Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21431 del 27/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 27/07/2021, (ud. 10/03/2021, dep. 27/07/2021), n.21431

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. GALATI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5145/2014 R.G. proposto da:

A.M. e A.L., rappresentati e difesi dall’Avv.

Rosario Maglio in virtù di procura speciale in calce al ricorso,

elettivamente domiciliati in Roma nella via San Tommaso d’Aquino n.

80 presso lo studio dell’Avv. Severino Grassi;

– ricorrenti –

Contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i

cui uffici è domiciliata in Roma, nella via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Campania n. 161/29/2013, depositata il 1 luglio 2013;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dal consigliere

Grazia Corradini.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con tre distinti avvisi di accertamento emessi nel 2010 e notificati in data 10, 12 e 18 marzo 2010 la Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Caserta, a seguito di accesso nei locali dell’impresa eseguito il 20.5.2009 ed in base alla documentazione esibita dalla parte in risposta a questionario, accertò nei confronti della Società in accomandita semplice Caseificio A. di Ap.Lu. & c. (cancellata dal registro delle imprese in data 28.9.2009), esercente l’attività di produzione e commercializzazione di prodotti caseari, e dei soci A.M. ed A.L., maggiori redditi di impresa della società per l’anno 2005 e conseguenti maggiori redditi di partecipazione dei due soci, ciascuno al 50%, ricostruendo il conto di produzione in base ai quantitativi di latte effettivamente impiegati, distinti per tipologia di prodotti lavorati e commercializzati, applicando le rese ufficiali secondo le metodologie di controllo.

Proposero tre distinti ricorsi, successivamente riuniti, la società, in persona del liquidatore Ap.Lu. ed i due soci, eccependo l’inesistenza dell’accertamento notificato alla società ormai estinta, la erronea scelta del metodo di accertamento e la irragionevolezza dello stesso perché basato su mere presunzioni prive di qualsiasi riscontro, nonché, quanto ai soci, la inesistenza anche degli accertamenti relativi ai redditi di partecipazione perché derivati da un atto inesistente ed infondato e per difetto di motivazione per omessa allegazione dell’atto presupposto richiamato per relationem.

Con sentenza n. 245/1/2011 la Commissione Tributaria Provinciale di Caserta rigettò le questioni preliminari, rilevando che la cancellazione della società dal registro della impresa non impediva la successione dei soci nelle obbligazioni derivanti da rapporti giuridici pendenti, ma ridusse i maggiori ricavi accertati del 30% “tenuto conto degli elementi dai quali l’Ufficio ha dedotto le percentuali di realizzo per i vari prodotti di latte, di alcune presunzioni utilizzate e ritenute dai contribuenti scollegate dalla realtà” (v. trascrizione di parte della sentenza di primo grado a pagg. 4 e 5 del ricorso per cassazione).

Proposero appello principale la società ed i soci, nonché appello incidentale la Agenzia delle Entrate per quanto di rispettiva soccombenza. La società ed i soci riproposero la questione di nullità dell’accertamento notificato a società già estinta e consequenziale degli accertamenti relativi al reddito di partecipazione dei soci e di nullità degli accertamenti relativi ai soci per omessa allegazione dell’atto presupposto, nonché di illegittimità del metodo adottato dall’Ufficio con determinazione equitativa del reddito della società e dedussero altresì la omessa pronuncia sulle contestazioni nel merito dell’accertamento. Propose quindi appello incidentale anche la Agenzia delle Entrate, per la parte di soccombenza, quanto alla riduzione del 30% – ritenuta ingiustificata – dei maggiori ricavi determinati dall’Ufficio.

Con sentenza n. 161/29/2013 la Commissione Tributaria Regionale della Campania accolse l’appello della società, ritenendo che, a seguito della modifica legislativa dell’art. 2495 c.c., in virtù del D.Lgs. n. 6 del 2003, art. 4 la cancellazione della società, avvenuta nel 2009, prima della notifica dell’accertamento, determinasse la perdita di capacità e di legittimazione della stessa, anche se non comportava il venire meno dei rapporti giuridici facenti capo alla società estinta, in virtù di un fenomeno di tipo successorio in capo ai soci nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione o senza limiti, in caso di soci limitatamente ovvero illimitatamente responsabili. Quanto alla posizione di soci in relazione agli accertamenti relativi ai loro redditi di partecipazione, la CTR ritenne, in conseguenza, che la mancata allegazione del pvc agli accertamenti che li riguardavano fosse irrilevante poiché l’accertamento era basato sull’esame della documentazione contabile e l’accertamento principale notificato alla società non doveva essere inviato anche ai soci. Ritenne infine, quanto al merito, che “i calcoli effettuati dall’Ufficio sull’acquisto e vendita di latte vaccino e bufalino, il loro impiego in mozzarelle o altri derivati del latte presentano certezza sia nei calcoli che nelle quantità. I parametri utilizzati dall’Ufficio sono compatibili con l’attività svolta per cui si ritiene infondata la doglianza degli appellanti e in nessun caso documentata o giustificata la loro tesi”, per cui rigettò nel merito le doglianze dei soci appellanti mentre, rigettando parzialmente l’appello incidentale dell’Ufficio, annullò la riduzione dei maggiori ricavi accertati operata dalla sentenza di primo grado.

Contro la sentenza di appello, depositata in data 1.7.2013, non notificata, hanno proposto ricorso per cassazione A.M. ed A.L. con atto notificato il 17.2.2014 affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo i ricorrenti sostengono violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5 e del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 41 bis in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la sentenza impugnata ritenuto la nullità degli avvisi di accertamento relativi all’IRPEF in capo ai soci una volta posti in relazione alla nullità della notifica degli avvisi alla società già estinta, così violando il principio per cui non si può imputare ai soci un reddito di cui non risulti a monte titolare la società.

2. Con il secondo motivo deducono violazione o falsa applicazione degli artt. 2312 e 2495 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 41 bis e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5 nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato, onde giustificare la correttezza degli accertamenti nei confronti dei soci, che la cancellazione della società dal registro delle imprese comportava un fenomeno di tipo successorio in virtù del quale le obbligazioni si trasferivano ai soci nei limiti della loro responsabilità limitata o illimitata, trascurando che però i rapporti che si potevano trasferire erano quelli già facenti capo alla società estinta e non anche quelli che, come nel caso in esame, non erano ancora sorti per essere stata la società cancellata prima che l’accertamento potesse essere notificato alla società; e per avere la stessa sentenza omesso di valutare il fatto decisivo costituito dalla inesistenza della obbligazione in capo alla società al momento della sua estinzione, da poter trasmettere ai soci, fatto che, se fosse stato esaminato, avrebbe dovuto comportare l’accoglimento dei ricorso dei soci.

3. Con il terzo motivo sostengono violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, e della L. n. 212 del 2000, art. 7 per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato che l’accertamento principale doveva essere diretto alla società e non invece inviato ai soci, i quali avevano eccepito fin dal ricorso iniziale di non avere mai ricevuto la notifica dell’avviso di accertamento riferito alla società e riproposto la censura in appello, poiché la omessa notifica ai soci, in allegato all’accertamento che li concerneva, dell’accertamento diretto alla società, determinava la nullità dell’accertamento diretto ai soci per violazione delle regole relative alla motivazione per relationem dell’accertamento, che non era consentita se non quando l’atto richiamato per relationem sia stato trasfuso o sia stato portato comunque a conoscenza del contribuente.

3. Con il quarto motivo si sostiene, infine, in una prospettiva subordinata, violazione degli artt. 116 e 132 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 36 e 61 nonché dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere la sentenza impugnata, nella parte dispositiva, rigettato parzialmente l’appello incidentale dell’Ufficio, annullando la riduzione dei maggiori ricavi accertati senza però alcun riferimento alle ragioni che avevano indotto il giudice d’appello a rigettare “solo parzialmente” l’appello incidentale dell’Ufficio, nonché alle ragioni che lo avrebbero indotto ad annullare la riduzione (pari al 30%) dei maggiori ricavi, poiché il riferimento alla correttezza dei calcoli effettuati e dei parametri utilizzati dall’Ufficio integrava una motivazione meramente apparente e violava i canoni del ragionevole e prudente apprezzamento del materiale probatorio previsto dall’art. 116 c.p.c., in assenza di qualsiasi spiegazione della disamina logico – giuridica che aveva indotto il giudice d’appello a ritenere giustificata l’applicazione dei parametri richiamati alla fattispecie concreta.

4. La Agenzia delle Entrate ha opposto con il controricorso che la statuizione della sentenza d’appello, secondo cui l’accertamento notificato alla società già estinta era “inesistente”, non significava che la pretesa fiscale non potesse essere azionata, bensì che non poteva esserlo “direttamente” nei confronti della società estinta, in linea con la giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Cassazione per cui le obbligazioni relative al soggetto estinto si trasferivano ai soci, come era successo per il debito di imposta relativo all’anno 2005 che era sorto quando la società era ancora esistente, così da potersi trasferire ai soci – successori ai quali peraltro era stata richiesta solo la maggiore IRPEF dovuta personalmente sul maggior reddito di partecipazione da loro percepito e non anche eventuali somme dovute dalla società, così come aveva ben compreso anche l’ex amministratrice della società che infatti non aveva partecipato al giudizio di cassazione che riguardava solo i maggiori redditi personali dei soci. Ha opposto altresì che l’accertamento societario era stato notificato non solo alla società ma anche contestualmente ai due soci, come risultava dalle produzioni dell’Ufficio in primo grado ed era comunque pienamente conosciuto dagli stessi tanto e vero che l’accomandatario A.M. aveva impugnato, unitamente all’accertamento che lo riguardava personalmente, anche l’atto presupposto costituito dall’accertamento societario. Infine ha rilevato che la sentenza impugnata conteneva una specifica motivazione relativamente alle ragioni per cui aveva ritenuto fondata la ricostruzione dei maggiori ricavi contenuta nell’accertamento e per converso infondate le doglianze della parte contribuente, con riguardo alla correttezza dei punti salienti dell’accertamento e dei calcoli dell’Ufficio basati sui dati desunti dalla contabilità della società e su studi e relazioni elaborati da organismi tecnici di settore ai quali le parti non avevano opposto alcun dato diverso e comprovato.

5. Il ricorso è infondato.

6. Il primo ed il secondo motivo possono essere esaminati congiuntamente poiché con essi si deduce sostanzialmente, in modo ripetitivo sotto diversi profili di violazione di legge e di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che gli accertamenti relativi ai soci dovevano essere annullati per inesistenza del loro presupposto, costituito dall’accertamento nei confronti della società che era già stato annullato dai giudici di appello, il che avrebbe impedito che ai soci -successori potessero essere imputati i debiti della società che non erano mai nati e non potevano nascere prima dell’accertamento.

6.1. I motivi dedotti sotto il profilo di violazione di legge sono infondati poiché con essi si invocano erronei principi giuridici contrastati dalla giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte, anche a sezioni unite.

6.2. L’attuale approdo giurisprudenziale è nel senso che nel processo tributario, l’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, determina un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono – venendo altrimenti sacrificato ingiustamente il diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti “pendente societate”; ne discende che i soci peculiari successori della società subentrano ex art. 110 c.p.c. nella legittimazione processuale facente capo all’ente, in situazione di litisconsorzio necessario per ragioni processuali, ovvero a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale, dovendo invece escludersi la legittimazione “ad causam” del liquidatore della società estinta, il quale può essere destinatario di un’autonoma azione risarcitoria ma non della pretesa attinente al debito sociale (v. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16362 del 30/07/2020 Rv. 658435 – 01).

6.3. Si tratta di approdo che richiama quanto già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (4060/10; 4061/10; 4062/10) per cui la cancellazione della società dal registro delle imprese ne determina ipso facto l’estinzione, avendo assunto la formalità della cancellazione a seguito della vicenda riformatrice la medesima efficacia costitutiva che per le società di capitali riveste la formalità dell’iscrizione, e ciò, con un significativo mutamento di rotta rispetto all’orientamento giurisprudenziale prevalente sino ad allora, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo, peraltro collegato anche al novellato ad. 2495 c.c. (nel testo risultante dopo la riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la cui entrata in vigore è fissata al 1 gennaio 2004, che qui interessa, trattandosi di estinzione avvenuta nel 2009 nella vigenza del differimento quinquennale degli effetti dell’estinzione della società derivanti dall’art. 2495 c.c., comma 2: v Cass. sez. V, 6743/15, 7923/16, 8140/16; sez. VI-5, 15648/15, 19142/16, 11100/17), con cui questa Corte ha altresì ripetutamente chiarito, con riferimento sia a diverse tipologie di enti collettivi (società di capitali, società di persone, associazioni non riconosciute) che a diverse tipologie di atti (avvisi di accertamento, cartelle di pagamento), che “in tema di contenzioso tributario, la cancellazione dal registro delle imprese, con estinzione della società prima della notifica dell’avviso di accertamento e dell’instaurazione del giudizio di primo grado, determina il difetto della sua capacità processuale e il difetto di legittimazione a rappresentarla dell’ex liquidatore, sicché eliminandosi ogni possibilità di prosecuzione dell’azione, consegue l’annullamento senza rinvio ex art. 382 c.p.c., della sentenza impugnata con ricorso per cassazione, ricorrendo un vizio insanabile originario del processo, che avrebbe dovuto condurre da subito ad una pronuncia declinatoria di merito” trattandosi di impugnazione “improponibile, poiché l’inesistenza del ricorrente è rilevabile anche d’ufficio (Cass. sez. V, 5736/16, 20252/15, 21188/14), non essendovi spazio per ulteriori valutazioni circa la sorte dell’atto impugnato, proprio per il fatto di essere stato emesso nei confronti di un soggetto già estinto (Cass. sez. V, n. 4778/17, (arg. a contrario n. 4786/17), n. 2444/17; Cass. sez. VI-5, n. 19142/16; v. anche, implicitamente, Cass. Sez. U., n. 3452/17, p.to 1.1; cfr. Cass. nn. 23029/17, 4853/15, 21188/14, 22863/11, 14266/06, 2517/00). Nel contempo le Sezioni Unite hanno peraltro ulteriormente chiarito (SS. UU. 6070/13; 6071/13; 6072/13) che, a seguito dell’estinzione della società, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, viene a determinarsi un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono, il che sacrificherebbe ingiustamente i diritto dei creditori sociali, ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate.

6.4. Correttamente quindi, nel caso in esame, in cui l’accertamento è intervenuto quando la società (nella specie di persone) era già estinta, in relazione ad annualità di imposta precedenti alla estinzione (annualità 2005), l’accertamento relativo alla società è stato annullato dalla sentenza impugnata, che invece ha, altrettanto correttamente, ritenuto validi gli accertamenti emessi nei confronti dei soci per i redditi di partecipazione che dovevano essere imputati ai soci di società di persone in relazione alla annualità di imposta anteriori alla estinzione.

6.5. La tesi dei ricorrenti per cui il debito non si sarebbe potuto trasferire perché non ancora sorto non si confronta con il principio recepito dalla giurisprudenza di questa Corte per cui i soci sono sempre destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione, come nel caso di tributi in corso di accertamento, fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità riferito all’ammontare di quanto abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione, qualora si tratti di soci limitatamente responsabili (art. 2495 c.c.). Con la conseguenza che ove tale limite di responsabilità dovesse rendere evidente l’inutilità per il creditore di far valere le proprie ragioni nei confronti del socio, ciò si rifletterebbe sul requisito dell’interesse ad agire, che peraltro non è mai stato contestato nel presente giudizio, ma non sulla legittimazione passiva del socio medesimo (così Cass. SU n. 6070 del 2013, cit.; v. anche Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21517 del 20/09/2013 Rv. 628164 – 01).

6.6. Anche la tesi dei ricorrenti per cui la nullità degli accertamenti dei redditi ai fini IRPEF dei soci deriverebbe dalla mancanza di un valido accertamento nei confronti della società è poi ugualmente erronea, sempre alla luce della interpretazione delle disposizioni di cui il ricorrente lamenta la violazione offerta dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di accertamento dei redditi di partecipazione ovvero dei redditi direttamente imputati ai soci di società di persone in virtù dell’art. 5 del TUIR, l’indipendenza dei procedimenti relativi alla società di capitali o di persone ed al singolo socio comporta che quest’ultimo, ove abbia impugnato l’accertamento a lui notificato senza aver preso parte al processo instaurato dalla società, conserva la facoltà di contestare non solo la presunzione di distribuzione di maggiori utili ma anche la validità dell’accertamento, a carico della società, in ordine a ricavi non contabilizzati (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 19013 del 27/09/2016 Rv. 641108 – 01). E ancora questa Corte ha già più volte riconosciuto che l’avviso di accertamento per redditi imputati per trasparenza al socio, in seguito addirittura ad infruttuosa notifica di un precedente atto impositivo ad una società estinta in data antecedente, non è affetto da nullità derivata in conseguenza dell’invalidità della notifica alla società stessa, in quanto in tal caso si realizza un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale le obbligazioni facenti capo alla società si trasferiscono ai singoli soci che ne rispondono illimitatamente o nei limiti di quanto riscosso in seguito alla liquidazione a seconda che, “pendente societate”, fossero illimitatamente o limitatamente responsabili per i debiti sociali (v. da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 16365 del 30/07/2020 Rv. 658648 – 01), cosicché sarebbe spettato al socio impugnare, eventualmente, anche l’accertamento nei confronti della società per farne valere la illegittimità nel merito (come peraltro è avvenuto nel caso in esame).

6.7. La sentenza impugnata ha quindi applicato corretti principi giuridici che non sono intaccati dalla contestazione relativa alla pretesa violazione di legge, mentre, quanto al profilo della omessa valutazione del fatto decisivo costituito dalla inesistenza della obbligazione in capo alla società, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dedotto promiscuamente con la violazione di legge con il secondo motivo di ricorso, il motivo è inammissibile, non solo sotto il rilievo derivante dalla deduzione di motivi misti o compositi (Cass. Sez. U., 06/05/2015, n. 9100, Rv. 635452-01; Cass. sez. 6-3, 17/03/2017, n. 7009, Rv. 643681-01) ma anche per l’assorbente rilievo che, in merito alla modifica introdotta con il D.L. n. 83 del 2013, convertito dalla L. n. 143 del 2012″ come chiarito da questa Corte anche a Sezioni Unite, essa (tramite il nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (ex plurimis, Cass. Sez. U., 07/04/2014, n. 8053, Rv. 629831-01, e successive conformi tra le quali, tra le più recenti, anche Cass. sez. 2, 29/10/2018, n. 27415, Rv. 65102001); mentre nel caso in esame non viene dedotto un fatto storico bensì una argomentazione giuridica, peraltro erronea come già rilevato.

7. E’ infondato anche il terzo motivo, con cui si deduce violazione delle regole relative alla motivazione dell’accertamento per avere la sentenza impugnata erroneamente affermato che l’accertamento principale doveva essere diretto alla società e non anche ai soci, cosicché la omessa notificazione pregressa dell’accertamento relativo alla società anche ai soci rendeva nulla la motivazione per relationem dell’accertamento relativo ai soci.

7.1. In proposito occorre preliminarmente rilevare che, con l’atto di appello, trascritto per la parte che interessa a pagina 6 del ricorso per cassazione, gli appellanti avevano dedotto la omessa allegazione all’accertamento relativo ai soci dell’atto presupposto costituito dall’accertamento emesso nei confronti della società e non anche la omessa notificazione di tale atto ai soci e che il vizio di omessa notificazione ai soci dell’accertamento relativo alla società non risulta essere stato dedotto neppure con il ricorso iniziale (v pagina 2 del ricorso per cassazione laddove sono stati riepilogati i motivi del ricorso iniziale nel senso che “i ricorrenti hanno eccepito che l’avviso di accertamento impugnato era da ritenere nullo per difetto di motivazione e violazione di legge, non recando le indispensabili indicazioni di merito dell’atto di presupposto che, nonostante fosse stato in esso integralmente richiamato per relationem non è mai stato allegato all’atto di accertamento verso i soci (derivato dal primo) in aperto dispregio dell’art. 7 dello statuto del contribuente”). Si tratta quindi di motivo nuovo, come tale inammissibile perché dedotto per la prima volta con il ricorso per cassazione, mentre il vizio dedotto con il ricorso iniziale e con i motivi di appello era all’evidenza inesistente alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte, cui si ritiene di dare continuità in questa sede, secondo cui, in tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributaria, l’art. 7, comma 1, dello Statuto del contribuente, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento da esso richiamato in motivazione, si riferisce esclusivamente agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza, al fine di non recare pregiudizio alla difesa del contribuente (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 29968 del 19/11/2019 Rv. 655917 – 01 e precedenti e successive conformi).

7.2. Nel giudizio di merito i soci, quindi, non avevano mai sostenuto di non avere avuto conoscenza dell’accertamento indirizzato alla società, mentre la Agenzia delle Entrate ha trascritto nel controricorso (pagg. 4 e 5) le difese che aveva svolto nel giudizio di primo grado in cui aveva prodotto e trascritto le relate di notifica dell’accertamento intestato alla società, oltre che al legale rappresentante della società al momento della cessazione, anche al socio accomandatario A.M. in data 12.3.2010 a mani della moglie convivente ed al socio accomandante A.L., risultato sconosciuto nel domicilio fiscale, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 (prodotte nuovamente in allegato al controricorso) ed ha trascritto ora nel controricorso la parte del ricorso iniziale con cui A.M. aveva impugnato, unitamente al proprio accertamento personale, ad ogni buon fine, anche il ricorso relativo alla società, sostenendo di avere interesse ed esponendone dettagliatamente il contenuto che aveva confutato (v. trascrizione della parte del ricorso introduttivo presentato da A.M., a pagina 5 delle controdeduzioni). Ne consegue che pure la questione dedotta con il ricorso per cassazione sarebbe in ogni caso infondata non essendovi alcun onere di allegare all’accertamento diretto ai soci l’accertamento relativo alla società loro già notificato contestualmente al proprio accertamento personale.

7.3. La affermazione della sentenza di appello secondo cui l’accertamento principale deve essere notificato alla società e non deve essere inviato ai soci (da cui hanno tratto spunto i ricorrenti per dedurre il vizio di motivazione degli accertamenti per omessa notifica preventiva dell’accertamento emesso nei confronti della società), è dal suo canto irrilevante riguardando la posizione della società che non viene più in considerazione essendo stata già definita con pronuncia in giudicato, in quanto non impugnata dalla Agenzia delle Entrate.

8. Il quarto motivo di ricorso – che riguarda la omissione di pronuncia o pronuncia apparente sul merito degli accertamenti relativi ai soci, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 4, poiché la sentenza impugnata aveva rigettato parzialmente, solo nella parte dispositiva, l’appello incidentale dell’Ufficio, annullando la riduzione del 30% dei maggiori ricavi accertati operata dal primo giudice, senza però alcun riferimento alle ragioni che avevano indotto il giudice d’appello a tale decisione, in assenza di qualsiasi spiegazione della disamina logico – giuridica sulle ragioni che avevano indotto il giudice d’appello a ritenere giustificata l’applicazione dei parametri richiamati alla fattispecie concreta – appare inammissibile, considerato che una pronuncia vi è stata e vi è stata pure una motivazione della sentenza impugnata a supporto di tale pronuncia, come trascritta nella parte espositiva, che, se pure sintetica, ha preso in esame i motivi di appello dei contribuenti, ma anche l’appello incidentale dell’Ufficio, rilevando che i conteggi posti a base dell’accertamento con riguardo ai dati sull’acquisto e vendita di latte vaccino e bufalino, il loro impiego in mozzarelle o altri derivati del latte presentavano canoni di certezza sia nei calcoli che nelle quantità e che inoltre anche i parametri utilizzati dall’Ufficio, per giungere alla ricostruzione dei maggiori ricavi, erano compatibili con l’attività svolta; il che rendeva infondate le doglianza degli appellanti e in nessun caso documentata o giustificata la loro tesi e di conseguenza infondata pure la riduzione dei ricavi del 30%, operata dal primo giudice, essendo la risposta all’appello incidentale insita nella suddetta motivazione e quindi esplicitata nel dispositivo della sentenza.

8.1. Si tratta di argomentazioni della sentenza appellata che propiziamo l’applicazione dell’indirizzo di questa Corte (Cass. n. 21152/14), secondo cui l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, prevede l'”omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione”, come riferita ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate. Con questa precisazione, la censura, nella sostanza proposta come vizio di motivazione è inammissibile, perché s’infrange contro il principio di diritto, applicabile ratione ternporis (all’impugnazione della sentenza, depositata il 1.7.2013, si applica il testo novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), secondo il quale la riformulazione di questa norma dev’essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053 e 8054 nonché, tra varie, ord. 9 giugno 2014, n. 12928 e sez. un. 19881 del 2014).

8.2. Nel caso in esame il giudice d’appello ha infatti motivato, facendo leva sulla correttezza dei calcoli operati dall’Ufficio sulla base delle quantità certe impiegate nella produzione e su parametri di produttività compatibili con l’attività svolta, di guisa che il motivo si traduce nella denuncia d’insufficiente motivazione, inibita dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nuovo testo n. 5. Sul punto, ha ulteriormente precisato questa Corte (Cass., sez. un., 10 luglio 2015, n. 14477), la nuova previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 legittima solo la censura per l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, non essendo invece più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (v. Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 Rv. 652549-02).

9. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e i ricorrenti devono essere condannati alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo. Sussistono, ratione temporis, i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato a norma del comma 1 bis, art. 13, comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002, essendo stato il ricorso notificato in data 17.2.2014.

P.Q.M.

La Corte: Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 5.600,00 per compensi oltre le spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2021

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