Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21439 del 16/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 16/08/2019, (ud. 04/06/2019, dep. 16/08/2019), n.21439

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

Dott. DE MARINI Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17964-2018 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BENEDETTO

CAIROLI 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELO ABIGNENTE, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGIA GAUDINO;

– ricorrente –

contro

MOSTRA D’OLTREMARE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 23,

presso lo studio dell’avvocato PATRIZIO MARIA RAIMONDI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4949/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 18/12/2017 R.G.N. 4313/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/06/2019 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati ANGELO ABIGNENTE e GIORGIA GAUDINO;

udito l’Avvocato ANTONIO ARMENTANO per delega verbale Avvocato

PATRIZIO MARIA RAIMONDI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 4949 depositata il 18.12.2017 la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Modena, ha confermato la illegittimità del licenziamento intimato in data 30.9.2013 a C.C., dirigente della società Mostra d’Oltremare s.p.a. con funzioni di direttore Marketing, per aver favorito l’affidamento di incarichi professionali alla sua compagna ed alle aziende nelle quali erano interessati lei ed il fratello, con conseguente rigetto della domanda di pagamento dell’indennità supplementare di cui all’art. 31 del contratto collettivo dirigenti aziende commerciali nonchè di ulteriori emolumenti retributivi richiesti e del rimborso delle spese legali sostenute in relazione al processo penale incardinato per i medesimi fatti.

2. La Corte, per quel che interessa, confermata la tempestività e la specificità della lettera di contestazione degli addebiti disciplinari, ha ritenuto che sulla materialità dei fatti contestati non vi fosse adeguata censura da parte del lavoratore appellante e, al contempo, fosse stata raccolta prova sufficiente in ordine alla responsabilità del C. e che, al contrario, nessun elemento probatorio suffragasse il dedotto demansionamento, il vantato diritto ai premi di produttività e, infine, che l’interpretazione dell’art. 23 del CCNL applicato non consentisse al lavoratore di richiedere il rimborso delle spese legali affrontate per il giudizio penale ove le condotte fossero, come nel caso di specie, estranee e contrarie alle funzioni e alle responsabilità del dirigente, il cui scopo era quello di agire a favore dell’impresa e non per sè stesso o per terzi soggetti.

3. Per la cassazione della sentenza il C. ha proposto ricorso affidato a sette motivi, illustrati da memoria. La società ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con i primi due motivi del ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., art. 115 c.p.c., L. n. 604 del 1966, art. 5, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il C. aveva chiesto di provare che gli incarichi – affidati alla compagna ed a società a lei riconducibili – erano stati conferiti direttamente dal Presidente del consiglio di amministrazione e che i fatti oggetto delle contestazioni disciplinari mosse dalla società ed emersi in sede penale, nel corso delle indagini preliminari, erano stati oggetto di puntuale replica e di richiesta di prova testimoniale.

2. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 111 Cost. nonchè omesso esame di un fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, avendo, la Corte distrettuale, fondato esclusivamente la decisione sugli elementi acquisiti in sede di indagini preliminari violando il principio del contraddittorio.

3. Con il quarto motivo si denuncia nullità della sentenza per error in procedendo in relazione all’art. 115 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, avendo, la mancata ammissione delle prove dedotte dal C., condizionato il regolare svolgimento del processo.

4. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia violazione, falsa interpretazione ed applicazione dell’art. 23 del CCNL 31.7.2013 dirigenti del settore Terziario, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, trascurando, la Corte distrettuale, che la clausola contrattuale concerne la responsabilità civile, penale, erariale per l’attività svolga dal dirigente nell’esercizio delle sue funzioni e che in caso di responsabilità penale non viene operata alcuna distinzione tra esercizio conforme o non alle norme di legge o di regolamento, salvo il caso di dolo o colpa grave accertati con sentenza passata in giudicato.

5. Con il sesto ed il settimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1350 e 2077 c.c. nonchè nullità della sentenza per error in procedendo in relazione all’art. 115 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, trascurando, la Corte distrettuale, che il premio di produttività aveva carattere continuativo e che la società non aveva contestato la formazione di una prassi e non essendo stata ammessa la prova articolata dal C..

6. I primi quattro motivi di ricorso sono inammissibili.

6.1. Va osservato che, nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nella rubrica dei motivi di ricorso, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti.

Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicchè le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. n. 21486 del 2011; Cass. n. 9043 del 2011; Cass. n. 313 del 2011; Cass. n. 20731 del 2007; Cass. n. 18214 del 2006).

La sentenza in esame (pubblicata dopo l’11.9.2012) ricade sotto la vigenza della novella legislativa concernente l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (D.L. 22 giugno 2012, n. 83 convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134). L’intervento di modifica, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014), comporta una ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto, che va circoscritto al “minimo costituzionale”, ossia al controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta).

Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, nè gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori.

La Corte distrettuale, conformemente al giudice di primo grado, rilevato che “è del tutto pacifico che egli ( C.) non avesse potere di firma degli atti presidenziali”, ha sottolineato che la contestazione disciplinare aveva ad oggetto non l’abuso di firma bensì condotte di natura diversa (“volte a favorire l’attribuzione degli incarichi alla C. ed alle società facenti riferimento a lei ed a suo fratello F.”), ritenute correttamente provate dal Tribunale alla luce delle “dettagliate dichiarazioni rese dalle persone escusse nel corso delle indagini preliminari”, dichiarazioni contestate solo genericamente dal C.. La Corte ha, poi, riportato il nucleo determinante di dette dichiarazioni concernenti campagne pubblicitarie effettuate per conto della società Mostra d’Oltremare ovvero gare bandite per l’affidamento dell’organizzazione di fiere dalle quali ha ritenuto emergere “prova adeguata della responsabilità disciplinare del C.” e in ordine alle quali non ha ritenuto di rinvenire “adeguata censura” (pag. 12 della sentenza impugnata).

6.2. La citata sentenza n. 8053 del 2014 delle S.0 di questa Corte ha chiarito, riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una questio facti, che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 consente tale denuncia nei limiti dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

In proposito, è stato altresì chiarito che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. cit.). Nessuna di tali prescrizioni è stata osservata dal ricorrente, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso prospettato ex art. 360, comma 1, n. 5.

6.3. In ordine alle doglianze di mancata ammissione della prova testimoniale, si tratta di questione che non risulta affatto affrontata nella sentenza impugnata e il ricorrente non indica in quale atto difensivo e in quale momento processuale la questione sarebbe stata introdotta, le ragioni del suo rigetto ed i motivi con i quali è stata riproposta al giudice del gravame, con ciò violando gli oneri di autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass., n. 23675 del 2013; Cass. n. 23073 del 2015). Esse sono, pertanto, inammissibili.

6.4. Infine, quale ulteriore profilo di inammissibilità, va altresì rilevato che nel caso di specie opera la modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia “doppia conforme”.

Invero, nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, (applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. nn. 26774 del 2016, Cass. n. 5528 del 2014). Tale disamina non è stata svolta dal ricorrente.

7. Il quinto motivo di ricorso non è fondato.

L’art. 23 del CCNL dirigenti aziende commerciali del 2013, recante rubrica “Responsabilità civili e penali”, recita:

“1. Nei casi in cui le norme di legge o di regolamento attribuiscano al dirigente specifiche responsabilità civili, o penali e erariali, egli deve disporre dei poteri effettivi e dell’autonomia decisionale necessari per agire secondo le prescrizioni di tali norme.

2. Le responsabilità e le conseguenze di natura civile verso terzi, causate da violazioni delle norme suddette, commesse dal dirigente nell’esercizio delle sue funzioni, sono a carico del datore di lavoro.

3. In caso di procedimento penale – di ogni grado – a carico di un dirigente, per fatti relativi alle sue funzioni e responsabilità, tutte le spese e gli eventuali oneri sono a carico del datore di lavoro, comprese quelle di assistenza legale.

4. La scelta del difensore, ove non sia concordata tra le parti, spetta al datore di lavoro, ma il dirigente avrà sempre facoltà di farsi altresì assistere da un legale di propria fiducia con onere a carico del datore di lavoro stesso.

5. Il rinvio a giudizio del dirigente per fatti attinenti all’esercizio delle funzioni attribuitegli non giustifica, di per sè, il licenziamento.

6. Le garanzie e le tutele di cui sopra si applicano anche posteriormente alla cessazione del rapporto di lavoro e possono essere assicurate anche attraverso la stipula di apposita polizza, con onere a totale carico dell’azienda.

7. In caso di privazione della libertà personale il dirigente avrà diritto alla conservazione del posto con corresponsione della retribuzione di fatto.

8. Le garanzie e le tutele di cui ai commi precedenti sono escluse nei casi di dolo o colpa grave del dirigente, accertati con sentenza passata in giudicato.”.

7.1. Tanto premesso, va osservato che la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 è parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto, sicchè, anch’essa comporta, in sede di legittimità, la riconducibilità del motivo di impugnazione all’errore di diritto, direttamente denunciabile per cassazione, senza che sia necessario indicare, a pena di inammissibilità, il criterio ermeneutico violato (Cass. n. 19507 del 2014, nonchè Cass. n. 6335 del 2014, 18946 del 2014).

7.2. Il ricorso si incentra sull’interpretazione delle espressioni recate al comma 3, ove si prevede che le spese dei procedimenti a carico dei dirigenti per fatti relativi alle sue funzioni e responsabilità sono poste a carico del datore di lavoro.

7.3. Al riguardo va osservato che l’interpretazione complessiva delle clausole contenute nell’art. 23 consente di ritenere che la comune intenzione delle parti sociali – in sede di enucleazione dei criteri per l’assunzione, a carico del datore di lavoro, delle spese affrontate dal dirigente in caso di responsabilità civili e penali – ha considerato, innanzitutto, la correlazione tra l’esercizio di poteri e autonomia decisionale con l’assunzione di specifiche responsabilità previste da norme di legge o di regolamento ed ha, poi, differenziato la tutela a seconda che si tratti di responsabilità civile verso terzi (ove la manleva del datore di lavoro è prevista anche in caso di violazione, da parte del dirigente, delle norme che disciplinano tali funzioni e responsabilità) ovvero di responsabilità penale (ove la manleva è circoscritta all’operato tenuto dal dirigente in conformità delle norme che prevedono funzioni e responsabilità).

7.4. Invero, come correttamente sottolineato dalla sentenza impugnata, opera il criterio dell’attinenza con l’esercizio delle funzioni attribuite e l’espressione usata dalle parti sociali nel comma 1 (“Nei casi in cui le norme di legge o di regolamento attribuiscano al dirigente specifiche responsabilità civili, o penali e erariali, egli deve disporre dei poteri effettivi e dell’autonomia decisionale necessari per agire secondo le prescrizioni di tali norme”) e ripresa nel comma 3 (“fatti relativi alle sue funzioni e responsabilità”) impone di indagare sul grado di connessione tra il comportamento del dirigente ed i fatti oggetto del procedimento cui si riferisce la richiesta di rimborso spese. Interpretando le une per mezzo delle altre le diverse espressioni contenute nell’art. 23 del CCNL emerge chiaramente che le parti hanno fatto riferimento al criterio dell’attinenza dei fatti alle esercizio delle funzioni per stabilire il diritto del dipendente di ricevere il ristoro delle spese di difesa dei relativi procedimenti civili e penali.

Nè la previsione che il nesso causale viene interrotto in caso di dolo o colpa grave (comma 8) può avere diretto rilievo nella individuazione dell’area dei procedimenti connessi con le funzioni del dirigente, restando da chiarire prima quali siano i procedimenti per i quali opera la garanzia, per poi eventualmente applicarvi la clausola limitativa.

7.5. Si tratta di interpretazione che enuclea il significato della clausola proprio mediante l’utilizzo di tutti i canoni interpretativi e alla quale il ricorrente oppone la propria, senza, però, dare reale contezza di errori nell’applicazione dei canoni ermeneutici da parte della Corte territoriale.

7.6. Invero, questa Corte ha già affermato che i presupposti per invocare la tutela di cui all’art. 23 del CCNL dirigenti settore Terziario sono l’accertamento della diretta specifica riconducibilità delle azioni del dirigente (oggetto del procedimento penale) alle ordinarie attività e funzioni proprie della sua posizione lavorativa, oltre alla esclusione dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, sul quale solo il giudice penale può esprimersi, con sentenza della quale è richiesto il passaggio in giudicato (cfr. Cass. n. 22774 del 2016).

7.7. Ebbene, nel caso di specie la Corte distrettuale, con apprezzamento di merito insindacabile presso questa sede, ha ritenuto che “i fatti di rilievo penale per i quali si sono svolte le indagini preliminari (e che hanno dato luogo ad autonoma responsabilità disciplinare, come sopra detto) sono estranei e contrari alle funzioni e responsabilità del dirigente il cui scopo deve essere quello di agire a favore dell’impresa e non per sè stesso e per terzi soggetti (come sopra già ampiamente individuati nella sua compagna e nelle aziende a lei facenti capo, per le ragioni già tutte sopra esposte)”. Muovendo da una corretta ricostruzione esegetica dell’art. 23 CCNL, la Corte distrettuale ha, dunque, escluso l’operatività nel caso di specie della tutela a favore del dirigente.

8. Va, dunque, espresso il seguente principio di diritto: l’art. 23, comma 3, del CCNL personale dirigente settore Terziario 31.7.2013 va interpretato nel senso che il diritto del dipendente di ricevere il ristoro delle spese di difesa nell’ambito dei procedimenti penali sorge in caso di attinenza dei fatti all’esercizio delle ordinarie attività e funzioni proprie della posizione lavorativa dello stesso.

9. Il sesto ed il settimo motivo di ricorso sono inammissibili.

Si tratta, a ben vedere, di censure rivolte direttamente contro la sentenza di primo grado e non contro la sentenza di appello in quanto – come illustrato dalla sentenza impugnata – il C. reitera la doglianza relativa alla natura continuativa e stabile dell’emolumento preteso senza misurarsi con la puntuale motivazione esposta dal giudice di appello (sulla inammissibilità di siffatte censure v. Cass. n. 5637 del 2006, Cass. nn. 11026 e 15952 del 2007, Cass. n. 6733 del 2014).

Invero, la Corte distrettuale ha precisato che, come risultava dal contratto individuale stipulato tra le parti, i presupposti per l’erogazione del premio di produttività erano la fissazione annuale degli obiettivi da raggiungere e la valenza positiva del margine operativo netto del bilancio di esercizio annuale, condizioni non risultate provate; ha, inoltre, precisato che non era sufficiente la deduzione della continuità, nel tempo, dell’erogazione del suddetto emolumento, in quanto mancava la prova della ricorrenza dei presupposti per integrare il c.d. uso aziendale, ossia l’erogazione generalizzata del premio (“non avendo, il C., documentato se non quello che egli stesso ha ricevuto e non essendovi deduzioni specifiche in merito agli altri dipendenti o dirigenti”, v. pag. 15 della sentenza impugnata). Tali argomentazioni non sono state confutate dal ricorrente.

10. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite sono regolate secondo il principio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.

11. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 agosto 2019

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