Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2141 del 31/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 2141 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 22955-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI & ASSOCIATI,
rappresentata e difesa dall avvocato GRANOZZI GAETANO,
2013

giusta delega in atti;
– ricorrente –

3670

contro

BRAJ TERESA C.F.

brjtrs75t44g273b,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso lo

Data pubblicazione: 31/01/2014

studio dell’avvocato SASSANI BRUNO NICOLA, che la
rappresenta e difende giusta delega in atti;
– contrari corrente nonchè contro

DI FALCO GIOVANNI BATTISTA;

avverso la sentenza n. 1022/2007 della CORTE D’APPELLO
di PALERMO, depositata il 25/09/2007 r.g.n. 103/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 12/12/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato DE MARINIS NICOLA per delega GRANOZZI
GAETANO;
udito l’Avvocato PANZAROLA ANDREA per delega BRUNO
SASSANI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ENNIO ATTILIO SEPE, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

– intimato –

R.G. 22955/2008
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Gai

Con sentenza n. 2611/2003 il Giudice del lavoro del Tribunale di Palermo
respingeva le domande proposte da Teresa Braj e Giovanni Battista Di Falco

nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso, per “esigenze
eccezionali” ex art. 8 ceni 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e succ.,
rispettivamente per il periodo dal 7-1-2000 al 29-2-2000 e dal 3-1-2000 al 292-2000, con le pronunce consequenziali.
I lavoratori proponevano appello avverso la detta sentenza chiedendone la
riforma con l’accoglimento della domanda.
La società si costituiva resistendo al gravame di controparte e proponendo
appello incidentale, chiedendo il rigetto delle domande proposte in primo grado
dagli appellanti, assorbite dalla pronuncia del primo giudice di risoluzione per
mutuo consenso tacito dei rapporti.
La Corte d’appello di Palermo, con sentenza depositata il 25-9-2007, in
riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava che tra gli appellanti e la
società appellata era intercorso un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin
dalla data di costituzione del rispettivo rapporto a termine e che pertanto gli
stessi appellanti avevano diritto ad essere riammessi in servizio. Condannava
inoltre la società a corrispondere alla Braj e al Di falco le retribuzioni maturate
a decorrere dal 18-6-2002 e sino alla loro effettiva riammissione in servizio,
oltre gli accessori di legge.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con otto
motivi.
1

nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dirette ad ottenerla declaratoria di

La Braj ha resistito con controricorso e il Di Falco è rimasto intimato.
Infine la società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i primi tre motivi la ricorrente censura, sotto diversi profili di

cui, riformando sul punto la pronuncia di primo grado, ha respinto l’eccezione
di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la mancanza
di una qualsiasi manifestazione di interesse alla funzionalità di fatto del
rapporto, per un apprezzabile lasso di tempo anteriore alla proposizione della
domanda e la conseguente presunzione di estinzione del rapporto stesso, con
onere, in capo al lavoratore, di provare le circostanze atte a contrastare tale
presunzione.
Il primo e il terzo motivo sono infondati mentre il secondo risulta
inammissibile.
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
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violazione di legge e vizio di motivazione, l’impugnata sentenza nella parte in

16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca

volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni
rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.
1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente
ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei
comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del
rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, dopo aver richiamato i principi
in materia affermati da questa Corte di legittimità, ha rilevato che “nella specie,
da un lato nessuna prova è stata fornita al riguardo da Poste Italiane s.p.a.;
dall’altro l’inerzia dei lavoratori dopo la cessazione dell’attività lavorativa è da
attribuire, alla luce del successivo ricorso dalle medesime proposto all’autorità
giudiziaria, ad una fiduciosa aspettativa di essere integrati a tempo pieno
nell’organico dell’azienda o, quanto meno, di essere nuovamente destinatari di
un altro contratto a termine, evenienza quest’ultima cui la società appellata ha
fatto ricorso in varie occasioni.”

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tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la

Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alle censure della ricorrente svolte con

kae

il primo e con il terzo motivo.
Nel contempo, il secondo motivo (con il quale si lamenta che la circolare

affermato, non sarebbe stata “mai citata, né allegata dagli appellanti”) risulta
inammissibile in quanto rivolto nei confronti di una argomentazione della
sentenza impugnata svolta chiaramente ad abundantiam (“Non va poi
trascurato l’ulteriore elemento…”), v. Cass. 22-11-2010 n. 23635, Cass. 2311-2005 n. 24591.
Con il quarto e con il quinto motivo, poi, la società censura (sotto i profili
della violazione di legge e del vizio di motivazione) la sentenza impugnata
nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto ai contratti de quibus
in quanto stipulati (per “esigenze eccezionali…”) oltre la scadenza ultima
fissata dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997 ed all’uopo
sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente ricognitiva dei
detti accordi.
I motivi sono infondati in base all’indirizzo ormai consolidato in materia
dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al
ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
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aziendale richiamata dalla Corte di merito, contrariamente a quanto dalla stessa

del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro
diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi

condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di
procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.
anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste
dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,
Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia
stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto
collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la
5

specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a

sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine

derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio vanno quindi respinti anche i motivi
quarto e quinto.
Con il sesto motivo la società lamenta che la Corte di merito non avrebbe
svolto alcuna verifica in ordine alla effettiva messa in mora del datore di
lavoro, erroneamente considerando all’uopo idonea la notifica della richiesta di
tentativo obbligatorio di conciliazione.
La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “Dica la
Suprema Corte se (ovvero dica la Suprema Corte che): per il principio di
corrispettività della prestazione, il lavoratore — a seguito dell’accertamento
giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al
pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio,
salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente
la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli arti’. 1206 e
segg cod. civ. “.

Tale quesito risulta del tutto generico e non pertinente

rispetto alla fattispecie concreta, in quanto si risolve nella enunciazione in
astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di
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cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo

conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di
merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80).
Del resto, anche la esposizione del motivo risulta assolutamente generica e
priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza

alcun modo il contenuto della richiesta del tentativo obbligatorio di
conciliazione, che, secondo il suo assunto, contrariamente a quanto sul punto
espressamente affermato dalla Corte di merito, non avrebbe integrato un
idoneo atto di costituzione in mora, con l’offerta delle prestazioni lavorative.
Parimenti, con riferimento al settimo motivo, del tutto generica e priva di
autosufficienza è la censura del vizio di motivazione relativa all’aliunde
perceptum, questione che risulta per nulla trattata nell’impugnata sentenza e
sulla quale manca in ricorso qualsiasi indicazione specifica in ordine
all’avvenuta deduzione davanti ai giudici di merito (v. Cass. 15-2-2003 n.
2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336).
Né è censurabile in questa sede il mancato accoglimento della richiesta
(peraltro non meglio precisata in ricorso) di acquisizione di informazioni ex
art. 213 c.p.c., in quanto, come è stato più volte affermato da questa Corte, “la
richiesta di informazioni alla P.A. costituisce una facoltà rimessa alla non
sindacabile discrezionalità del giudice di merito, il cui mancato esercizio (pur
in presenza di una specifica istanza in tal senso formulata dalla parte) non è in
alcun modo censurabile in sede di legittimità” (cfr.. Cass. 11-6-1998 n. 5794,
Cass. 12-4-1999 n. 3573, Cass. 2-9-2003 n. 12789).
Del pari, con riguardo all’ottavo motivo, con il quale si censura, sotto il
profilo della violazione di legge, la mancata considerazione, oltreché
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di una verifica effettiva della messa in mora, senza che la ricorrente riporti in

dell’aliunde perceptum, anche “dell’eventuale concorso colposo del debitore
(consistente nell’omessa ricerca di un nuovo posto di lavoro)”, va rilevata la
assoluta genericità e non autosufficienza della censura (che del resto si
conclude con un quesito altrettanto generico ed astratto e privo di qualsiasi

La ricorrente si limita infatti ad invocare i principi di cui agli artt. 1223 e
1227 c.c., senza specificare in alcun modo come e in quali termini abbia
allegato davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum (in relazione al
quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della
prova) o un concorso colposo della controparte (e senza, peraltro, neppure
indicare in concreto quali siano le “circostanze” che non sarebbero state
valutate dai giudici del merito).
Così risultati inammissibili tali ultimi tre motivi, riguardanti le
conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere
in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato
dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di
principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di
legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in
qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso,
in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 272-2004 n. 4070).

8

riferimento alla fattispecie concreta).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe,
anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad
essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v.
fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza
va condannata al pagamento delle spese in favore della Braj.
Infine non deve provvedersi sulle spese nei confronti del Di Falco, non
avendo quest’ultimo svolto alcuna attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla Braj le
spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00 per compensi, oltre
accessori di legge; nulla per le spese nei confronti del Di Falco.
Roma 12 dicembre 2013

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

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