellante ebbe a riassumere il giudizio con atto notificato il 3 ottobre 2003.

Tale riassunzione non è valsa ad escludere l’improcedibilità dell’appello, giacchè non trovano applicazione, in fase di gravame, l’art. 171 c.p.c. e art. 307 c.p.c., commi 1 e 2.

Infatti: “L’art. 347 c.p.c., comma 1, nello stabilire che la costituzione in appello avviene secondo le forme ed i termini per i procedimenti davanti al tribunale, rende applicabili al giudizio d’appello le previsioni di cui agli artt. 165 e 166 c.p.c., ma non quella di cui all’art. 171 c.p.c. (concernente la ritardata costituzione delle parta, la quale è incompatibile con la previsione di improcedibilità dell’appello, se l’appellante non si costituisca nei termini, di cui all’art. 348 c.p.c.. Ne consegue che il giudizio di gravame sarà improcedibile in tutti i casi di ritardata o mancata costituzione dell’appellante, a nulla rilevando che l’appellato si sia,costituito nel termine assegnatogli” (Cass. S.U. 18 maggio 2011, n. 10864; Cass. 10 luglio 2012, n. 12724; nel senso che la mancata costituzione in termini dell’appellante determina, come effetto automatico, e a prescindere dalla condotta processuale dell’appellato, l’improcedibilità dell’appello, cfr. pure Cass. 15 marzo 2013, n. 6654).

Vero è, poi, che la regola dettata dall’art. 348 c.p.c., comma 1, secondo cui la mancata costituzione dell’appellante nel termine di cui all’art. 165 del medesimo codice (richiamato dal precedente art. 347), determina automaticamente l’improcedibilità dell’appello, non esclude che – in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 358 c.p.c. – la parte costituitasi tardivamente possa proporre una seconda impugnazione, purchè tempestiva, sempre che non sia già intervenuta una declaratoria di improcedibilità od inammissibilità (Cass. 4 febbraio 2016, n. 2165; Cass.1 7 ottobre 2013, n. 23585). Ma è altrettanto vero che, nella fattispecie, anche a voler intendere l’attuata riassunzione come una seconda impugnazione, essa è intervenuta allorquando la sentenza di primo grado era oramai passata in giudicato.

L’appello risultava essere, dunque, improcedibile.

4. – Il ricorso principale è assorbito.

5. – La sentenza impugnata deve essere dunque cassata senza rinvio.

6. – Le spese del giudizio di gravame devono far carico all’appellante e possono essere liquidate nell’importo indicato nella sentenza impugnata.

Quelle del giudizio di legittimità vanno riversate sul ricorrente soccombente.

PQM

 

La Corte:

accoglie il ricorso incidentale e dichiara assorbito il ricorso principale; cassa senza rinvio la sentenza impugnata, dichiarando improcedibile l’appello; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese relative al giudizio di appello, che liquida in Euro 11.250,00, di cui Euro 8.420,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi, oltre al contributo spese generali a alle addizionali di legge; condanna la stessa parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6,000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2017

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