Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21435 del 06/10/2020

Cassazione civile sez. I, 06/10/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 06/10/2020), n.21435

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 722/2019 proposto da:

H.R., elettivamente domiciliato presso la I sezione Civile

della Suprema Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIUDICE EMANUELE;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei

Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, depositato il

06/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/06/2020 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Venezia, con decreto depositato in data 6.12.2018, ha rigettato la domanda di H.R., cittadino del (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.

E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero i presupposti per il riconoscimento in capo al ricorrente dello status di rifugiato, non essendo il suo racconto stato ritenuto credibile (il ricorrente aveva riferito di essersi allontanato dal Pakistan a seguito dell’omicidio di un suo amico di religione cristiana perpetrato da un ufficiale di polizia che lo fece arrestare e minacciò di accusarlo di tale omicidio se non fosse scappato).

Inoltre, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria, il giudice di merito ha evidenziato l’insussistenza del pericolo per il ricorrente di essere esposto a grave danno in caso di ritorno nel suo paese di provenienza.

Infine, il ricorrente non è stato comunque ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari, non essendo stata allegata una sua specifica situazione di vulnerabilità personale.

Ha proposto ricorso per cassazione H.R. affidandolo a tre motivi. Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata censurata la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Contesta il ricorrente il giudizio di non credibilità formulato dal Tribunale di Venezia, il quale si è limitato a rilevare la genericità della narrazione senza entrare nel merito dei fatti dallo stesso raccontati anche al solo fine di confutarli.

2. Il motivo è inammissibile.

Va, in primo luogo, osservato che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Cass. n. 3340 del 05/02/2019).

Nel caso di specie, la motivazione del Tribunale soddisfa il requisito del “minimo costituzionale”, secondo i principi di cui alla sentenza delle Sezioni Unite n. 8053/2014), essendo state indicate in modo dettagliato le ragioni per le quali il richiedente non è stato ritenuto credibile (genericità della descrizione dell’omicidio cui il richiedente avrebbe assistito nell’anno 2008, intenzione dello stesso di tornare in Pakistan nel 2015, incompatibile con il timore ora espresso di rimpatrio, generica descrizione delle persone che avrebbero assaltato la sua casa a colpi di arma da fuoco dopo aver affermato su facebook di essere rientrato nel suo paese d’origine).

Il ricorrente si è limitato a contestare nel merito i summenzionati rilievi del giudice di merito, invocando la verosimiglianza dei suo racconto, senza neppure allegare la eventuale grave anomalia motivazionale del decreto impugnato, come detto, unico vizio attualmente censurabile in Cassazione.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n.

n. 286 del 1998, art. 5, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 32, comma 3.

Lamenta il ricorrente che nel provvedimento del Tribunale è assente ogni aspetto di indagine e valutazione della eventuale condizione di vulnerabilità, non tenendosi conto del fatto che il ricorrente mancava dal suo paese da circa otto anni nonchè della situazione di generale instabilità del medesimo.

4. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1 e 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.

Lamenta il ricorrente che il giudice di merito è venuto meno al proprio dovere di integrazione istruttoria ufficiosa a seguito del rappresentato timore per la propria vita, in caso di ritorno in Pakistan, in relazione all’omicidio cui aveva assistito.

6. Il secondo ed il terzo motivo, da esaminare unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono inammissibili.

Va preliminarmente osservato che il giudice di merito ha evidenziato alla luce di una fonte internazionale qualificata, quale il rapporto Easo, che la regione del Punjab, pur con delle tensioni, è stata caratterizzata negli ultimi anni da un tasso di violenza decisamente inferiore rispetto ad altre regioni del Pakistan, non essendo in essa radicate le organizzazioni dei talebani ed essendoci stato un calo degli attentati terroristici del 69% e ciò in relazione all’operazione di sicurezza intrapresa dal governo nella quale sono stati dispiegati l’esercito pachistano, i Rangers (forza paramilitare), la polizia ed il personale del Reparto antiterrorismo del Punjab.

Dunque, il giudice di merito, a differenza di quanto censurato dal ricorrente, ha considerato la situazione generale del paese, concludendo per l’insussistenza nella regione di una situazione di violenza indiscriminata tale da porre in pericolo i civili.

In ogni caso, va comunque osservato che questa Corte ha già affermato che pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità del richiedente, dalla situazione oggettiva del paese d’origine, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale, atteso che, diversamente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini sez. 1 n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente, non ha, in primo luogo, minimamente correlato la dedotta esistenza di una situazione di insicurezza nella regione d’origine alla propria condizione personale, se non con riferimento alla vicenda dell’omicidio di cui sarebbe stato testimone, che, come già evidenziato, è stata ritenuta non credibile dal giudice di merito con argomentazioni immuni da vizi logici.

Inoltre, lo stesso non si è confrontato con le precise argomentazioni del Tribunale di Venezia in ordine alla mancata allegazione di una specifica condizione di vulnerabilità sotto il profilo dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili, limitandosi a contestare inammissibilmente la valutazione comparativa in fatto svolta dal Tribunale di Venezia (che ne ha evidenziato la sua appartenenza al ceto medio) tra la condizione di vita goduta nel paese di accoglienza e quella del suo paese d’origine.

La declaratoria di inammissibilità comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.100,00 oltre alle spese prenotate a debito (S.P.A.D.).

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2020

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