Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2147 del 27/01/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 27/01/2017, (ud. 22/11/2016, dep.27/01/2017),  n. 2147

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14508-2011 proposto da:

M.R. C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato AUGUSTO ZAMBET, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA CENTRO SERVIZI

AMMINISTRATIVI TREVISO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 567/2010 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 01/03/2011, R.G. N. 733/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/11/2016 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO CARMELO, che ha concluso in via principale per

l’inammissibilità, in subordine per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza n. 567/10, depositata il 9 novembre 2010, rigettava l’appello proposto da M.R. nei confronti del MIUR e del Centro servizi amministrativi di Treviso, avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Treviso n. 337/06.

2. M.R., maestro elementare in pensione dal settembre 2004, aveva impugnato la sentenza del Tribunale con la quale veniva rigettato il ricorso, proposto ai sensi dell’art. 414 c.p.c., per la declaratoria di nullità e/o l’annullamento e/o disapplicazione e/o revoca del trasferimento disposto nei suoi confronti con provvedimento del 24 ottobre 2002 dal Circolo didattico di Paese al Centro territoriale permanente per l’insegnamento agli adulti presso la scuola (OMISSIS), e per il risarcimento dei danni subiti per la condotta di bossing o di mobbing attuata nei suoi confronti dall’Amministrazione, a far data quanto meno dall’anno scolastico 1997/1998.

3. La Corte d’Appello ha ritenuto corretta la decisione del giudice di primo grado sulla mancata ammissione delle prove orali offerte dalle parti, a fronte della cospicua documentazione in atti.

Quanto al trasferimento adottato nei confronti del M., la Corte d’Appello ha ritenuto la stessa caratterizzata da difetto di interesse ad agire atteso che il docente era stato collocato in quiescenza e non aveva proposto alcuna domanda di risarcimento danni per diverso trattamento economico corrisposto per effetto del trasferimento, nè si era riservato di formulare detta domanda in altro giudizio.

Anche in relazione alla domanda avente ad oggetto risarcimento danni per mobbing, l’ammissione delle prove orali offerte dalle parti risultava superflua dato che dalla documentazione in atti, anche espunte le parti delle ispezioni ministeriali oggetto di specifica contestazione da parte del ricorrente, emergeva che nell’ambito degli istituti scolastici ove aveva operato il M. dal 1997/1998, si era creato tra lo stesso e la dirigenza scolastica, colleghi e genitori degli alunni, una situazione di conflitto tale da pregiudicare il corretto funzionamento degli istituti, circostanza che legittimava sia l’avvio di ispezioni che dei trasferimenti disposti nei confronti del M., sicchè l’Amministrazione aveva adempiuto all’onere della prova sulla stessa gravante.

Quanto alla legittimità dei trasferimenti, la Corte d’Appello, anche a non voler ritenere utilizzabile la previsione del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 468, a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, affermava che il trasferimento doveva ritenersi ammissibile come ipotesi applicativa dell’art. 2103 c.c. (Cass., n. 11589/03).

L’assegnazione all’insegnamento della lingua italiana dapprima ai bambini e poi agli adulti stranieri non palesava illegittimità non essendo stato dedotto che a ciò dovesse essere addetto personale con diversa qualifica e preparazione.

La Corte d’Appello escludeva che vi fosse stato bossing o mobbing atteso che i comportamenti si riferivano a una pluralità di soggetti ed erano formalmente legittimi o quanto meno neutri per cui la prova avrebbe dovuto essere articolata e precisa non potendo l’intento vessatorio essere ricavato presuntivamente dal mero reiterarsi di condotte a danno del lavoratore.

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre M.R. con due motivi di impugnazione.

5. Resiste con controricorso il MIUR.

6. Nel corso del giudizio di cassazione a seguito dell’ avviso telematico di fissazione dell’udienza pubblica al 22 novembre 2016, veniva attestato il decesso del difensore del ricorrente avv. Augusto Zambet.

7. Pertanto, con provvedimento del Presidente titolare della Sezione del 16 settembre 2016, veniva disposto che venisse avvertita la parte, all’indirizzo dichiarato nel ricorso per cassazione, per la sua facoltà di nominare difensore per le incombenze afferenti il ricorso, e in tempo utile per le difese ex art. 378 c.p.c..

8. All’udienza pubblica è comparsa la parte ricorrente di persona.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, è dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5, in riferimento all’art. 100 c.p.c..

Assume il ricorrente che la domanda di illegittimità del trasferimento, poichè lo stesso era già collocato in quiescenza, non aveva logicamente ad oggetto il ripristino dell’originario posto di lavoro, ma il risarcimento del danno e tale domanda era stata formulata nelle conclusioni di primo grado e di appello, nella misura Euro 40.000 o il diverso importo determinato secondo equità dal giudice.

2. Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente che censuri la falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, deve specificare – ai fini del rispetto del principio di autosufficienza del ricorso anche gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione (Cass., n. 9888 del 2016, n. 15910 del 2005).

Nel caso di specie, il ricorrente non ha trascritto le conclusioni di primo grado e di appello, alle quali fa riferimento, non specificando, tra l’altro, se intendesse riferirsi alle conclusioni rassegnate nel ricorso di primo grado e nell’atto di appello, o a quelle esposte in sede di precisazione delle conclusioni, per consentire alla Corte di verificare se effettivamente la domanda risarcitoria fosse stata introdotta. Onde la pronuncia d’inammissibilità del motivo.

Tale carenza, inoltre, non consente di apprezzare il carattere decisivo della prospettata violazione, dimostrando che la stessa ha riguardato una questione astrattamente rilevante, posto che, altrimenti, si dovrebbe cassare inutilmente la decisione gravata (cfr., Cass., n. 16102 del 2016).

Analoga inammissibilità sussisterebbe anche qualora la censura fosse stata riferita ad error in procedendo in relazione all’art. 112 c.p.c., atteso che come questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass., n. 15367 del 2014), in tal caso, il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali è condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente – per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio “per relationem” agli atti della fase di merito – dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi.

Infine, si ricorda che, come questa Corte ha già avuto modo di statuire (Cass., S.U., n. 15781 del 2005, Cass., ord. n. 5344 del 2013),anche affinchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia, è necessario, da un lato, che al giudice di merito fossero state rivolte una domanda o un’eccezione autonomamente apprezzabili, e, dall’altro, che tali domande o eccezioni siano state riportate puntualmente, nei loro esatti termini, nel ricorso per cassazione, per il principio dell’autosufficienza, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo o del verbale di udienza nei quali le une o le altre erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5.

Espone il ricorrente che la Corte d’Appello ha affermato che esso appellante avrebbe dovuto dimostrare che i comportamenti dell’Amministrazione, formalmente legittimi, nella sostanza erano contrari al diritto. Tale motivazione è contraddittoria in quanto la Corte d’Appello mentre addebitava ad esso ricorrente una mancata prova, dichiarava non necessarie le prove testimoniali perchè la documentazione in atti era sufficiente per escludere l’illegittimità dei comportamenti dell’Amministrazione nei propri confronti.

Ad avviso del ricorrente, la documentazione non poteva sostituire i risultati della prova testimoniale che non era possibile prevedere finchè non fosse stata assunta e, comunque, il giudice, ai sensi dell’art. 421 c.p.c., può disporre d’ufficio, in qualsiasi momento, l’ammissione di ogni mezzo di prova, senza essere limitato dai capitoli di prova delle parti.

Rispetto alle circostanze capitolate nel ricorso il giudice di appello aveva introdotto la difficoltà o l’impossibilità, trattandosi di soggetti diversi dalla PA, che i comportamenti di quest’ultimi potessero essere legati tra loro in modo da rilevarne lo scopo di isolare e rendere inoffensivo il ricorrente M. rispetto alle sue prese di posizione controcorrente in materia di libertà e gratuità di insegnamento, di libertà di religione, di tutela delle persone con handicap, così dimenticando che anche se si trattava di soggetti diversi, ex art. 2049 c.c., trattandosi di dipendenti della PA, era quest’ultima che, unificando tali comportamenti, ne rispondeva; dalla somma unificata in tal modo dei comportamenti discendeva l’effetto di isolamento e riduzione delle iniziative del ricorrente in materia di libertà di insegnamento.

La motivazione della sentenza di appello risultava carente in quanto non spiegava la ritenuta mancanza di idoneità della sequela di comportamenti ed atti di carattere ed intento vessatorio tali da determinare i danni lamentati, atteso che ispezioni e trasferimenti si erano verificati numerosi, senza peraltro sanzioni disciplinari, e, quindi, percepiti come ingiusti, e perciò maggiormente fonte di disagi e di stress.

4. Il motivo è inammissibile.

Occorre precisare che la Corte d’Appello riteneva che l’ammissione delle prove orali offerte dalle parti, in relazione alla domanda di risarcimento danni da mobbing, risultava superflua, atteso che, dalla prova documentale (anche escluse le parti delle ispezioni oggetto di specifica contestazione), emergeva che nell’ambito degli istituti scolastici ove aveva operato il M. dal 1997/1998, si era creata tra lo stesso e la dirigenza scolastica, colleghi e genitori degli alunni una situazione di incompatibilità idonea sia all’avvio delle ispezioni, sia ai trasferimenti.

Il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la Corte di cassazione deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Cass., n. 17915 del 2010).

Nella specie, il ricorrente pur dolendosi della mancata ammissione della prova per testi, non riporta trascrivendoli i relativi capitoli di prova, limitandosi a deduzioni, circa la differenza ontologica tra prove precostituite e prove costituende e in ordine ai poteri officiosi ex art. 421 c.p.c., che non offrono argomenti ai fini della valutazione di decisività dei mezzi istruttori del cui mancato espletamento si duole.

Con riguardo alla statuizione relativa alla mancanza di prova del mobbing, atteso che con la stessa la Corte d’Appello afferma che, poichè i comportamenti erano riferiti a una pluralità di soggetti diversi, ed erano legittimi o quanto meno neutri, la prova che essi erano contrari a diritto, ponendosi come scopo quello di isolare o rendere inoffensivo il M. rispetto alle prese di posizione dello stesso in materia ad esempio di libertà e gratuità dell’insegnamento, avrebbe dovuto essere articolata e precisa, non potendo l’intento vessatorio ricavarsi presuntivamente dal mero reiterarsi delle condotte, la censura non ne coglie la ratio decidendi.

Ed infatti il giudice di secondo grado non pronuncia sull’esclusione di responsabilità ex art. 2049 c.c. della Pubblica amministrazione, come deduce il ricorrente, ma afferma che non è stato assolto l’onere probatorio con riguardo all’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi, necessario ai fini della configurabilità del mobbing, che non può ravvisarsi nella presenza di un unico datore di lavoro pubblico.

Ed infatti, come questa Corte ha già affermato (Cass., n. 17698 del 2014): ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico – fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

La Corte d’Appello ha escluso l’intento persecutorio sia per la legittimità formale o neutralità dei comportamenti, che quanto ad avvio di ispezioni e trasferimenti trovavano fondamento nella situazione di incompatibilità creatasi, sia perchè le circostanze capitolate nel ricorso, nei limiti in cui risultavano dedotte in modo sufficientemente specifico, non risultavano idonee a dimostrare l’adozione di una sequela di atti e provvedimenti a carattere vessatorio, nè la sussistenza dei danni lamentati.

Tale statuizione non è adeguatamente censurata poichè il ricorrente non la contesta in modo circostanziato, atteso che non richiama, a sostegno dell’aver utilmente ottemperato all’onere della prova, nè specifiche circostanze e deduzioni svolte negli atti del giudizio, nè i capitoli di prova che avrebbero dovuto suffragare le proprie prospettazioni.

Nè la pluralità delle ispezioni e dei trasferimenti (peraltro non precisati nel numero) può far desumere, di per sè un intento vessatorio, così come priva di decisività, in tal senso, si connota la dedotta mancanza di provvedimenti disciplinari.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro tremila per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 22 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2017

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