Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21426 del 06/10/2020

Cassazione civile sez. VI, 06/10/2020, (ud. 22/07/2020, dep. 06/10/2020), n.21426

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 2774-2019 proposto da:

N.C. in proprio e quale procuratrice di N.D.,

S.G., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA CICERONE 49,

presso lo studio dell’avvocato LUIGIA D’AMICO, che le rappresenta e

difende unitamente all’avvocato FABIO FANFANI;

– ricorrenti –

Contro

SA.MI., P.C.G.,

P.C.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DI PORTA PINCIANA 4,

presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO IMBARDELLI, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCO MODENA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1385/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 15/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 22/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. DOLMETTA

ALDO ANGELO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- Nell’ottobre del 1999, S.G., N.C. e N.D. hanno convenuto avanti al Tribunale di Firenze P.C.G.. Nella veste di socie accomandanti della s.a.s. Romito di G.P.C. & C., esse hanno, fra le altre cose, chiesto la condanna del convenuto, socio accomandatario e amministratore della s.a.s., al pagamento degli utili da questa maturati in taluni degli esercizi precedenti, per le quote loro distintamente spettanti.

Dopo la costituzione del convenuto, come intesa a respingere la richiesta delle attrici, sono intervenuti nel giudizio Z.C.V., P.C.S. e Sa.Mi. – altri soci accomandanti della Romito s.a.s. -, sempre per opporsi all’accoglimento delle pretese attoree.

2.- Con sentenza depositata nel dicembre 2011, il Tribunale ha respinto la richiesta delle attrici. Queste hanno tempestivamente impugnato la decisione avanti alla Corte di Appello di Firenze.

3.- Con sentenza pubblicata in data 15 giugno 2018, la Corte fiorentina ha respinto l’appello.

4.- La pronuncia ha osservato, in particolare, che “correttamente il Tribunale ha affermato che il diritto dei soci a ricevere gli utili societari è nei confronti della società, soggetto autonomo di diritto, e non del suo socio accomandatario”. “Le somme di denaro incassate sono nella disponibilità della società e dalle sue casse vanno prelevate per distribuirle ai soci”. “Sotto questo profilo il richiamo di parte appellante alle norme sul mandato non è pertinente, perchè non è chiesto il pagamento di quanto ricevuto dal mandatario in relazione all’incarico ricevuto, ma di quanto confluito nelle casse della società”.

“Parimenti non pertinente” – ha in sequenza rilevato la sentenza – “è il richiamo poi effettuato anche agli artt. 2393 c.c. ss. sulla responsabilità dell’amministratore verso la società e i suoi soci in relazione all’obbligo di rendere il conto e di corrispondere gli utili”: “l’oggetto della domanda azionata è infatti la sua condanna al pagamento di tali utili in adempimento alla sua obbligazione. Le norme citate (in particolare, l’art. 2395 c.c.) attengono, diversamente, a una responsabilità extracontrattuale fonte di diritto risarcitorio del socio leso, da soddisfarsi a mezzo di denaro proprio dell’amministratore colpevole”.

“Espressamente parte appellante” – si è in via ulteriore proseguito – ha “ribadito che il denaro richiesto era quello trattenuto dalla società e non quello proveniente dalle tasche di P.”. “Tuttavia, all’espressa richiesta del convenuto di integrazione del contraddittorio verso la s.a.s., le attrici si (sono) sempre fieramente opposte”. “Una domanda risarcitoria per la specifica causale de qua non è stata invece formulata”.

5.- Avverso questo provvedimento S.G. e N.C., quest’ultima sia in proprio che nella veste di procuratore di N.D., hanno presentato ricorso per cassazione, affidandolo a un motivo.

6.- Hanno resistito, con unico controricorso, P.C.G., Sa.Mi. e P.C.S.. Non hanno invece svolto attività difensive, nel presente grado, gli eredi di Z.V..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

7.- Il motivo di ricorso è stato intestato “violazione e falsa applicazione di norma di diritto e in particolare degli artt. 81 e 113 c.p.c., e degli artt. 1703, 1713, 2260, 2261 e 2262 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

Sostengono le ricorrenti che la decisione della Corte territoriale è “obiettivamente errata”, specie là dove dichiara “non pertinente il richiamo effettuato dalle appellanti alle norme sul mandato”: “il Collegio ha omesso di considerare che l’azione proposta avesse ad oggetto, da un lato, l’accertamento dell’obbligo da porsi a carico dell’ing. P.C., quale amministratore della s.a.s., di distribuire gli utili nell’ammontare già deliberato dalla società a seguito dell’approvazione del rendiconto da lui stesso presentato; ed avendo altresì confuso, d’altro lato, che quanto richiesto dalle signore S. e N. (la condanna del P.) fosse in realtà la conseguenza di un mero obbligo di facere dell’amministratore, tenuto per legge all’esecuzione dei deliberati assembleari”.

E’ “evidente” – incalzano le ricorrenti – “che l’approvazione del rendiconto” fa sorgere, ex art. 2262 c.c., in maniera automatica in capo ai soci un “diritto di credito finalizzato a percepire l’utile annuo risultante dal rendiconto sulla base della rispettiva partecipazione al capitale sociale della società”: di qui l’ovvia conseguenza che tale diritto sia immediatamente azionabile in caso di mancato adempimento con legittimazione del socio ad agire nei confronti dell’amministratore per ottenere quanto deliberato dall’assemblea”.

8.- Di fronte al motivo di ricorso, che è stato strutturato dalle signore S. e N., occorre prima di tutto rilevare che questo risulta prospettato sulla base di una ragione giuridica che si manifesta non idonea a sostenere la richiesta di cassazione della pronuncia della Corte fiorentina.

Destinatario dell’obbligo di distribuzione degli utili che sono stati prodotti dall’impresa sociale – va osservato – non può essere che la società in accomandita: quale soggetto giuridico autonomo e distinto dalle persone che compongono la relativa compagine sociale e quale soggetto alla cui attività rimonta, per l’appunto, la produzione dei richiamati utili. Secondo quanto correttamente è stato rilevato, del resto, dalla pronuncia impugnata.

Nè si pone uno spazio ulteriore per individuare – secondo quanto insinuato invece dalle ricorrenti – una distinta prestazione di facere, poi da collocare sul capo all’amministratore della società debitrice.

Assumere la prestazione di consegnare delle somme di denaro di proprietà della società – in pagamento del debito di corresponsione degli utili spettanti ai singoli soci – in termini di facere dell’amministratore della società rappresenta, in realtà, nulla più che un artificio verbale.

Non può essere dubbio, invero, che quella di consegnare delle cose (determinate o anche di genere) rientri nell’ambito delle prestazioni di dare. Come pure appare oggettivamente sicuro che – se l’obbligo di distribuzione degli utili incombe sulla società – è quest’ultima, non altri soggetti, a dovervi dare attuazione. L’amministratore della società rappresenta, cioè, solo lo strumento deputato a dare corso effettivo all’attuazione della dedotta obbligazione; del resto, questi vi è tenuto (con la conseguente delineazione della responsabilità ex art. 2260 c.c.) sulla base di un ben diverso titolo, qual è il patto che lo impegna a gestire l’impresa sociale.

D’altronde, il carattere intimamente artificioso, di finzione, della tesi formulata dalle ricorrenti – in punto di distribuzione di utili e prestazione di facere dell’amministrazione sociale traspare evidente pure dal richiamo che il ricorso fa, e in termini assai decisi, alla disposizione dell’art. 1713 c.c. in tema di rendiconto del mandatario.

Nei fatti, tale norma obbliga il mandatario a rimettere al mandante “tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato”: si tratta, dunque, di un’obbligazione di dare, che suppone, prima di ogni altra cosa, che il mandatario abbia – propriamente e personalmente – “ricevuto” le cose che risulta poi tenuto a rimettere.

9.- Fermati questi punti, è adesso da osservare che il giudizio di cassazione non si pone come giudizio rigidamente e strettamente vincolato alla (sola) ragione giuridica che è stata prospettata a sostegno del motivo di ricorso, potendo per certi versi anche aprirsi alla valutazione di altra e diversa ragione giuridica.

Secondo un significativo orientamento sviluppato dalla giurisprudenza di questa Corte, infatti, “in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonchè per omologia con quanto prevede la norma dell’art. 384 c.p.c., (comma 4) deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte…, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base di dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l’esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stresso, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l’efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o integrazione di una eccezione in senso stretto” (in questa specifica direzione sono da richiamare, tra le decisioni fatte oggetto di apposita massima, in particolare quelle rese da Cass., 29 settembre 2005, n. 19132; da Cass., 22 marzo 2007, n. 6935; da Cass., 14 febbraio 2014, n. 3437; da Cass., 28 luglio 2017, n. 18775).

10.- Rispetto alla fattispecie nel presente in esame si deve ora segnalare come – sulla base della prospettazione dei fatti, come accertati nelle fasi di merito del giudizio ed esposti nel ricorso e nella sentenza impugnata – venga a emergere la presenza di una diversa ragione giuridica idonea, in via propriamente d’ipotesi, a sostenere la richiesta che sta alla base dal ricorso per cassazione proposto dalle ricorrenti signore S. e N..

Stima la giurisprudenza di questa Corte che, “nella società in accomandita semplice, il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 c.c. (applicabile in forza del duplice richiamo di cui agli artt. 2315 e 2293 c.c.), alla sola approvazione del rendiconto”, da intendere come situazione contabile sostanzialmente equivalente al bilancio di esercizio (cfr., così, Cass., 17 febbraio 1996, n. 1240; più di recenti v., sul punto in generale, Cass., 31 dicembre 2013, n. 28806; Cass., 4 luglio 2018, n. 17489).

Segue a questa rilevazione che – una volta approvato il richiamato documento contabile – ciascun socio risulta a pieno titolo creditore nei confronti della società in relazione alla quota di utili, che è di sua specifica spettanza. Ne segue altresì, in via ulteriore, che il relativo rapporto obbligatorio risulta annoverabile, per il suo lato attivo, tra i “crediti sociali” di cui all’art. 2304 c.c. e, per il suo lato passivo, tra le obbligazioni sociali di cui all’art. 2291 c.c.

Dell’adempimento di questi debiti rispondono dunque – ai sensi e nei termini previsti dalle norme qui appena citate – anche i soci accomandatari: in termini illimitati e solidali, pertanto, e per il caso di infruttuosa, ovvero oggettivamente inutile, escussione del patrimonio proprio della società.

11.- Posto quest’insieme di elementi, sembra ancora opportuno svolgere, con diretto riferimento alla domanda di condanna che le attuali ricorrenti hanno promosso nei confronti dell’accomandatario amministratore in relazione alla distribuzione degli utili sociali, due ordini di rilievi, distinti, ma convergenti sul disposto dell’art. 2304 c.c.

Il primo si sostanzia nella constatazione che – una volta acquisita la distinta soggettività della società in accomandita (e delle altre società di persone) rispetto alle persone dei suoi soci – il “debito sociale” configura in ogni caso un debito non già proprio del socio, ma unicamente della società: il socio illimitatamente responsabile venendo ad assumere, piuttosto, la posizione di mero garante ex lege per un debito altrui (cfr., di recente, Cass., 22 marzo 2018, n. 7139).

L’altro è che – secondo il consolidato orientamento che è seguito dalla giurisprudenza di questa Corte – la norma dell’art. 2304 c.c., se inibisce al creditore sociale di aggredire esecutivamente il patrimonio del socio accomandatario, “non gli impedisce d’agire in sede di cognizione per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio” medesimo (cfr., così, Cass., 28 settembre 2019, n. 21768, ove pure amplissimi riferimenti degli arresti precedenti).

12.- Per fissare in modo adeguato le coordinate d’inquadramento della problematica sottesa al ricorso presentato dalle signore S. e N., rimane ancora da mettere in evidenza un aspetto ulteriore: come dotato di peso intrinsecamente rilevante.

L’orientamento richiamato (nel n. 9) puntualizza – si è visto già sopra – che, se il giudizio di cassazione ammette la valutazione di ragioni giuridiche diverse da quella prospettata dal ricorrente a proprio supporto, ciò, tuttavia, non avviene senza limiti; nè certo potrebbe pensarsi in modo diverso. Nel concreto l’utilizzabilità dell’altra ragione giuridica in sostanza postula, oltre all’identità dei fatti accertati, il sicuro rispetto del “monopolio della parte” nell’esercizio della domanda come pure nell’esercizio delle eccezioni in senso stretto.

Ora, le decisioni che danno corpo all’orientamento in discorso riguardano tutte vicende per nulla prossime a quella che presentemente occupa; da quest’ultima, anzi, appaiono tipologicamente lontane.

Così Cass. n. 19132/2005, si ferma sulla qualificazione di un “fatto giuridico impeditivo” (l’eventualità di avvenuta cessazione della locazione al momento della vendita di un immobile a uso non abitativo) rispetto all’esercizio del diritto di riscatto da parte del conduttore (ove ritenuto ancora tale), ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 39. Cass., n. 6936/2007 fa riferimento a un’ipotesi di denunzia di violazione di domande nuove in appello, per rilevare d’ufficio che l’introduzione della domanda in questione era in realtà avvenuta in primo grado. Cass. n. 3437/2014 si occupa del valore “dell’atteggiamento tenuto dal convenuto di fronte al comportamento dell’attore che, dopo avere proposto una domanda di condanna al risarcimento piena, la limiti al solo profilo della condanna generica”. Cass., n. 18775/2017 concerne un problema di successione nel diritto controverso e di riassunzione del processo interrotto.

La fattispecie, che investe il presente giudizio si focalizza, invece, sulla verifica di compatibilità tra la ragione giuridica che fonda, sul piano oggettivo, la posizione creditoria degli accomandanti nei confronti dell’accomandatario in punto di distribuzione di utili (essendo l’accomandatario soggetto, ai sensi dell’art. 2304 c.c., a una garanzia ex lege e quindi a una responsabilità da posizione) e i termini contenutistici della domanda a suo tempo formulata nel giudizio del merito dalle attuali ricorrenti (per l’assunto inadempimento dell’accomandatario amministratore a una sua obbligazione di facere).

Propone, quindi, un tema che non risulta specificamente affrontato dai precedenti appena richiamati e pure di soluzione di certo “non immediata”, dovendosi qui per l’appunto investigare sulla linea di confine sussistente tra la semplice diversità della ragione giuridica utilizzata e la rilevata invasione nel monopolio della domanda di parte.

13.- Riscontrata l’elevata problematicità della questione sopra evidenziata e, altresì, il rilevante rilievo nomofilattico, che la stessa viene a manifestare in punto di conformazione del giudizio di cassazione, il Collegio ritiene che non sussistano le condizioni di evidenza decisoria richieste dalla norma dell’art. 375 c.p.c., u.c..

La controversia va pertanto rimessa alla pubblica udienza della Prima Sezione civile.

P.Q.M.

La Corte rimette la causa alla pubblica udienza della Prima Sezione civile.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile – 1, il 22 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2020

 

 

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