Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21463 del 19/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 19/08/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 19/08/2019), n.21463

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26512-2014 proposto da:

C.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCESCO MAURICI, FABRIZIA MAURICI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI PAVIA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato

VANIA ROMANO, rappresentato e difeso dall’avvocato EDOARDO MELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 156/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 06/05/2014 R.G.N. 2169/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/04/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato VANIA ROMANO per delega Avvocato EDOARDO MELLI.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.G., dipendente del Comune di Pavia dal 1974, esponeva di essere stato nominato dirigente del settore contratti nel 1992, di essere stato assegnato alla direzione del settore patrimonio dal 1.1.99 al 31.10.02 e di aver assunto dal 31.1.01 al 31.10.02 anche la direzione del servizio farmacie comunali uffici giudiziari e casa circondariale: di essere stato vittima di vessazioni e comportamenti offensivi da parte dell’allora assessore al patrimonio F.F.; di aver subito, a seguito della riorganizzare degli incarichi dirigenziali approvata dalla Giunta nel 2002 un declassamento ingiustificato in quanto gli veniva assegnata, con successivi decreti sindacali dal 2002 al 2009, la direzione dei servizi espropri finalizzati alla realizzazione delle opere pubbliche ed attività amministrative presso il settore lavori pubblici, passando cosi da dirigente di settore a dirigente di servizio per lo svolgimento di compiti routinari e di scarsa rilevanza.

Con sentenza n. 7/11 il Tribunale di Pavia accoglieva parzialmente il ricorso condannando il Comune di Pavia a corrispondere al ricorrente la somma di Euro 205.000,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale nonchè la somma di Euro 313,69 quale integrazione della retribuzione di posizione per l’anno 2002 oltre interessi, gli interessi legali sulla somma di Euro 4.894,00 dovuta per il periodo 1.1.0331.5.06 quale retribuzione di posizione liquidata nel giugno 2006 oltre al pagamento delle spese di lite nella misura di 2/3.

Il giudice riteneva non provato il mobbing denunciato dal lavoratore per il periodo maggio 2000-ottobre 2002, mentre in relazione al demansionamento nel periodo successivo e sino al 2009 rilevava l’assoluta esiguità dell’attività lavorativa concretamente assegnata al C. con conseguente diritto al risarcimento del danno.

Il Comune di Pavia ha impugnato la sentenza nella parte relativa al riconosciuto demansionamento ed alla conseguente quantificazione del danno rilevando che il giudice aveva omesso di valutare le relazioni provenienti dallo stesso ricorrente e da lui annualmente trasmesse (dal 2003 al 2007) al nucleo di valutazione nelle quali era riportata l’attività svolta.

Osservava altresì, in relazione alla determinazione dell’ammontare del danno, che C. aveva comunque sempre percepito la completa retribuzione di dirigente compresa la retribuzione di risultato, che egli non aveva subito alcun depauperamento delle sue capacità professionali nè alcuna perdita di chances tanto che attualmente svolgeva le funzioni di dirigente con piena soddisfazione; che infine era da escludersi alcun danno alla salute essendo la patologia psichiatrica insorta in periodo antecedente al lamentato demansionamento come accertato nella consulenza medico-legale espletata.

Si è costituito C. contestando quanto esposto dal Comune e proponendo appello incidentale col il quale ribadiva la illegittimità dei decreti sindacali susseguitisi dal 31.10.01 al 30.9.09, nonchè di quelli successivi alla proposizione del ricorso in quanto l’incarico era conferito con apposizione di un termine inferiore ai due anni; lamentava l’errata valutazione dei fatti in ordine al mobbing ed alla conseguente mancata liquidazione del danno biologico temporaneo ricollegabile all’episodio di depressione insorto in quel periodo; criticava il rigetto della domanda di condanna al pagamento in suo favore della somma di Euro 6.434,19 quale indennità di posizione aggiuntiva per la direzione del servizio farmacie comunali, uffici giudiziari e casa circondariale allorchè questa fu accorpata alla direzione del settore patrimonio da lui seguita; contestava il mancato riconoscimento del rimborso delle spese mediche sostenute e di consulenza medico-legale.

Con sentenza depositata il 6.5.14, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza impugnata, limitava ad Euro 61.500,00 il risarcimento del danno e condannava inoltre il Comune al pagamento della somma di Euro 6.434,19 per indennità di posizione aggiuntiva per la direzione del servizio farmacie comunali, uffici giudiziari e casa circondariale.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il C., articolato su 97 pagine ed affidato a dieci motivi, cui resiste il Comune con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.-Con i primi quattro motivi il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 434 c.p.c., lamentando in sostanza che la sentenza impugnata avrebbe omesso di esaminare l’eccezione di nullità dell’atto di appello del Comune di Pavia ai sensi dell’art. 434 c.p.c. novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134.

I motivi sono ictu oculi infondati, applicandosi la riforma del menzionato art. 434 c.p.c. solo agli atti di appello depositati a partire dall’11.9.12 mentre il gravame del Comune risulta depositato il 28.9.11.

A ciò può aggiungersi che, come evidenziato da questa Corte a sezioni unite (sent. n. 8077/12), l’esercizio del potere di indagine, quale giudice del fatto processuale in ipotesi di denunciati vizi di nullità della sentenza impugnata, è subordinata alla condizione che la censura sia stata proposta in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito, ed in particolare degli art. 366 e 369 c.p.c. (cfr. Cass. n. 11013/17).

A tal fine il C. non produce neppure l’atto di appello in questione. Dall’altro lato, occorre rilevare (come evidenziato da Cass. S.U. n. 5700 del 2014 e Cass. S.U. n. 9558 del 2014), che la Corte di Strasburgo afferma che le limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali non devono pregiudicare l’intima essenza di tale diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l’art. 6, comma 1 CEDU qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (v. tra le altre Corte EDU Walchli c. Francia 26 luglio 2007, Faltejsek c. Repubblica Ceca 15 maggio 2008). La stessa Corte EDU ha poi affermato che il vincolo del rispetto del diritto ad un processo equo imposto dall’art. 6, comma 1 della CEDU si applica anche ai provvedimenti di autorizzazione all’impugnazione (Corte EDU, Hansen c. Norvegia, 2 ottobre 2014, Dobric c. Serbia, 21 luglio 2011, punto 50).

E’ infine appena il caso di rilevare che quand’anche dovesse escludersi una pronuncia implicita di rigetto dell’eccezione, questa S.C., qualora ravvisi l’infondatezza della critica, ben può rigettare la censura senza alcuna necessità di cassare la pronuncia impugnata (cfr. Cass. n. 21968 del 28/10/2015).

I motivi risultano pertanto infondati.

2.-Con quinto motivo il C. denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 432 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Lamenta che la sentenza impugnata pervenne ad una quantificazione equitativa del danno (Euro 61.500) senza dare congrua ragione del processo logico seguito e dei criteri assunti a base del procedimento valutativo.

Il motivo è in parte infondato in quanto la sentenza impugnata fornisce adeguati argomenti in fatto ed in diritto a sostegno della quantificazione operata (pag. 5), per il resto inammissibile in quanto diretto, nel regime di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5 a contrastare accertamenti e valutazione di fatti (natura delle mansioni; etiopatogenesi della dedotta depressione; durata del demansionamento; incidenza sulla professionalità, etc.) da parte del giudice di merito, peraltro in parte basati sulla c.t.u. medico legale espletata.

3.- Con sesto motivo il ricorrente denuncia ancora la nullità della sentenza per non aver esaminato le poste di danno non patrimoniale, biologico, morale ed esistenziale, richiesti sia col ricorso introduttivo che in grado di appello con ricorso incidentale, riproducendo al riguardo vari brani di quest’ultimo ed ampi brani della c.t.u.

Il motivo, laddove lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., è infondato, avendo la sentenza impugnata esaminato e valutato il dedotto danno non patrimoniale (pag. 5 sentenza) riconosciuto dal primo giudice; per il resto risulta inammissibile demandando a questa Corte, sulla base dei brani della c.t.u. riportata, cui non segue una autonoma doglianza circa la valutazione delle considerazioni dell’ausiliare e quanto in tesi accertato dalla sentenza impugnata, un esame globale del contenuto della c.t.u. al fine di coglierne le parti rilevanti ai fini della censura e dunque un giudizio di fatto precluso al giudice di legittimità. Conviene al riguardo osservare che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, espresso nell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, impone al ricorrente la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito. Il requisito dell’autosufficienza non può peraltro ritenersi soddisfatto nel caso in cui il ricorrente inserisca nel proprio atto di impugnazione la riproduzione fotografica di uno o più documenti, affidando alla Corte la selezione delle parti rilevanti e così una individuazione e valutazione dei fatti, preclusa al giudice di legittimità (Cass. 7 febbraio 2012 n. 1716).

4.- Con settimo motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e cioè il nesso causale tra il lamentato danno biologico ed i comportamenti dell’amministrazione, ed in particolare il dedotto demansionamento. Tale censura è sempre inammissibilmente affidata alle valutazioni del c.t.u., con le conseguenze di cui si è sopra detto, in disparte la circostanza che la c.t.u. integrale non è stata prodotta (in contrasto con l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), e che la Corte di merito ha accertato, anche sulla base della espletata c.t.u., che la patologia psichica era sorta in epoca precedente al dedotto demansionamento.

5.- Con ottavo motivo il C. denuncia sempre la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., criticando che essa non valutò adeguatamente le risultanze probatorie, con particolare riferimento al mobbing.

Il motivo è evidentemente inammissibile, non integrando violazione dell’art. 112 c.p.c. (e tanto meno la violazione degli artt. 115/6 c.p.c.) una non condivisa valutazione delle risultanze istruttorie, e tra queste plurime circostanze fattuali e deposizioni testimoniali dedotte dal ricorrente, in base al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Converrà al riguardo rammentare che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 introduce nell’ordinamento, quanto alla motivazione della sentenza impugnata, un nuovo e diverso vizio specifico (riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione: Cass. sez.un. 7 aprile 2014, n. 8053) che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez.un. 22 settembre 2014 n. 19881).

6.- Con nono motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2078 c.c. Lamenta che la sentenza impugnata nel ritenere che gli incarichi dirigenziali nel Comune di Pavia solevano essere di durata inferiore ai due anni (anzichè due) aveva ritenuto vincolante un uso aziendale in contrasto con la norma codicistica invocata.

Il motivo è infondato, sia perchè la sentenza impugnata non risulta aver attribuito alcun valore vincolante alla accertata prassi inerente la durata degli incarichi, sia perchè la Corte di merito, all’interno di una valutazione fattuale circa l’esistenza del dedotto mobbing, ha escluso per tale ragione (tutti gli incarichi avevano di fatto, legittimamente o meno, durata semestrale) l’esistenza di un intento vessatorio nei confronti del C. (e cioè ciò che rileva al fine del denunciato mobbing), restando la questione della teorica durata degli incarichi dirigenziali (peraltro sempre rinnovati), in tale contesto, irrilevante.

7.- Con decimo motivo il ricorrente denuncia ancora una volta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per avere la Corte distrettuale posto a fondamento della decisione non la richiesta disapplicazione dei provvedimenti di incarichi dirigenziali di durata inferiore a due anni, ma l’inammissibile novità della domanda.

Il motivo, per quanto ora osservato, è infondato quanto alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c.; per il resto esso è connesso al sesto ed al precedente, e non può che seguire le medesime sorti; è comunque inammissibile posto che la durata semestrale, in sè e per sè, degli incarichi conferiti (e sempre rinnovati, afferma pacificamente la sentenza impugnata) è stata giudicata domanda nuova, in quanto non proposta in tali termini in primo grado (e dunque, ripetesi, non certo non esaminata dalla Corte meneghina). Per il resto deve ribadirsi che la durata degli incarichi è stata valutata dalla sentenza impugnata sotto il profilo del dedotto mobbing, giungendo alla conclusione, stante peraltro il continuo rinnovo degli stessi, che non fosse emerso alcun comportamento intenzionalmente persecutorio nei confronti del C.. Del resto l’accertamento in sè della illegittimità degli incarichi perchè formalmente di durata inferiore al biennio e peraltro risultati sempre rinnovati senza soluzioni di continuità, appare questione non sorretta da concreto interesse processuale, questo richiedendo l’ottenimento di un risultato utile giuridicamente apprezzabile di per sè e non conseguibile senza l’intervento del giudice (giurisprudenza pacifica, cfr. da ultimo Cass. n. 2057 del 24/01/2019), mentre nella specie è questione di supporto al dedotto mobbing che i giudici di merito hanno ampiamente escluso, e dunque una questione astratta o meramente congetturale da cui non deriverebbe per il ricorrente alcuna concreta ed attuale utilità.

8.- Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2019

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