Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21410 del 15/09/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 15/09/2017, (ud. 03/05/2017, dep.15/09/2017),  n. 21410

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 8341/2010 R.G. proposto da:

Pepsico Beverages Italia S.p.A., rappresentata e difesa dall’avv.

Andrea Russo, con domicilio eletto in Roma, viale Castro Pretorio

122, presso lo studio Pirola Pennuto Zei & Associati;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 95/06/09, depositata il 24 settembre 2009.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 maggio 2017

dal Consigliere Giuseppe Tedesco;

uditi gli avv. Di Jacovo Tonio (su delega), per la società, e

Garofoli Pietro per l’Avvocatura generale dello Stato.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Fuzio Riccardo che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Commissione tributaria regionale di Milano (Ctr), sull’appello dell’Agenzia delle entrate, ha riformato la sentenza di quella provinciale, che aveva accolto il ricorso della contribuente contro l’avviso di accertamento con il quale, per l’anno di imposta 2003, fu rettificato il reddito di impresa ai fini Ires ed Irap e contestata, ai fini Iva, infedele fatturazione.

In particolare l’Amministrazione finanziaria ha ripreso a tassazione la differenza fra il prezzo di cessione di bevande isotoniche a marchio “Gatorade” intervenuta fra la contribuente e società consociate estere, in quanto operate per prezzo inferiore al valore normale.

La Ctr ha condiviso il metodo utilizzato nella specie dal Fisco per determinare tale valore e ha così accolto l’appello dell’Agenzia delle entrate.

Contro la sentenza la contribuente propone ricorso per cassazione sulla base di nove (ma in realtà dieci) motivi, cui l’Agenzia delle entrate reagisce con controricorso.

La ricorrente ha depositato memoria, con la quale chiede, in via subordinata, l’applicazione del D.Lgs. n. 158 del 2015 in applicazione del principio del favor rei in materia di sanzioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e artt. 342 e 324 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

La sentenza è censurata per non avere rilevato d’ufficio l’inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle entrate in ragione della mancanza, in quell’atto, di motivi specifici dell’impugnazione.

1.1. Il motivo è infondato. In materia di specificità dei motivi d’appello, questa Sezione della Suprema Corte, è orientata nel senso che “l’onere di specificità dei motivi può ritenersi soddisfatto qualora il ricorrente abbia proposto soluzioni contrastanti con quelle poste a base della decisione impugnata, sicchè dal contesto dell’atto appaia evidente che con lo stesso sono state mosse critiche a tale decisione” (Cass. n. 28678/2005; conf. n. 10569/2014).

Nel caso di specie l’impugnazione proposta dall’Agenzia delle entrate soddisfa tali condizioni. L’intera esposizione è infatti operata in aperta critica della decisione di primo grado.

2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per non avere rilevato il giudicato interno formatosi in conseguenza della inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle entrate.

2.1. La censura è priva di reale autonomia rispetto a quella con la quale si postula l’inammissibilità dell’appello per mancanza dei motivi specifici dell’impugnazione.

Essa rimane quindi assorbita dal rigetto del primo motivo.

3. Con il terzo motivo si deduce la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La sentenza di primo grado aveva accolto il ricorso della contribuente, rilevando che l’Amministrazione non aveva dato la prova dell’intento elusivo o dell’elusione, elementi ritenuti dai primi giudici essenziali al fine di giustificare la ripresa. A riguardo – secondo la ricorrente – la Ctr, pur in assenza di eccezione di parte, ha rilevato “d’ufficio” che i primi giudici avevano fondato il loro giudizio su un motivo non dedotto (difetto di prova dell’elusione), traendone la conseguenza che la decisione della Ctp era “viziata di ultrapetizione con riferimento alla causa petendi”. Da ciò l’error in procedendo oggetto di censura col motivo in esame, in quanto – denuncia la ricorrente – il vizio di ultrapetizione determina una nullità relativa non rilevabile d’ufficio.

3.1. Il motivo è infondato. L’error in procedendo ci sarebbe stato se la Ctr, una volta rilevato che la Ctp aveva deciso, in senso favorevole per la contribuente, sulla base di una ragione non dedotta, avesse, per ciò solo, accolto l’appello; mentre l’impugnazione è stata accolta perchè la Ctr ha condiviso le critiche mosse dall’Agenzia delle entrate contro la decisione dei primi giudici. L’Agenzia, in particolare, aveva dedotto che la prova dell’elusione era stata fornita con la dimostrazione che le operazioni si erano realizzate non secondo il valore normale. Insomma il rilievo “ufficioso” del vizio della sentenza di primo grado costituisce una mera riflessione descrittiva della Ctr, rimasta priva di conseguenza sulla decisione, basata solo sulla prova, ritenuta raggiunta, della mancata applicazione del valore normale.

4. Con il quarto motivo si deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 116 c.p.c. e del principio della non contestazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si rimprovera alla Ctr di avere considerato “fatto non contestato” che la società italiana controllava direttamente le società residenti all’estero, mentre tale fatto non era stato dedotto dal Fisco, che tanto nell’avviso di accertamento, quanto in sede giudiziale aveva configurato genericamente la contestazione come cessione di beni tra società facenti parte di un medesimo gruppo, di cui erano componenti la cedente, residente in Italia, e le cessionarie, residenti all’estero.

Il quinto motivo sottopone alla Corte la medesima questione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sotto il profilo della insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio.

5. I motivi sono inammissibili. Il vizio è denunciato in modo puramente formale, in quanto la ricorrente non indica quale sia l’errore, di fatto o di diritto, che tale falsa rappresentazione abbia avuto sull’esito della decisione. D’altra parte il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110 delinea diverse ipotesi di applicabilità della disciplina sul transfer price (di ciò si discuteva nel caso di specie), ma le diverse ipotesi presentano l’elemento comune di considerare rapporti economici tra un’impresa italiana e un’impresa estera facente parte d’un medesimo gruppo (Cass. n. 8130/2016). L’esistenza di tale presupposto è nella specie incontroverso: la contribuente ha attaccato l’accertamento per erronea applicazione dei principi relativi alla determinazione del valore normale e non per l’inesistenza dei presupposti soggettivi di applicabilità della relativa disciplina.

6. Con il sesto motivo di ricorso si deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 76, comma 5 (oggi art. 110, comma 7) e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si sostiene, in contrasto con la tesi fatta propria dalla sentenza impugnata, che l’applicabilità della disciplina del transfer price presuppone l’intento elusivo, con il conseguente onere del Fisco di dare la prova della superiorità del livello di tassazione in Italia rispetto a quello dei Paesi delle società estere.

6.1. Il motivo è infondato. Secondo il più recente orientamento di questa Suprema corte, al quale si intende dare continuità, “in tema di determinazione del reddito d’impresa, la normativa di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, (ora art. 110, comma 7), non integra una disciplina antielusiva in senso proprio, ma è finalizzata alla repressione del fenomeno economico del transfer pricing (spostamento d’imponibile fiscale a seguito di operazioni tra società appartenenti al medesimo gruppo e soggette a normative nazionali differenti) in sè considerato, sicchè la prova gravante sull’Amministrazione finanziaria non riguarda la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, incombendo, invece, sul contribuente, giusta le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c. ed in materia di deduzioni fiscali, l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua di quanto specificamente previsto dall’art. 9, comma 3, del menzionato decreto” (Cass. n. 18392/2015; conf. Cass. n. 10742/2013).

7. Con il settimo motivo si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Si imputa alla sentenza di avere assunto come mercato di riferimento, in base al quale determinare il valore normale, il mercato del cedente, mentre ambedue le parti in causa avevano indicato a tal fine il mercato del destinatario (nel caso specifico la Germania e l’Irlanda).

7.1. Il motivo, nei limiti in cui si possa riconoscere ad esso autonomia rispetto alla censura oggetto del nono motivo, è infondato.

La Ctr ha operato una ricostruzione dei diversi metodi utilizzabili per determinare il valore normale, rilevando (al termine di tale ricostruzione) che, in questa operazione, occorre considerare “il tempo e il luogo in cui i beni sono stati scambiati”, che è in pratica la trascrizione della norma, per cui la sola questione è se questa sia stata applicata correttamente: ciò costituisce, appunto, il tema oggetto del nono motivo, cui si rinvia.

8. Con l’ottavo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa motivazione su un fatto decisivo e controverso ai fini del giudizio. Il fatto a cui è riferito il vizio di motivazione riguarda l’individuazione del luogo di acquisto delle merci e del conseguente mercato di riferimento ai fini dell’applicazione della disciplina del transfer pricing.

8.1. Il motivo è inammissibile, perchè deduce una omessa motivazione non su una questione di fatto, ma di diritto, in contrasto con il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui il vizio di motivazione può riguardare solo la motivazione del giudizio di fatto, mentre per quanto riguarda il giudizio di diritto, i relativi vizi o costituiscono errori in iudicando censurabili ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oppure, se attengono propriamente e soltanto alla motivazione, non danno luogo a cassazione della sentenza, ma a correzione della motivazione in diritto ex art. 384 c.p.c., u.c. (Cass. n. n. 19618/2003; n. 6328/2008; n. 7050/1997).

9. Con il nono motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 916 del 1986, art. 76, comma 5 (oggi art. 110, comma 7) e art. 9. Secondo la ricorrente, la Ctr non avrebbe considerato che, al fine di rispettare il principio secondo cui il valore normale va desunto sulla base del confronto fra operazioni omogenee, “avrebbero dovuto porre a confronto le transazioni poste in essere con società del gruppo con quelle realizzate nei confronti di parti terze residenti in Germania e in Irlanda, tenuto conto della diversità dei mercati italiano ed esteri interessati solo che si pensi che nell’uno la società contribuente è leader, con una quota de 45% circa dell’intero mercato, e negli altri detiene una quota non superiore al 6% in Germania e al 5% in Irlanda”.

9.1. Il motivo è inammissibile. In disparte il rilievo che la ricorrente denuncia la decisione in termini astratti – in quanto non deduce minimamente che, pur in presenza di una pluralità di transazioni comparabili con soggetti indipendenti irlandesi o tedeschi, la Ctr abbia scelto di considerare solo le cessioni intercorse con clienti italiani – non resta che richiamare il principio, già evidenziato nell’esame del sesto motivo, che, in materia di transfer pricing, l’onere della prova gravante sull’Amministrazione finanziaria riguarda solo l’esistenza di transazioni tra imprese collegate, gravando invece sul contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare che tali transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua dell’art. 9, comma 3, del menzionato decreto, secondo cui sono da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati “in condizioni di libera concorrenza”, con riferimento “in quanto possibile” a listini e tariffe di uso, non escludendosi pertanto l’utilizzabilità, al descritto fine, di altri mezzi di prova (Cass n. 10742/2013).

10. Con il decimo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’ulteriore violazione delle stesse norme per avere la Ctr ritenuto legittimo il metodo utilizzato dal Fisco, che aveva preso come termine di comparazione cessioni poste in essere dalla società con dettaglianti, mentre le cessionarie estere agivano quali distributori all’ingrosso. Il confronto sarebbe stato quindi operato con prezzi riferiti a un diverso stadio di commercializzazione del prodotto, in violazione del D.Lgs. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3.

11. Con l’undicesimo motivo la medesima questione è posta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quale omessa motivazione sul fatto controverso e decisivo; il motivo denuncia inoltre la sentenza per avere trascurato l’unico dato di confronto nazionale attendibile, costituito dal prezzo praticato alla ricorrente dalla San Benedetto S.p.A., società indipendente nel settore della produzione ed imbottigliamento di acque minerali, di cui la ricorrente si serve quando le richieste di prodotto sono tali da non poter essere evase direttamente mediante la propria struttura produttiva. Da tale confronto risultava che i prezzi sono superiori di soli Euro 0,002 a quelli da essa praticati alle consociate del gruppo.

11.1. I motivi, che per la loro connessioni possono esaminati congiuntamente, sono infondati. Infatti I giudici d’appello, dopo avere rilevato che i prezzi praticati dalla società verificata alla propria clientela erano mediamente superiori al doppio rispetto ai prezzi praticati alle consociate, ponevano in luce che il risultato finale era stata depurato sulla base di coefficienti di rettifica (pubblicità, commercializzazione, promozioni, sconti sulle quantità, termini di pagamento) proprio al fine di rendere omogenei i dati di riferimento. Così se in partenza risultava che i prezzi di vendita praticati dalla società agli operatori nazionali “erano mediamente superiori al doppio rispetto ai prezzi praticati alle consociate”, il valore normale sulla base del quale furono determinati i maggiori ricavi fu infine stabilito nell’importo di Euro 0,6719 per litro rispetto al prezzo di vendita alle consociate di Euro 0,5207″. Con riguardo alle cessioni intercorse con la San Benedetto S.p.A., la relativa deduzione della contribuente è stata superata dalla Ctr in base a rilievo che “la San Benedetto non è licenziataria del marchio “Gatorade” e quindi non può commercializzare la relativa bevanda che può solo produrre su richiesta della società verificata e nelle quantità dalla stessa di volta in volta ordinate”.

Ebbene, in tale ricostruzione non è ravvisabile nè la dedotta violazione di legge, non essendoci nessuna affermazione contra legem, nè il denunciato vizio motivazionale, avendo al Ctr dato logica e adeguata spiegazione del proprio convincimento, anche in ordine all’esclusione, dall’ambito delle transazioni comparabili, di quelle intercorse fra la contribuente e la San Benedetto S.P.A..

12. La ricorrente, con la memoria, richiede l’applicazione dello ius superveniens di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015 e, di conseguenza, la rideterminazione della sanzione applicata con riferimento alla ripresa cui si riferisce la vicenda giudiziale. A tal fine indica nella memoria le sanzioni irrogate per ogni singola violazione e la sanzione che deriverebbe dall’applicazione delle nuove norme.

Nel giudizio di cassazione sono proponibili le questioni riguardanti la violazione di legge sopravvenuta, in quanto il giudizio della Corte non è sull’operato del giudice, bensì sulla conformità all’ordinamento giuridico della decisione impugnata (Cass., S.U. n. 21691/2016).

Occorre quindi che il giudice del merito rinnovi la propria valutazione, al fine di verificare se il nuovo valore del minimo previsto per la sanzione conseguente alla contestata violazione sia adeguato alla specifica fattispecie, in considerazione degli elementi soggettivi ed oggettivi rilevanti e se risulti favorevolmente modificato il complessivo trattamento sanzionatorio;

Per quest’aspetto la sentenza va cassata, con rinvio per tale profilo alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

 

rigetta il ricorso; cassa /a sentenza impugnata nei sensi di cui in motivazione e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 3 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2017

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