Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2141 del 31/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 31/01/2011, (ud. 25/11/2010, dep. 31/01/2011), n.2141

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LEA

PADOVANI N. 69, presso lo studio dell’avvocato PIACENTI MAURILIO,

rappresentata e difesa dall’avvocato MURANO GIOVAMBATTISTA, giusta

procura speciale atto Notar ANTONACCI ELIA di BOLOGNA del 20/04/2009

rep. n. 31358;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato PANNONE OTTAVIO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 827/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 12/06/2006 R.G.N. 493/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/11/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO LAMORGESE;

Udito l’Avvocato MURANO GIAMBATTISTA;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI con delega PANNONE OTTAVIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

P.S., premesso di aver lavorato alle dipendenze della società Poste Italiane e di essere stata licenziata nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, in base alla L. 23 luglio 1991, n. 223 ed in applicazione dei criteri di scelta stabiliti con l’accordo sindacale del 17 ottobre 2001, agiva in giudizio perchè fosse dichiarata l’illegittimità della risoluzione del rapporto, con la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione e con le conseguenze previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18.

La domanda era accolta dall’adito Tribunale di Bologna con pronuncia del 14 aprile 2004, che, a seguito dell’impugnazione della società, è stata riformata dalla Corte di appello della stessa sede, con sentenza depositata il 12 giugno 2006.

La Corte territoriale, disattesa l’eccepita inammissibilità del gravame dedotta dall’appellata sotto il profilo della mancanza di specificità dei motivi, ha osservato che il ridimensionamento dell’azienda che giustifica il licenziamento collettivo può riguardare anche il solo elemento personale e che la verifica della sua effettiva sussistenza non è sindacabile dal giudice del merito.

Ha quindi sottolineato l’esatto adempimento della procedura da parte della società, con la completezza della comunicazione indirizzata alle organizzazioni sindacali, ove erano analiticamente indicati gli esuberi del personale, per cui quella comunicazione aveva svolto adeguatamente la funzione, come riconosciuto dalle stesse organizzazioni sindacali. Legittimo poi, in quanto oggettivo e non discriminatorio, era il criterio negoziale di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, con riferimento alla maggiore anzianità e alla prossimità al trattamento pensionistico, senza che fosse necessaria l’indicazione dei reparti o delle lavorazioni da ridimensionare o la specificazione delle filiali in cui dovevano essere attuate le riduzioni del personale. Il medesimo giudice ha giudicato irrilevante la circostanza che per alcuni lavoratori, inclusi fra coloro che dovevano essere licenziati, fosse stata disposta la proroga del recesso per alcuni mesi, sino a quando non fosse stata completata la riorganizzazione aziendale, ed infondata l’eccezione di nullità della procedura, sollevata sotto il profilo che non era stata preceduta dall’ammissione alla cigs. La Corte territoriale ha infine ritenuto priva di dimostrazione la dedotta inosservanza del termine di preavviso, e comunque infondata l’eccezione sollevata in proposito, avendo la stessa P. ammesso di aver ottenuto l’indennità sostitutiva.

Per la cassazione della sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso, con cinque motivi.

La società ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ. e censura la sentenza impugnata per avere escluso la mancanza di specificità dei motivi di gravame, eccepita dalla lavoratrice nella memoria di costituzione in appello, sebbene la società appellante si fosse limitata a riproporre con l’atto di appello le argomentazioni svolte in primo grado.

Il motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte regolatrice “ai fini della specificità dei motivi richiesta dall’art. 342 cod. proc. civ., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno dell’appello, possono sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purchè ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (cfr. Cass. sez. unite 25 novembre 2008 n. 28057). Ad escludere la specificità dei motivi non basta perciò sostenere che l’atto di appello aveva riproposto le argomentazioni svolte nel precedente giudizio, tanto più che nella specie la decisione di primo grado, come pure puntualizza il giudice del gravame, si era limitata nella motivazione estremamente sintetica ad affermare “l’illegittimità della deroga alle esigenze tecniche organizzative e produttive” e “l’illegittimità del ricorso del tutto ingiustificato a criteri soggettivi”, senza prendere in considerazione le deduzioni svolte dalla società.

Il secondo motivo denuncia vizio di motivazione, nonchè violazione o falsa applicazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4.

Nell’addebitare alla sentenza impugnata di non aver considerato l’omissione, da parte dell’azienda, delle indicazioni da riportare nella comunicazione di avvio della procedura di mobilità, si deduce in particolare che la scelta dei dipendenti da licenziare era avvenuta sulla base dei requisiti soggettivi, e non in connessione con comprovate esigenze di ristrutturazione aziendale. Si assume che non è stata esaminata la reale e concreta situazione lavorativa della odierna ricorrente, la quale era l’unico quadro di primo livello applicato all’ufficio postale di Bologna, succ. 31.

Anche queste censure sono prive di fondamento.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la L. n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatane di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo), ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (Cass. 12 ottobre 1999 n. 11455, e numerose altre successive, tra cui Cass. 13 maggio 2004 n. 9134, Cass. 6 ottobre 2006 n. 21541).

Nell’ambito del controllo giudiziale della legittimità del licenziamento collettivo si è altresì precisato che il giudice deve accertare la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento aziendale e i singoli provvedimenti di recesso (Cass. 19 aprile 2003 n. 6385, 6 maggio 2004 n. 8364). Mentre con riguardo alla verifica del rispetto delle regole procedurali si è affermato che la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale. Si è in particolare evidenziato che, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridurre l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra la specificazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione (cfr. Cass. 26 febbraio 2009 n. 4653, in analoga controversia concernente dipendenti di Poste Italiane).

Nella specie, il giudice del merito ha sottolineato che l’azienda aveva avviato la procedura di mobilità motivandola con l’esigenza di riequilibrare i costi, ritenuti eccessivi in modo particolare sul versante del personale, perciò da ridurre; che il ridimensionamento concerneva in varia misura tutti i settori produttivi, tutte le professionalità impiegate e l’intero territorio nazionale; che alla comunicazione inviata alle organizzazioni sindacali era stata allegata una descrizione regione per regione della ripartizione dell’organico in atto, seguita da altra tabella di individuazione degli esuberi, suddivisi con riferimento anche agli inquadramenti contrattuali (quadri di primo e secondo livello, area base ed operativa), da cui, ha rimarcato il medesimo giudice, si evinceva, in contrasto con le deduzioni della P., eccedenza di personale anche nell’area quadri e di primo livello.

Pertanto, in applicazione dei principi di diritto richiamati, il progetto di riduzione del personale complessivo dell’azienda postale imponeva di indicare soltanto la ripartizione delle eccedenze per categorie professionali, nonchè per le aree del territorio nazionale, anche in vista della conseguente necessità di una nuova distribuzione geografica del personale e di una riorganizzazione del lavoro. In relazione a tale progetto, infatti, non sarebbe stato coerente l’indicazione di uffici o reparti con eccedenze, coincidendo la “collocazione” dei dipendenti da licenziare con l’intero complesso aziendale; nè avrebbe avuto alcun senso la specificazione delle concrete posizioni lavorative che si intendevano eliminare, risultando tale profilo completamente estraneo alle ragioni della decisione imprenditoriale e non può perciò avere rilievo la circostanza che l’odierna ricorrente assume essere stata pretermessa dalla sentenza impugnata, e che cioè essa era l’unico quadro di primo livello applicato all’ufficio postale di Bologna, succ. 31.

Nè sono ammissibili le censure con le quali la P. addebita al giudice del gravame l’omessa valutazione delle altre circostanze “soggettive” dedotte nel medesimo motivo (pag. 9 e 10 del ricorso) e di taluni documenti ritenuti decisivi ai fini della risoluzione della controversia, poichè la ricorrente non ha adempiuto all’onere di evidenziarli compiutamente nel presente ricorso, trascrivendo, ove non diversamente specificato, il contenuto dei documenti, come richiede questa Corte per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, e di indicare se nell’atto introduttivo della lite detti elementi fossero stati ritualmente allegati (v. fra le altre Cass. 1 agosto 2008 n. 21032).

Il terzo motivo denuncia violazione o falsa applicazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 9. Si deduce che essendo la P., all’epoca, in servizio da oltre dieci anni alle dipendenze della società Poste Italiane, il recesso le doveva essere comunicato con un preavviso di oltre quattro mesi ai sensi dell’art. 71 ceni, mentre, invece, il preavviso era stato di un solo mese. Si assume inoltre la non contestualità tra la comunicazione prevista dalla norma denunciata e la lettera di licenziamento, l’una del 14 gennaio 2002 e la seconda risalente al 28 novembre 2001, cioè a data anteriore.

Il motivo è infondato in relazione ad entrambi i profili di censura.

Quanto al primo, a disattenderlo è sufficiente osservare come la sentenza impugnata, con statuizione non censurata dalla P., ha accertato che costei aveva accettato il pagamento della indennità sostitutiva del preavviso, e la sussistenza di un accordo in proposito fra datore di lavoro e lavoratrice – intesa questa desumibile anche da comportamenti taciti e concludenti, come quello dell’accettazione, senza riserve, da parte del lavoratore, della preventiva liquidazione e corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso (v. Cass. 8 maggio 2004 n. 8797, 2 novembre 2001 n. 13580) – fa venir meno l’interesse a dolersi dell’inosservanza del termine di preavviso.

Quanto al secondo profilo di censura, esso è inammissibile, poichè pone una questione nuova, formulata per la prima volta con il ricorso per cassazione. La ricorrente deduce che la sentenza qui impugnata “ha completamente omesso qualsiasi valutazione sul punto della tardiva comunicazione da parte dell’azienda”, tuttavia della questione non v’è traccia nella sentenza del giudice del gravame, neppure fra le conclusioni riportate nella relativa intestazione.

Orbene, a parte l’erroneità della formulazione della censura come vizio di motivazione – integrante invece, il vizio di omessa pronuncia, ove effettivamente l’eccezione di tardività fosse stata riproposta nel giudizio di appello ex art. 346 cod. proc. civ., essendo stata la P. vittoriosa in primo grado – la stessa aveva l’onere, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione di specificare, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, in quale atto difensivo o verbale di udienza del giudizio di merito l’aveva formulata, per consentire al giudice di legittimità di verificarne la ritualità e tempestività, e quindi la decisività della questione (Cass. 19 gennaio 2007, Cass. 30 novembre 2006).

Il quarto motivo denuncia violazione o falsa applicazione della L. 23 luglio 1991 n. 223, artt. 2, comma 1, e art. 4, commi 1 e 9, e si sostiene l’errore in cui è incorsa la sentenza impugnata nel ritenere la legittimità della procedura di mobilità, malgrado non fosse stato emesso il decreto del Ministero del lavoro per il trattamento straordinario di integrazione salariale.

Anche questo motivo è infondato. Si deve osservare che la Corte di merito ha fatto espresso all’ipotesi di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 24, recante norme in materia di riduzione di personale, che attiene a quelle imprese le quali, senza una preventiva procedura di c.i.g.s., addivengano alla decisione di ridurre il personale (v.

Cass. 8 febbraio 2010 n. 2734, Cass. 17 novembre 2003 n. 17384), per cui non può avere alcuna rilevanza la denunciata mancanza del decreto del Ministero del lavoro sull’ammissione alla cassa integrazione straordinaria.

Il quinto motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2118 e 2119 cod. civ. La ricorrente lamenta che Poste Italiane ha utilizzato la procedura di licenziamento collettivo “come semplice pretesto per realizzare il vero, unico e malcelato intento di effettuare una considerevole ed estemporanea riduzione di personale” e che avendo la società nell’accordo sindacale del 17, 18 e 23 ottobre 2001 concordato l’assunzione di nuovo personale, essa attraverso il licenziamento collettivo progettato tendeva in parte a ridurre il personale e in parte a sostituire i dipendenti anziani con altri più giovani. Deduce l’illegittimità della procedura adottata dall’azienda, perchè l’accordo sindacale con il quale era stato previsto il licenziamento dei lavoratori in possesso dei requisiti della pensionabilità, consentiva di individuare a priori i lavoratori da espellere dal ciclo produttivo.

Il motivo è infondato, essendo le censure formulate nella prima parte estremamente generiche, ed essendo quelle contenute nella parte successiva già disattese nell’esaminare il secondo motivo.

Il ricorso va dunque rigettato.

Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della società resistente, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 56,00 per esborsi e in Euro 2.000,00 (duemila/00) per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, il 25 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2011

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