Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21464 del 19/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 19/08/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 19/08/2019), n.21464

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10877/2014 proposto da:

B.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA QUINTINO

SELLA, 41, presso lo studio dell’avvocato MARGHERITA VALENTINI,

rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMILIANO DEL VECCHIO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, C.F. (OMISSIS), in persona

del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, ALLA

VIA DEI PORTOGHESI 12, ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4152/2013 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 25/11/2013 r.g.n. 1054/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/04/2019 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MASSIMILIANO DEL VECCHIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Taranto aveva escluso che il Direttore dell’Ufficio dell’Agenzie delle Entrate di Taranto ove lavorava B.F. avesse assunto comportamenti discriminatori nei confronti della predetta e ne aveva accolto la domanda di demansionamento, condannando il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento, in favore della stessa, di Euro 92.000,00, oltre interessi legali dall’1.1.2002.

2. Con sentenza del 25.11.2013, la Corte d’appello di Lecce accoglieva il gravame del Ministero e dell’Agenzia delle Entrate di Taranto e, per l’effetto, respingeva la domanda proposta dalla B., rilevando l’esistenza del giudicato quanto al rigetto della domanda di risarcimento del danno conseguente a comportamenti vessatori e discriminatori e che l’assegnazione della B., che era capo del personale di segreteria, ai reparti Accertamento e Verifiche fino al 31.12.2000 – nella prospettiva di una globale riorganizzazione ed al fine di raggiungere obiettivi monetari e numerici che si sarebbero convertiti in attribuzioni economiche – non fosse idonea a realizzare il dedotto demansionamento. La disciplina contrattuale applicabile ratione temporis – CCNL di comparto del 1999 – aveva innovato il sistema di classificazione del personale, disponendo, all’art. 13, l’accorpamento delle ex 7^, 8^ e 9^ qualifica funzionale nell’area C), sicchè l’indagine sulla correttezza dello ius variandi andava ancorata alla nuova classificazione rispondente ad un concetto di flessibilità, che conduceva, in relazione all’applicabilità del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 e non dell’art. 2103 c.c., a conferire rilievo al solo criterio dell’equivalenza formale, riferito alla classificazione astrattamente prevista dai contratti collettivi, senza considerazione della professionalità acquisita in concreto. Doveva considerarsi, poi, la progressiva definizione del riparto di competenze all’interno dell’Agenzia, a seguito della cessazione dell’Ufficio II.DD. e che il primo provvedimento organizzativo, nell’approssimarsi della costituzione dell’Agenzia, era stato quello di tamponare una situazione di risalente sofferenza dell’Ufficio II.DD., originata da un accumulo di pratiche arretrate, obiettivo per il cui conseguimento era stata prevista, tra l’altro, in una prospettiva di flessibilità endo area, l’assegnazione della B. al Reparto Unico dei servizi di Assistenza e Consulenza al Contribuente, che rappresentava il massimo sviluppo della posizione C3. A seguito di lamentele avanzate dalla stessa in ordine alla gravissima situazione operativa in cui versava il reparto e relative al carico di lavoro eccessivo, la B. era stata sostituita ed era stata destinata all’esecuzione di verifiche esterne che, peraltro, si era rifiutata di adempiere; successivamente, era stata destinata all’Area Direzione Segreteria, avendo ella affermato di non ritenere necessaria l’acquisizione di competenze informatiche. La impossibilità di destinazione al Reparto accertamento era collegata alla mancanza delle conoscenze evidenziate e l’assegnazione all’esecuzione di verifiche era stata coerente con la sua professionalità ed alle competenze caratterizzanti l’area di appartenenza, non potendo ravvisarsi il demansionamento nell’assegnazione a mansioni prima svolte da personale inquadrato nella inferiore ex qualifica VII funzionale. Anche la produzione documentale e le dichiarazioni dei testi non avevano consentito, secondo la Corte, di ravvisare gli allegati scostamenti dal piano organizzativo.

3. Non poteva, poi, riconoscersi il dedotto sovraccarico di lavoro, dovuto a deficienze organizzative, nè ritenersi realizzato l’accumulo di stress con violazione dell’art. 2087 c.c., sicchè anche il secondo motivo di gravame doveva ritenersi fondato. Il sottodimensionamento pure di altri reparti non aveva consentito di potenziare solo il reparto assistenza e consulenza e non erano emersi superamenti degli orari contrattuali. Peraltro, dalla relazione ispettiva acquisita era emerso che l’appellata non era stata gravata da una prestazione esuberante le attese stimate in termini quali-quantitativi, nè era sostenibile che il sovraccarico fosse dipeso da un particolare impegno, in alcun modo provato, profuso nell’organizzazione del lavoro. Infine, rispetto alla quantificazione in termini monetari, tutt’altro che contenuti, del danno biologico effettuata dal primo giudice, non risultavano soddisfatti i criteri di efficienza e cronologico.

4. Di tale decisione la B. domanda la cassazione, affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resistono con unico controricorso l’Agenzia ed il Ministero, che hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, sono dedotte nullità della sentenza ex artt.

416 e 437 c.p.c., ed ai sensi dell’art. 112 c.p.c., violazione dell’art. 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione in relazione a produzione documentale degli appellanti effettuata oltre i termini previsti per tali adempimenti (udienza del 28.9.2006, nella quale era stata sollevata specifica eccezione, accolta dal giudice di primo grado), a distanza di vari anni dall’introduzione del giudizio ed anche, in parte, in secondo grado.

2. Con il secondo motivo, si ascrivono alla decisione impugnata violazione e falsa applicazione degli artt. 416,437,115 e 116 c.p.c., nonchè motivazione omessa, carente, illogica e contraddittoria, con riferimento agli artt. 2103,2697 c.c., dell’art. 13 c.c.n.l. Comparto Ministeri 1999-2002 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, rilevandosi che non è stato conferito rilievo al principio di non contestazione in relazione alle circostanze esposte nell’atto introduttivo del giudizio ed assumendosi che l’interpretazione delle determine della P. A., degli ordini di servizio e del carteggio intercorso tra le parti sia avvenuta senza il ricorso ai canoni ermeneutici e che si sia omesso di riconoscere il dedotto demansionamento, con esistenza di un danno della lavoratrice, derivato alla predetta anche dal “carico di lavoro” denunziato. Si osserva che doveva ritenersi esistente il nesso eziologico tra la condotta datoriale e le lamentate patologie, che doveva indurre la Corte al riconoscimento del diritto al risarcimento del danno alle stesse conseguenti.

3. Si assume che la Corte abbia omesso di considerare quale fosse il corretto inquadramento della ricorrente nei termini in cui lo stesso era emerso anche dalle risultanze istruttorie e che sia stata sottovaluta la perdita, da parte della predetta, della posizione di Capo ufficio; si sostiene che è vero che il datore di lavoro può, attraverso l’esercizio dello ius variandi, adibire il prestatore a mansioni differenti rispetto a quelle di assunzione o rispetto alle ultime svolte, ma sempre a condizione che le mansioni siano equivalenti, e si ritiene che la lettura del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, dovesse essere combinata con quanto disposto dall’art. 2103 c.c..

4. Con il terzo motivo, è avanzata censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 416,437,115 e 116 c.p.c., nonchè di motivazione omessa, carente illogica e contraddittoria, con riferimento agli artt. 2087,1228 c.c., in relazione ad aspetti decisivi della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ed al “carico di lavoro”, rilevandosi il mancato riconoscimento di quest’ultimo, da parte della Corte del merito, pur di fronte al dimostrato sottodimensionamento dell’organico.

5. Il quarto motivo attiene alla deduzione di violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost., artt. 2056 e 2059 c.c., art. 437 c.p.c., in ordine alla identificazione e quantificazione del danno biologico ed alla deduzione del vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria pronuncia su un punto decisivo della controversia.

6. Nel primo motivo di impugnazione, in dispregio dell’onere di specificità, non risulta indicato il contenuto dei documenti la cui produzione in primo grado era avvenuta tardivamente e, comunque, il vizio dedotto è da ritenere insussistente alla stregua di quanto valutato dalla Corte del merito, che, come si legge a pag. 13 della decisione impugnata, ha ritenuto l’acquisizione del tabulato delle presenze,, giudicata inammissibile dal Tribunale per tardività della sua produzione, essenziale nell’economia della decisione, in quanto decisiva per contrastare l’assunta verità di un fatto. Ciò risulta in linea con l’orientamento espresso da questa Corte secondo cui, nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, quella di per sè idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (cfr. Cass. 13.10.2017 n. 24164, Cass. s. u. 4.5.2017 n. 10790).

7. Quanto al vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto pronunciato ex art. 112 c.p.c., deve ribadirsi che lo stesso ricorre quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (cfr. Cass. 27.11.2017 n. 23808).

7.1. Anche il vizio di motivazione è mal dedotto in relazione al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e deve ribadirsi l’inconfigurabilità della denunciata omissione di esame di alcun fatto storico, tanto meno decisivo, per la pluralità di fatti censurati (di palese negazione ex se del requisito di decisività (cfr. Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 28 maggio 2018, n. 13625), al di fuori del paradigma devolutivo e deduttivo del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), avendo la doglianza piuttosto il carattere di una (inammissibile) contestazione della valutazione probatoria della Corte di merito (cfr. Cass. 13568/2018).

8. Quanto al secondo motivo, premesso il formarsi di giudicato interno relativamente alla domanda connessa al dedotto comportamento discriminatorio della società, la Corte d’appello non ha disatteso il principio discendente dal comportamento di non contestazione dei fatti allegati, ma ha interpretato i fatti dedotti in relazione a quanto opposto dalla Agenzia in ordine all’esistenza di ragioni organizzative che legittimavano le variazioni della collocazione della lavoratrice nel contesto organizzativo, in conformità alle regole che consentono, nell’ambito del sistema di classificazione del personale, di gestire in termini di flessibilità le esigenze organizzative in coerenza con i nuovi modelli organizzativi.

9. In materia di demansionamento (o dequalificazione), il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia ed ha, quindi, l’onere di allegare gli elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio del potere datoriale, e non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell’esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall’interessato, nonchè da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo (cfr. Cass. 8.7.2014 n. 15527). E’ poi stato precisato che “quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (cfr. Cass. 3.3.2016 n. 4211, Cass. 19.10.208 n. 26477). Non emerge che il giudice del gravame abbia disatteso questo modus operandi contravvenendo alle regole che presiedono alla valutazione del comportamento datoriale in materia di demansionamento.

10. Nè risulta che siano disattesi i principi validi in materia di pubblico impiego contrattualizzato in tema di esercizio dello ius variandi. Con riferimento all’ambito pubblicistico, è stato affermato che “In tema di pubblico impiego privatizzato, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 c.c.” (cfr. Cass. 16.7.2018 n. 18817 e, precedentemente, Cass. 26.3.2014 n. 7106). La combinazione dell’interpretazione dell’art. 52, degli accorpamenti operati dalla contrattazione e dell’irrilevanza delle articolazioni interne a tali accorpamenti porta con tutta evidenza a una forte dilatazione del criterio dell’equivalenza e di conseguenza ad un enorme ampliamento dello “ius variandi” tanto verso l’alto quanto verso il basso. L’appartenenza ad una medesima area non sostituisce il giudizio sulla legittimità dell’esercizio di tale diritto del datore di lavoro e costituisce un confine oltre il quale non può esservi equivalenza, nel senso che sicuramente non potranno essere considerate equivalenti mansioni collocate in aree diverse.

11. Le censure espresse nel terzo motivo attengono a valutazioni di merito, insindacabili nella presente sede nei termini in cui risultano dedotte e non sono idonee a scalfire l’impianto motivazionale posto a fondamento del decisum. E’, poi, erroneamente dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, al di fuori del paradigma devolutivo e deduttivo del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come precisato da Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053.

12. Infine, la decisione sulla determinazione della misura del danno quale operata dal giudice di primo grado è stata all’evidenza assunta ad abundantiam, stante il tenore della decisione e l’esito del giudizio di gravame, con la conseguenza che il rigetto dei precedenti motivi del presente ricorso ne determina l’assorbimento.

13. Le spese vanno pertanto poste a carico della ricorrente nella misura indicata in dispositivo, avuto riguardo al principio secondo cui, in sede di condanna del soccombente al rimborso delle spese del giudizio a favore di un’amministrazione dello Stato – nei confronti della quale vige il sistema della prenotazione a debito dell’imposta di bollo dovuta sugli atti giudiziari e dei diritti di cancelleria e di ufficiale giudiziario – riguardo alle spese vive la condanna deve essere limitata al rimborso delle spese prenotate a debito (cfr. Cass. 18.4.2000, n. 5028; da ultimo, Cass. 17.12.2018 n. 32582).

14. Parte ricorrente è poi tenuta, ricorrendone i presupposti, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese prenotate a debito ed al pagamento dei compensi professionali, liquidati in Euro 4500,00, in favore di parte controricorrente.

Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2019

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