Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21440 del 27/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 27/07/2021, (ud. 30/04/2021, dep. 27/07/2021), n.21440

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17121/2019 R.G. proposto da:

STANLEYBET MALTA LIMITED in persona del suo legale rappresentante pro

tempore rappresentata e difesa giusta delega in atti dall’avv.

Daniela Agnello e con domicilio eletto in Roma presso lo studio

dell’avv. Roberta Feliziani in via Crescenzio n. 69;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, con domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia n. 5171/12/18 depositata il 27/11/2018, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

30/04/2021 dal Consigliere Roberto Succio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza impugnata la CTR rigettava l’appello della contribuente e pertanto confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarata la legittimità dell’atto impugnato, avviso di accertamento relativo al mancato assolvimento dell’imposta unica su concorsi pronostici, oltre a sanzioni ed interessi, per operazioni svoltesi negli anni 2012 e 2013;

– ricorre a questa Corte STANLEYBET MALTA con atto affidato a sette motivi; resiste con controricorso illustrato da memoria l’Amministrazione Finanziaria; la ricorrente ha altresì depositato memoria con la quale illustra i motivi di ricorso, chiede trattarsi la causa in pubblica udienza e insta perché sia disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– preliminarmente, ritiene la Corte che l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza proposta dalla società ricorrente vada in ogni caso qui disattesa; in adesione all’indirizzo già espresso dalle sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Sez. U, n. 14437 del 5 giugno 2018), e non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Sez. U, n. 8093 del 23 aprile 2020). In particolare, la sede dell’adunanza camerate non è incompatibile, di per sé, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo;

– nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio non è neppure nuovo nella giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. poi citate) e, comunque, è compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti da un lato dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e dall’altro da quella unionale (con la sentenza 26 febbraio 2020 in causa C-788/18, relativa alla Stanleybet Malta Limited); e i principi da quelle Corti stabiliti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito;

– altrettanto preliminarmente, va parimenti disattesa l’istanza di sospensione del giudizio formulata in esordio del ricorso; il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti da un lato sia dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) sia da quella unionale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa giustappunto alla Stanleybet Malta Limited); e i principi da quelle Corte stabiliti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito. Così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere adeguata anche la decisione in sede di procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480); neppure si ravvisa la necessità alcuna di promuovere un nuovo rinvio dinanzi alla Corte di giustizia, neppure ponendosi una questione di interpretazione della precedente statuizione della Corte, esaustiva e completa, risolvendosi le deduzioni in una mera critica della sentenza resa nella causa C-788/18, che si rivela sterile per le ragioni esplicate, e, per altro verso, sembra postulare che la Corte di giustizia abbia riconosciuto nella propria giurisprudenza precedente la legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei centri di trasmissione dati, mentre la stessa Corte, “pur avendo constatato l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di alcune disposizioni delle gare avviate per l’attribuzione di contratti di concessione di servizi connessi ai giochi d’azzardo, non si è pronunciata sulla legittimità della gestione delle attività connesse a giochi d’azzardo in regime di libera prestazione per il tramite dei CTD in quanto tale” (Corte giust., in causa C-375/17, cit., punto 67);

– è poi irrilevante la giurisprudenza penale di questa Corte che si riferisce alla diversa questione della rilevanza penale dell’attività d’intermediazione e di raccolta delle scommesse, esclusa, in base alla giurisprudenza unionale, qualora l’attività di raccolta sia compiuta in Italia da soggetti appartenenti alla rete commerciale di un bookmaker operante nell’ambito dell’Unione Europea che sia stato illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni. Il fatto che quel bookmaker non risponda del reato di esercizio abusivo di attività di giuoco o discommessa, previsto e punito dalla L. 13 dicembre 1989, n. 401, art. 4, commi 1 e 4-bis, nessuna influenza produce sulla soggettività passiva della imposta unica sulle scommesse, che il D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, riferisce a chiunque, con o senza concessione, gestisce i concorsi pronostici o le scommesse;

– con il primo motivo di ricorso si denuncia, anche sotto il profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia, la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, nonché degli artt. 24 e 97 Cost., per non avere la CTR, omettendo di pronunciarsi sul punto, ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento in quanto non tradotto, nella copia notificata alla ricorrente, in lingua inglese;

– il motivo è inammissibile, in quanto parte ricorrente, in violazione del canone della c.d. “autosufficienza” dei motivi di ricorso non trascrive nel proprio ricorso per cassazione alcun atto dei gradi del merito dai quali evincersi la tempestiva proposizione della doglianza;

– il secondo motivo si incentra sulla violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, lett. b), in relazione con art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente ritenuto il CTD soggetto passivo del tributo;

– il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 288 del 1998, art. 1, comma 2, lett. b), e degli artt. 1326, 1327 e 1336 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR errato nel ravvisare in capo al CTR il presupposto territoriale del tributo;

– il quarto motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 49 e 56 TFUE, e dei principi del diritto dell’Unione Europea di parità di trattamento e non discriminazione, con riferimento al D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, come interpretato dalla L. di stabilità 2011, art. 1, comma 66, nonché la violazione del principio di legittimo affidamento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la CTR disapplicato il D.Lgs. n. 540 del 1998, art. 3;

– i motivi sono infondati;

– le questioni sono già state oggetto di ripetuta e articolata disamina da parte di questa Corte a partire dalla sentenza n. 8757 del 30 marzo 2021, seguita da numerose altre (tra le tante Cass. nn. 8907-8911 del 2021, Cass. nn. 9079-9081 del 2021, Cass. n. 9144-9153 del 2021, Cass. n. 9160 del 2021, Cass. n. 9162 del 2021, Cass. n. 9168 del 2021, Cass. n. 9176 del 2021, Cass. n. 9178 del 2021, Cass. n. 9182 del 2021, Cass. n. 9184 del 2021, Cass. n. 9160 del 2021, Cass. n. 9516 del 2021, Cass. nn. 9528-9537 del 2021, Cass. nn. 9728-9735 del 2021), le cui motivazioni sono qui espressamente condivise e richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c.. Merita di essere specificamente sottolineato, peraltro, che il quadro normativo pertinente è stato sottoposto all’esame della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso, fornendo chiari elementi per la soluzione degli ulteriori dubbi prospettati con il ricorso. La Corte costituzionale, con riferimento all’ambito soggettivo dell’imposta, ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione del D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 3, per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore con la L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio ed ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti, come nel caso in esame, per conto di bookmakers privi di concessione al versamento del tributo e delle relative sanzioni, svolgendo anch’esse una attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione;

– entrambi i soggetti partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. Della sussistenza di autonomi rapporti obbligatori – che ai fini tributari sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente – non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte (v. anche Cass. 27 luglio 2015, n. 15731), neppure attagliandosi al rapporto tra il bookmaker e ricevitore lo schema della solidarietà dipendente, che ricorre, invece, quando uno dei coobbligati, pur non avendo realizzato un fatto indice di capacità contributiva, si trova in una posizione collegata con il fatto imponibile o con il contribuente, sulla base di un rapporto a cui il fisco resta estraneo (da ultimo Cass. n. 26489 del 2020);

– va rilevato, inoltre, ai fini della territorialità dell’imposizione, che non rileva la conclusione del contratto di scommessa poiché il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione del gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731 del 2015, cit.), attività, queste, tutte svolte in Italia. Neppure è condividibile l’interpretazione propugnata della sentenza della Corte Cost. n. 27/2018, né è configurabile, alla stregua dei principi da essa affermati, una irragionevolezza della norma interpretativa nella parte in cui, prevedendo la imponibilità anche delle scommesse a quota fissa offerte con modalità transfrontaliera in assenza di concessione, non ha tenuto conto che il movimento delle suddette scommesse, proprio in quanto realizzate fuori sistema, non viene rilevato, sicché la base imponibile viene determinata senza considerare il movimento netto reale, essendo le stesse escluse dalla formazione del movimento netto che determina l’applicazione delle aliquote, con la conseguenza che verrebbero applicate aliquote superiori a quelle che avrebbero dovuto applicarsi per legge. Il profilo di censura, del resto, postula solo in astratto la circostanza che l’applicazione della disciplina, di determinazione del movimento netto sul quale commisurare l’aliquota dell’imposta unica anche nel caso di scommettitore privo di concessione, avrebbe determinato l’applicazione dell’aliquota massima che diversamente, ove si fossero considerate anche le scommesse fuori sistema, non sarebbe stata applicata. In realtà, rispetto al criterio di commisurazione dell’aliquota secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1998, art. 4, comma 1, lett. b), n. 3), valevole per tutti i soggetti che svolgono l’attività di raccolta delle scommesse, in alcun modo parte ricorrente deduce o allega in ordine al fatto che l’eventuale considerazione delle scommesse “fuori sistema” avrebbe potuto incidere diversamente sulla determinazione dell’imponibile e sull’applicazione dell’aliquota operata dall’amministrazione doganale secondo le prescrizioni di legge;

– quanto alle prospettate frizioni con il diritto unionale, attenzione specifica va rivolta agli argomenti difensivi prospettati in ricorso ed ulteriormente approfonditi in sede di memoria; in particolare, la ricorrente ha prospettato la violazione del diritto di non discriminazione, di parità di trattamento e del principio di affidamento;

– in memoria, inoltre, il profilo centrale della linea difensiva seguita si fonda, in sostanza sul riconoscimento della liceità dell’attività svolta nel tempo dalla ricorrente, come riconosciuta dalla giurisprudenza penale di questa Corte il che, secondo l’assunto di parte ricorrente, comporterebbe effetti anche sul piano strettamente fiscale e, inoltre, dovrebbe indurre a ritenere che la Corte di giustizia, con la pronuncia del 26 febbraio 2020, non avrebbe preso in considerazione la specificità della “peculiare posizione” nella quale la ricorrente si sarebbe venuta a trovare basata sulla illegittima ed originaria discriminazione dalla stessa subita nel tempo dall’autorità nazionale;

– la linea difensiva seguita dalla ricorrente, più in particolare, si fonda sulla considerazione della natura sanzionatoria dell’intervento normativo di cui alla L. n. 220 del 2010, sicché la disciplina in esso contenuta troverebbe applicazione solo con riferimento allo svolgimento di una attività di gioco illecita, dunque non anche nei confronti della ricorrente, con la conseguenza che, ove applicata nei propri confronti, deriverebbe una violazione del principio di non discriminazione, della parità di trattamento nonché di legittimo affidamento e di libertà di stabilimento determinando, inoltre, un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità, tra le sezioni civili e quelle penali, in ordine alla questione;

– premesso che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata, sicché rileva l’art. 56 TFUE, la Corte di Giustizia, 26 febbraio 2020, causa C-788/18, ha preso diretta e specifica cognizione proprio delle medesime questioni sollevate con il ricorso, ed ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perché l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21 di Corte giust. in causa C-788/18), di modo che la normativa italiana “non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la Stanleybet Malta, nello Stato membro interessato. Inoltre, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza unionale, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: per conseguenza, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte giust. 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07). Il legislatore nazionale ha proceduto a quep.ta valutazione, dichiarando, nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 64, i propri obiettivi, tra i quali si colloca “…l’azione per la tutela dei consumatori, in particolare dei minori di età, dell’ordine pubblico, della lotta contro il gioco minorile e le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore del gioco e recuperando base imponibile e gettito a fronte di fenomeni di elusione e di evasione fiscale nel medesimo settore”.

– orbene, la Corte di Giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmaker nazionali e bookmaker esteri. Anzi, come ha pure sottolineato la Corte costituzionale (ancora con la sentenza n. 27/18), a seguire la tesi prospettata in ricorso e ribadita in memoria si giungerebbe ad una discriminazione al contrario: la scelta legislativa “risponde ad un’esigenza di effettività del principio di lealtà fiscale nel settore del gioco, allo scopo di evitare l’irragionevole esenzione per gli operatori posti al di fuori del sistema concessorio, i quali finirebbero per essere favoriti per il solo fatto di non aver ottenuto la necessaria concessione…”. Ne’ vi è incongruenza, poi, tra i punti 17, 26 e 28 di quella sentenza. Col punto 17, in relazione al bookmaker, ci si limita a stabilire in via generale che la libera prestazione di servizi non tollera restrizioni idonee a vietare, ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro; ma col punto 24 si specifica, in concreto, che, “…la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non prevede un regime fiscale diverso a seconda che la prestazione di servizi sia effettuata in Italia o in altri Stati membri”; sicché, si conclude col punto 24, “…rispetto a un operatore nazionale che svolge le proprie attività alle stesse condizioni di tale società, la Stanleybet Malta non subisce alcuna restrizione discriminatoria a causa dell’applicazione nei suoi confronti di una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale”. Quanto al centro trasmissione dati, il punto 26 si limita a ribadire che il bookmaker estero esercita un’attività di gestione di scommesse “allo stesso titolo degli operatori di scommesse nazionali” ed è per questo che il centro di trasmissione dati che opera quale suo intermediario risponde dell’imposta, a norma della L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, lett. b), ma ciò non toglie – punto 28 – che la situazione del centro trasmissione dati che trasmette i dati di gioco per conto degli operatori di scommesse nazionali è diversa da quella del centro trasmissione ché li trasmette per conto di un operatore che ha sede in altro Stato membro;

– la diversità della situazione è in re ipsa, per il fatto stesso che si tratta di soggetto che raccoglie scommesse per conto di un bookmaker estero: nel settore dei giochi d’azzardo, difatti, il ricorso al sistema delle concessioni costituisce “…un meccanismo efficace che consente di controllare gli operatori attivi in questo settore, allo scopo di prevenire l’esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti” (Corte giust. 19 dicembre 2018, causa C-375/17, Stanley International Betting e Stanleybet Malta, punto 66, richiamata al punto 18 della sentenza in causa C-788/18, cit.); e ciò in conformità agli obiettivi esplicitamente perseguiti dal legislatore italiano (L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 644), come puntualmente rimarcato dalla Corte di giustizia;

– le suddette considerazioni rendono dunque priva di ogni fondamento sia l’asserita assimilazione dell’imposizione alle sanzioni, ipotizzandone una oggettiva finalità afflittiva, che, invece, è del tutto assente attesa la riferibilità della pretesa ad ordinari, seppur specifici, meccanismi impositivi e l’assenza, come su evidenziato, di caratteri discriminatori, sia la prospettata esistenza di un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione;

– la ricorrente, infatti, è considerata soggetto passivo d’imposta proprio per avere realizzato, per il tramite di propri centri di trasmissione dati operanti in Italia, il presupposto impositivo dell’imposta in esame;

– la giurisprudenza penale di questa Corte (Cass. pen., 10 settembre 2020, n. 25439), poi, ha esaminato la questione relativa alla realizzazione del reato di cui alla L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4bis, ritenendo di dovere escludere la sussistenza del reato de quo in base alla considerazione che la ricorrente era stata “illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni…e la successiva trasmissione di dette scommesse all’allibratore non possono essere punite ai sensi della L. n. 401 del 1989, art. 4, comma 4 bis, dovendosi disapplicare la disciplina penale nazionale per contrasto con la normativa dell’Unione Europea”;

– il riconoscimento della natura non illecita dell’attività svolta dalla ricorrente, tuttavia, non implica la sottrazione della stessa dall’ambito della disciplina dell’imposta unica, anzi, postula proprio la realizzazione del presupposto di imposta, secondo la specifica declinazione contenuta nella L. n. 220 del 2010, art. 1, comma 66, che ha, come visto, disposto che: “Ferma restando l’obbligatorietà, ai sensi della legislazione vigente, di licenze, autorizzazioni e concessioni nazionali per l’esercizio dei concorsi pronostici e delle scommesse, e conseguentemente l’immediata chiusura dell’esercizio nel caso in cui il relativo titolare ovvero esercente risulti sprovvisto di tali titoli abilitativi, ai soli fini tributari: a) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 1, si interpreta nel senso che l’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) il D.Lgs. 23 dicembre 1998, n. 504, art. 3, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni”;

– l’applicabilità della previsione normativa in esame esclude altresì che possa porsi una questione di violazione del principio di non discriminazione o di libertà di stabilimento, secondo quanto ulteriormente esposto in memoria, basata sulla considerazione della natura lecita dell’attività svolta, ovvero ancora che possa ritenersi che la Corte di Giustizia, con la pronuncia citata non abbia preso in considerazione la “specifica – situazione” nella quale la ricorrente ha dovuto operare;

– a parte il rilievo che il pregiudizio subito risulta solo affermato, ma non concretamente precisato e specificato, quel che rileva, come detto, è il fatto che la ricorrente, per il fatto di avere realizzato in Italia l’attività di gestione della raccolta delle scommesse per il tramite di propri centri di trasmissione dati, ha realizzato il presupposto dell’imposta e, dunque, è da considerarsi soggetto passivo del tributo e, sotto tale profilo, va fatto richiamo alla pronuncia della Corte di giustizia che, sul punto, ha escluso ogni violazione dei principi unionali citati;

– in ultimo, quanto all’asserita violazione del principio dell’affidamento, prospettata in relazione alla portata innovativa della disposizione interpretativa della legge del 2010 che avrebbe introdotto, “improvvisamente e imprevedibilmente” la responsabilità delle ricevitorie dei bookmaker privi di concessione, al di là dei profili di inammissibilità della censura con riferimento alla posizione del ricevitore, in ordine alla quale, peraltro, la Corte costituzionale, con la sentenza citata, si è già espressa con la pronuncia di incostituzionalità relativamente alla portata innovativa retroattiva della norma, va rilevato, quanto alla posizione del bookmaker estero, che la stessa Corte costituzionale non ha posto in discussione il fatto che costui, anche privo di concessione, doveva essere considerato soggetto passivo dell’imposta unica anche prima della entrata in vigore della disposizione interpretativa, sicché non può porsi alcuna violazione del principio del legittimo affidamento;

– il quinto motivo di ricorso si incentra sulla violazione e falsa applicazione della Dir. n. 2006/112 CE, art. 401, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la CTR disapplicato la normativa di cui al D.Lgs. n. 504 del 1998, in ragione della sua contrarietà al divieto di mantenere o introdurre imposte sul volume d’affari diverse dall’IVA, tributo armonizzato;

– anche questo motivo non ha fondamento;

– il tributo che qui rileva è differente da una imposta sulla cifra di affari per plurime ragioni: riguarda unicamente operazioni relative all’esercizio delle scommesse, irrilevanti a fini IVA; non tiene conto del valore aggiunto di ciascuna, difettando nel sistema il meccanismo della detrazione IVA e applicandosi il tributo all’importo scommesso; è calcolata senza alcun riconoscimento di deduzione degli acquisti di beni e servizi inerenti effettuati nel periodo in cui sono poste in essere le operazioni di scommessa. Non rilevano quindi i soli fatti consistenti nella proporzionalità, nell’esser riscossa a ogni fase e nella sua traslazione in capo al consumatore, evidenziati in ricorso, anche perché (come con evidente contraddizione logica e giuridica si ammette proprio in ricorso per cassazione) proprio la disciplina IVA che si cita da parte del ricorrente, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 2, proclama esenti dal tributo armonizzato le operazioni in parola con ciò evitando il concorrere di due imposte sul medesimo volume d’affari. Effetto del tutto risolutivo e dirimente ha sul punto, il chiaro dictum del Giudice Unionale (CGUE, sent. n. 24 ottobre 2013 in causa n. C-440/2012), Metropol Spielstatten Unternehmergesellschaft(haftungsbeschrankt) secondo il quale “in forza della Dir. IVA, art. 401, “le disposizioni di (tale) direttiva non vietano ad uno Stato membro di mantenere o introdurre imposte (…) sui giochi e sulle scommesse, (…) e qualsiasi imposta, diritto o tassa che non abbia il carattere di imposta sul volume d’affari (…)”. La formulazione di tale articolo non osta, pertanto, a che gli Stati membri assoggettino un’operazione all’IVA, nonché, in modo cumulativo, a un tributo speciale non avente il carattere d’imposta sul volume d’affari (v., in tal senso, la sentenza dell’8 luglio 1986, Kerrutt, 73/85, Racc. pag. 2219, punto 22)”. Secondo la ridetta pronuncia, quindi, la Dir. 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, art. 401, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, in combinato disposto con la stessa, art. 135, paragrafo 1, lett. i), deve essere interpretato nel senso che l’imposta sul valore aggiunto e un tributo speciale nazionale sui giochi d’azzardo possono essere riscossi in modo cumulativo, a condizione che siffatto ultimo tributo non abbia il carattere di un’imposta sul volume d’affari; inoltre, sempre secondo tal sentenza, la Dir. n. 112 del 2006, art. 1, paragrafo 2, prima frase, e l’art. 73, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una disposizione o a una prassi nazionale secondo cui, per la gestione di apparecchi per giochi d’azzardo con possibilità di vincita, l’importo dei proventi di cassa di tali apparecchi dopo che è trascorso un determinato periodo di tempo viene considerato come base imponibile;”

– è pure infondato il sesto motivo di ricorso, col quale si denuncia la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 8, art. 5, comma 1, e art, 6, comma 2, e della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, perché il giudice d’appello non ha applicato l’esimente data dalle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si si riferiscono. Ritiene la Corte che limitatamente al periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010, la stessa Corte costituzionale abbia dato adeguato conto di come la sussistenza di tale incertezza è stata espressamente riconosciuta dall’Agenzia autonoma dei monopoli di Stato. Il motivo è pertanto – in questa fattispecie – infondato in quanto la controversia è relativa ad un provvedimento impositivo emesso con riguardo a operazioni di gioco risalenti al 2012 e 2013, periodo successivo alla legge d’interpretazione autentica n. 220 del 2010, la quale ha appunto sciolto ogni incertezza;

– il settimo motivo si incentra, infine, in un suo primo profilo, sulla violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 12 e 15, e artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR disposto la liquidazione delle spese in favore dell’Amministrazione Finanziaria rappresentata da proprio funzionario e in subordine per non aver disposto la compensazione delle spese in difetto di presentazione di nota;

– il motivo è evidentemente infondato;

– la questione della legittimità della condanna alle spese a favore dell’Erario nel caso di soccombenza del contribuente è stata esaminata anche sotto i profili di rilevanza costituzionale;

– per quanto infatti la Corte Costituzionale l’abbia sul punto affrontata solo in rito (Corte Cost. n. 292 del 2010), la stessa per quanto rilevante risulta manifestamente priva di fondamento alla luce sia dei principi generali del processo civile in tema di spese di giudizio, che pare ricorrente invoca rimandando impropriamente agli artt. 91 e 92 c.p.c., sia alla luce dell’interpretazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, adottata da questa Corte;

– va esclusa ogni contrarietà di tal previsione ridetta rispetto all’art. 76 Cost., anche considerando che la L. delega n. 413 del 1991 (esercitata con il D.Lgs. n. 546 del 1992); due sono le ragioni che contrastano con successo la tesi della illegittimità: la prima risiede nella evidente superfluità di tal previsione; stante il richiamo del D.Lgs. n. 546 del 1002, art. 1 comma 2, al codice di rito, che contiene la disciplina delle spese di giudizio. Ciò dato, è evidente che al processo tributario, pure nei confronti dell’Ente impositore che pacificamente ne è parte, trova applicazione anche detta disciplina. E per vero la L. n. 413 del 1991, art. 30, ha invece espressamente inserito tra i principi e criteri direttivi della legge delega – in evidente connessione con l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica per le parti private e ai fini di, ridurre il numero delle controversie – la previsione di un modello processuale fondato sul principio processuale civilistico della soccombenza, disponendo alla lett. i) che la legge delegata avrebbe dovuto prevedere la “i) disciplina dell’assistenza tecnica delle parti diverse dall’Amministrazione avanti agli organi della giustizia tributaria ad opera di avvocati, procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali iscritti nell’apposito albo e, nelle materie di rispettiva competenza, ad opera di altri esperti in materia tributaria iscritti in albi o ruoli o elenchi istituiti presso l’intendenza di finanza competente per territorio; previsione dell’assistenza delle parti diverse dell’amministrazione ad opera di avvocati, procuratori legali, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali iscritti nell’apposito albo, consulenti del lavoro, consulenti tributari, ovvero mediante procuratore generale o speciale nei procedimenti davanti alle commissioni tributarie ai sensi della lettera b); regime delle spese processuali in base al principio della soccombenza (sottolineatura aggiunta); previsione della facoltà dell’Amministrazione di affidare il patrocinio all’Avvocatura dello Stato nel giudizio di secondo grado”;

– non solo: anche avendo riguardo alla sostanziale natura semi-sanzionatoria di tal condanna alle spese a carico del contribuente soccombente, non è vero infatti, che quanto liquidato a titolo di spese non costituisce per l’Ufficio vittorioso il rimborso di un costo ma unicamente un suo arricchimento; questa Corte ha già chiarito come (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24675 del 23/11/2011) in tema di contenzioso tributario, all’Amministrazione finanziaria (nella specie, l’Agenzia delle Dogane) assistita in giudizio dai propri funzionari, in caso di vittoria nella lite, spetta, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15, comma 2 bis, la liquidazione delle spese che va effettuata applicandosi la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato. Tal importo vale come sostanziale ristoro per la sottrazione del funzionario delegato alla difesa giudiziale dalli attività lavorativa ordinaria, utilizzabile altrimenti in compiti interni di ufficio e tenuto conto dell’identità della prestazione professionale profusa dal funzionario rispetto a quella del difensore abilitato, in forza della qual circostanza è prevista appunto la riduzione ex lege prevista del venti per cento rispetto ai compensi spettanti agli avvocati;

– in ultimo, con riguardo alla mancata produzione della nota spese osserva la Corte che la condanna al pagamento delle spese processuali costituisce una conseguenza legale della soccombenza ed alla relativa pronuncia il giudice provvede anche d’ufficio, indipendentemente dalla domanda della parte vittoriosa e dall’Unione al fascicolo della nota spese come stabilito dall’art. 75 disp att. c.p.c., qui applicabile in forza del rinvio operato dal D.Lgs. n. 546 del 1992 al codice di rito civile, poiché l’inosservanza di questa norma non esclude il potere/dovere del giudice di liquidare le spese e gli onorari in base agli atti di causa;

– il motivo contiene poi un secondo profilo, con il quale ci si duole della mancata compensazione delle spese da parte della CTR, a fronte della complessità e peculiarità dell’argomento giuridico trattato;

– il motivo è infondato; non può essere censurata ammissibilmente la mancata compensazione delle spese processuali, in quanto appartiene alla discrezionalità del giudice di merito, sicché l’omessa compensazione non è censurabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo della carenza di motivazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15502 del 6 dicembre 2000; Cass., sez. un., 15 luglio 2005, n. 14989; Cass. 26 aprile 2019, n. 11329);

– in ultimo, è evidente che le questioni giuridiche di fondo poste nel primo, nel secondo e nel quarto motivo di ricorso hanno effettivamente trovato completa e definitiva soluzione solo con le pronunce della CGUE e del Giudice delle Leggi di cui si è detto in precedenza, entrambe successive alla sentenza impugnata come al ricorso per cassazione; le spese del giudizio di Legittimità sono quindi compensate;

– conclusivamente, il ricorso è rigettato;

– sussistono i presupposti per il c.d. “raddoppio” del contributo unificato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; compensa le spese del presente giudizio di Legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2021

 

 

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