Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21450 del 06/10/2020

Cassazione civile sez. I, 06/10/2020, (ud. 21/01/2020, dep. 06/10/2020), n.21450

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19587/2019 proposto da:

A.Q., rappresentato e difeso dall’avvocato Antonino Ficarra, e

domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria della

Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO/COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO

DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI CATANIA – SEZIONE DI ENNA, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege

dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in

Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– intimato –

avverso la sentenza n. 96/2019 della CORTE D’APPELLO di

CALTANISSETTA, depositata il 18/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/01/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

 

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– avverso il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Enna che rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria, A.Q. interponeva opposizione, che veniva respinta dal Tribunale di Caltanissetta con ordinanza del 20.02.2017;

– in virtù di appello proposto dal medesimo A., la Corte di appello di Caltanissetta, con sentenza n. 96/2019, rigettava l’impugnazione con compensazione delle spese del grado;

– la decisione di secondo grado evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, evidenziando la sostanziale stabilità della situazione nel Paese di origine del richiedente (Pakistan e specificamente nel Punjab centrale – distretto di Mandi Bahauddin) e per non consentire il suo racconto (denuncia da parte del padre di Imam) di desumere elementi da cui rilevare il fondato timore che il ricorrente potesse subire una persecuzione personale e diretta ovvero un danno grave alla sua persona ove tornasse in patria. Del pari veniva negata la ricorrenza dei presupposti per la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari in difetto di specifica allegazione e dimostrazione di rientrare in categorie soggettive in relazione alle quali erano ravvisabili lesioni di diritti umani di particolare entità, nè erano ravvisabili le condizioni di cui al D.L. n. 286 del 1998, art. 18;

– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione l’ A. affidato a quattro motivi;

– il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Atteso che:

– con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 Cost., D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, art. 6, comma 3, lett. a) della Convenzione dei diritti dell’uomo recepita con L. n. 848 del 1955, art. 14, comma 3 lett. a) recepito dalla L. n. 881 del 1977, del Patto Internazionale relativo i diritti civili e politici, 122 c.p.c. circa la mancata traduzione nella lingua conosciuta dal ricorrente sia della “decisione” della Commissione Territoriale (la parte motiva) sia dell’impugnato decreto, con conseguente nullità dei provvedimenti sostanziandosi nella pronuncia di decisioni non motivate in lingua comprensibile al destinatario.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte la comunicazione della decisione negativa della Commissione territoriale competente, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, deve essere resa nella lingua indicata dallo straniero richiedente o, se non sia possibile, in una delle quattro lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo o arabo, secondo l’indicazione di preferenza), determinando la relativa mancanza l’invalidità del provvedimento; tale vizio, tuttavia, analogamente alle altre nullità riguardanti la violazione delle prescrizioni inderogabili in tema di traduzione, può essere fatto valere solo in sede di opposizione all’atto che da tale violazione sia affetto, ivi compresa l’opposizione tardiva, qualora il rispetto del termine di legge sia stato reso impossibile proprio dalla nullità (da ultimo, ex multis, Cass. n. 16470 del 2019; ma già, Cass. n. 420 del 2001 e Cass. n. 18493 del 2011). Pertanto la parte che censura la decisione che non si sia attenuta all’osservanza di tale obbligo, deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un vulnus all’esercizio del diritto di difesa incidendo sulla correttezza del provvedimento finale, non potendosi genericamente denunciare la mancata osservanza della norma relativa all’obbligo di traduzione (Cass. n. 11295 del 2019; Cass. n. 11871 del 2014; Cass. n. 24543 del 2011).

Da ciò la Corte di legittimità ha dedotto che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 5, non può essere interpretato nel senso di prevedere fra le misure di garanzia a favore del richiedente anche la traduzione nella lingua nota del provvedimento giurisdizionale decisorio che definisce le singole fasi del giudizio, in quanto la norma prevede la garanzia linguistica solo nell’ambito endo-procedimentale e inoltre il richiedente partecipa al giudizio con il ministero e l’assistenza tecnica di un difensore abilitato, in grado di comprendere e spiegargli la portata e le conseguenze delle pronunce giurisdizionali che lo riguardano (così, Cass. n. 23760 del 2019). La disposizione citata, infatti, prevede che in caso di impugnazione della decisione in sede giurisdizionale, allo straniero, durante lo svolgimento del relativo giudizio, sono assicurate le stesse garanzie di cui al presente articolo (l’art. 10). E anche a prescindere dall’argomento testuale, che riferisce la previsione all’ambito endo-procedimentale (“…durante lo svolgimento…”), che di per sè potrebbe essere ritenuto non decisivo, tuttavia il comma precedente (il quarto) dello stesso articolo, dedicato appunto alla garanzia linguistica, statuisce che tutte le comunicazioni concernenti il procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale siano rese al richiedente nella prima lingua da lui indicata, o, se ciò non è possibile, in lingua inglese, francese, spagnola o araba, secondo la preferenza indicata dall’interessato, oltre a prevedere che in tutte le fasi del procedimento connesse alla presentazione ed all’esame della domanda, al richiedente sia garantita, se necessario, l’assistenza di un interprete della sua lingua o di altra lingua a lui comprensibile. Da ciò è stato tratto il convincimento – che va condiviso e a cui va data continuità – che la garanzia linguistica è assicurata per le comunicazioni, preordinate ad assicurare la partecipazione del richiedente, nonchè per tutte le interlocuzioni connesse alla presentazione ed all’esame della domanda, imponendo l’assistenza dell’interprete in caso di contatto diretto fra la parte e il giudice in modo da acquisire al processo un contributo dichiarativo informato e consapevole da parte del richiedente asilo (interrogatorio libero, spontanee dichiarazioni, rinnovo o integrazione del colloquio personale), con l’introduzione di una regola più ampia e protettiva di quella sancita in via generale dall’art. 122 c.p.c., comma 2, ed infine per le produzioni documentali, anche in questo caso introducendo una deroga al regime discrezionale di cui all’art. 123 c.p.c..

La conclusione è stata nel senso che il combinato disposto dell’art. 10, commi 4 e 5, non impone quindi la traduzione in lingua nota al richiedente asilo del provvedimento giurisdizionale con cui il giudice adito definisce il grado del giudizio avanti a lui, in quanto il richiedente asilo, ricorrente in sede giurisdizionale, partecipa al giudizio con il ministero e l’assistenza tecnica di un difensore abilitato, se del caso retribuito dall’Erario attraverso il sistema del patrocinio statuale, perfettamente in grado di comprendere e spiegare al proprio cliente nell’ambito della relazione difensiva (e tenuto a farlo per obbligo professionale), i contenuti, la portata e le conseguenze delle pronunce giurisdizionali che lo riguardano, come d’altro canto, anche in linea generale, nel nostro ordinamento processuale la decisione che definisce il grado di giudizio viene comunicata, normalmente in via telematica, al difensore della parte regolarmente costituita, a cui pure deve essere indirizzata la notificazione dello stesso provvedimento al fine di provocare la decorrenza del termine “breve” per l’impugnazione ai sensi dell’art. 327 c.p.c. (così Cass. n. 23760/2019 cit.).

Ne deriva che lì dove – come nel caso di specie – l’opposizione sia stata tempestivamente proposta mediante la formulazione di censure di merito, ogni questione inerente alla mancata traduzione del provvedimento impugnato è priva di rilievo;

con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la Corte di appello preso in esame solo la sussistenza o meno della protezione sussidiaria ed umanitaria, pur avendo l’appellante denunciato il mancato riconoscimento dello stato di rifugiato politico per essere la persecuzione del ricorrente di tipo religioso.

La censura è inammissibile perchè mira a rappresentare una situazione di fatto diversa, peraltro in forma assolutamente generica, rispetto a quella che risulta dall’esame del materiale istruttorio compiuto dalla Corte d’Appello. In particolare la Corte sulla scorta del più recente rapporto del COI EASO dell’agosto 2017 (alle pagine 57 e 58), ha chiarito che da fonti pubbliche risulta che in Pakistan, e specificamente nel Punjab centrale (distretto di Mandi Bahaiddin), regione dalla quale proviene il ricorrente, non vi sarebbero i gravi pericoli paventati, come richiamati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, precisando che le fonti internazionali che individuano l’area del Punjab pakistano pericolose fanno riferimento alla parte meridionale di quel territorio, in cui operano molte matrasse.

Va, inoltre, precisato quanto alla situazione denunciata che il ricorrente deduce di essere perseguitato per motivi religiosi dall’Imam M. denunciato dal genitore, ragione per la quale non può ritenersi integrata la condizione prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lettera, trattandosi di condizione riferibile ad una sola persona e non sussistendo nel Paese d’origine una situazione per cui l’autorità statale non sia in grado di fornire adeguata ed effettiva tutela, per quanto sopra esposto;

– con il terzo motivo è lamentata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1364,1365,1369,2697 c.c. e segg., artt. 115,116 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4 (in relazione all’art. 156 c.p.c., comma 2), D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3,D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, artt. 6 e 13 CEDU, art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e 46 della direttiva Europea n. 2013/32, per non avere la corte di merito considerato che i familiari delle persone denunciate avrebbero reclamato vendetta anche a distanza di tempo, per cui il giudice – prescindendo da preclusioni o impedimenti processuali – aveva il dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti, compiendo attività istruttoria ufficiosa.

I giudici di merito avrebbero errato nel contestualizzare il racconto del ricorrente (relativo alla denuncia del padre nei confronti dell’imam M. per la morte del proprio figlio, cui aveva fatto seguito altra denuncia del genitore di un ulteriore episodio di violenza verificatosi una sera, quanto il ricorrente non era in casa, occasione nel quale il padre veniva ferito da mandatari dell’imam e cercarono l’ A. per ucciderlo) nel contesto di provenienza, omettendo di indicare la fonte contraria da dove avrebbero attinto l’assenza di violenza indiscriminata del luogo di provenienza del ricorrente.

Con il quarto mezzo è denunciata la violazione delle medesime disposizioni di cui al motivo che precede sotto il profilo di avere addossato al ricorrente un onere probatorio di difficile possibilità di assolvimento in ordine all’assenza di violenza indiscriminata nella regione di provenienza dell’ A..

Parimenti inammissibili sono le allegazioni operate con il terzo ed il quarto motivo – da trattare unitariamente per la evidente connessione argomentativa che le avvince – che ostendono, pur sotto l’apparente veste di un preteso errore di diritto, una critica puramente motivazionale, non più rappresentabile alla stregua del novellato disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quale idoneo vizio cassatorio, e sollecitano perciò una rivisitazione delle risultanze di fatto della vicenda e del giudizio riguardo ad esse enunciato dal giudice di merito, che ha inteso escludere, con ciò sottraendosi pure al denunciato vizio di motivazione apparente, le ragioni di concessione della misura richiesta dando, tra l’altro, atto insieme all’insussistenza di oggettivi fattori di rischio in caso di rimpatrio, rappresentando una situazione nel Punjab centrale come non esposta ai gravi pericoli richiamati dalle norme invocate, dati raccolti da fonte pubblica, quale il report COI EASO dell’agosto 2017.

Va rilevato che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale va accertata in conformità della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), secondo cui il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver, pertanto, raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia.

Eguali considerazioni valgono per la denuncia di omesso svolgimento dell’attività istruttoria quanto al mancato riconoscimento della protezione internazionale per ragioni umanitarie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5.

Invero, alla stregua del dato normativo il richiedente la protezione internazionale è tenuto a presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari” a motivare la domanda medesima, il cui esame è poi destinato ad essere “svolto in cooperazione con il richiedente”, e cioè in un’ottica di sinergica collaborazione, e “riguarda tutti gli elementi significativi della domanda”, misurandosi con l’intero ventaglio dei requisiti rilevanti, siccome presentati dall’interessato, perchè la domanda di protezione internazionale, nelle sue diverse forme, riconoscimento dello status di rifugiato o protezione sussidiaria, possa essere accolta (comma 1). Detto onere di presentazione degli “elementi” e della “documentazione” concerne, in specifico, oltre all’età, alla condizione sociale, se necessario anche dei congiunti, all’identità, alla cittadinanza, ai paesi e luoghi in cui il ricorrente ha soggiornato, le domande d’asilo pregresse, gli itinerari di viaggio, i documenti di identità e di viaggio, anche, e diremmo soprattutto, “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (comma 2). La latitudine degli oneri di allegazione e prova a carico del richiedente emerge altresì dal comma 3 della disposizione, dall’angolo visuale della valutazione della domanda di protezione internazionale, da effettuarsi su base individuale, e cioè in relazione alle circostanze come allegate dal richiedente, valutazione che deve estendersi a tutti i fatti pertinenti concernenti il Paese d’origine; alle persecuzioni o danni gravi che egli deve rendere noto di aver subito o di rischiare di subire; alla situazione individuale ed alle circostanze personali rilevanti al fine di verificare se gli atti indicati, come subiti o paventati, si configurino effettivamente come persecuzione o danno grave; alla condotta del richiedente, ove egli abbia operato al fine di creare le condizioni necessarie alla presentazione della domanda di protezione internazionale, e se ciò lo esponga a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese; all’eventualità che il richiedente possa far ricorso alla protezione di un altro Paese.

Ebbene, laddove l’art. 3 citato stabilisce che il richiedente “è tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”, si riferisce, come si premetteva, tanto agli oneri di allegazione (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso allegare, gli elementi dedotti a sostegno della domanda), quanto a quelli probatori (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso produrre, la documentazione necessaria). E’ allora manifesto come le ragioni fondanti la domanda di protezione, sia sussidiaria sia umanitaria, debbano essere senz’altro anzitutto allegate dall’interessato.

Sicchè, il richiedente ha il preciso onere di offrire agli organi del Paese al quale rivolge la domanda di protezione ogni elemento utile allo scrutinio di essa: e ciò egli deve fare in un’ottica di schietta collaborazione con tali organi, evidente essendo che la previsione normativa, laddove impone di procedere all’esame della domanda di protezione internazionale “in cooperazione con il richiedente”, richiede un atteggiamento collaborativo reciproco, giacchè, sul piano della logica prima ancora che su quello del diritto, non è pensabile che la Commissione territoriale, come pure il giudice, possa cooperare, e cioè operare insieme, ad un richiedente che, al contrario, non offra la collaborazione dovuta.

Il principio è stato così massimato: la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (cfr. Cass. n. 19197 del 2015).

Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti, e con peculiari agevolazioni, come subito si vedrà: in linea di principio, cioè, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale, come si desume dalla già citata previsione che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, non si sottrae, salvo quanto si dirà, all’applicazione delle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dell’art. 2697 c.c., comma 1: con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non sono provati, la domanda è da rigettare.

E difatti è ben possibile che il richiedente, dopo aver assolto l’ineludibile onere di allegare le circostanze poste a sostegno della domanda di protezione internazionale, sia talora in condizione altresì di comprovarne il fondamento; ma è ampiamente intuitivo che egli, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, possa non essere in grado di offrire la prova di dette circostanze: e tale è il contesto in cui la norma in esame tempera il principio dispositivo, disciplinando, tra l’altro, il dovere c.d. di cooperazione istruttoria.

Stabilisce difatti del menzionato art. 3, comma 5, che, qualora taluni elementi posti a sostegno della domanda di protezione internazionale non siano suffragati da prove, prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato, essi sono considerati veritieri ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda, abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi ovvero abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone, e risulti altresì, in generale credibile.

Tale disposizione, è stato detto in una nota decisione che ha enucleato il c.d. dovere di cooperazione istruttoria, “affida all’autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale” (Cass., Sez. Un., 17 novembre 2008 n. 27310).

Accanto al c.d. dovere di cooperazione istruttoria, peraltro, la norma contempla un ulteriore aspetto tale da comprimere il principio dispositivo, laddove consente altresì di porre a base del riconoscimento della protezione internazionale fatti che provati non sono, alla sola condizione che ricorrano le condizioni considerate dell’art. 3, comma 5, in esame.

Facendo il punto di quanto finora si è detto, è evidente, da un lato, che l’attenuazione del principio dispositivo in cui la c.d. “cooperazione istruttoria” consiste si collochi non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova, dacchè l’allegazione deve essere adeguatamente circostanziata; dall’altro lato, che il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova per espressa previsione normativa un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili.

In altri termini, compete al richiedente innescare l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria, per cui egli non incontra difficoltà alcuna ove la sua narrazione sia vera e reale (cfr. Cass. n. 15794 del 2019). La soggezione del richiedente alla valutazione di credibilità, per lo scopo dell’innesco del c.d. dovere di cooperazione istruttoria, lungi dal comprimere o limitare l’esercizio del diritto alla protezione internazionale, ne costituisce viceversa intensa agevolazione: a fronte della regola generale dettata dal citato art. 2697 c.c., in forza del quale l’attore è onerato della prova dei fatti costitutivi della domanda, la speciale disciplina dettata in materia di protezione internazionale offre al richiedente, come si è visto, non solo di cooperare con lui nella ricerca di quelle prove che egli non abbia potuto offrire, ma finanche di credergli pur in difetto di prova.

Nel provvedimento impugnato, il collegio giudicante ha puntualmente scongiurato l’eventualità di un concreto rischio di persecuzione, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ed ha verificato l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente per quanto sopra esposto, ragioni non condivise dal ricorrente.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

La mancata costituzione in questa sede dell’amministrazione intimata esime il Collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dei un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2020

 

 

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