Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21406 del 14/08/2019

Cassazione civile sez. I, 14/08/2019, (ud. 13/06/2019, dep. 14/08/2019), n.21406

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28657/2016 proposto da:

M.P., in proprio e quale esercente la potestà

genitoriale sul minore M.G., anche quale erede di

Ma.Gh.; M.T.I., in proprio e quale erede di

Ma.Gh.; B.S., quale procuratore speciale di

M.A., M.S. e R.L., tutte e tre in proprio e

quali eredi di Ma.Gh.; elettivamente domiciliati in Roma,

Via Cassiodoro n. 1/a, presso lo studio dell’avvocato Annecchino

Marco, che li rappresenta e difende, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrenti –

contro

Generali Italia S.p.a., nuova denominazione di Ina Assitalia S.p.a.,

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in Roma, Viale Pinturicchio n. 204, presso lo studio

dell’avvocato Mormino Anna Paola, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Vecchioni Luca, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 473/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 21/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/06/2019 dal cons. Dott. MARULLI MARCO;

lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. De Augustinis U., che ha chiesto che il

ricorso sia dichiarato inammissibile.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. I consorti M. ricorrono a questa Corte onde sentir cassare l’impugnata sentenza della Corte d’Appello di Trieste che, respingendone l’appello, ha confermato la decisione di rigetto in primo grado della querela di falso da essi proposta avverso il rapporto della Polizia Stradale, Sezione di Treviso, n. (OMISSIS), che, nel dare conto dei rilievi effettuati in relazione al sinistro stradale in cui era perito un loro congiunto, tale M.N., aveva attribuito al cadavere raffigurato nella fotografia contrassegnata con il n. 12, trovato riverso in un fosso, corrispondente appunto a quello del loro congiunto, l’identità dell’altro soggetto, tale D.J., pure perito nell’occorso e rimasto invece riverso per terra.

Il proposto gravame si vale di cinque motivi di ricorso cui resiste con controricorso e memoria l’intimata compagnia di assicurazione.

Requisitorie scritte del P.M. a mente dell’art. 380-bis1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2.1 Il primo motivo di ricorso, sotto il profilo della pretesa violazione dell’art. 2700 c.c., censura l’impugnata decisione per aver la Corte d’Appello erroneamente escluso che il rapporto della Polizia Stradale nella parte in cui indicava posizione e generalità delle vittime del sinistro fosse privo di fede privilegiata, costituendo invero un accertamento di fatto individuare le generalità del cadavere e la sua posizione nel teatro di sinistro e non essendo per contro rilevante come si sia pervenuti a tale individuazione o che l’accertamento debba essere ripetuto in altra sede.

2.2 Il motivo non è fondato.

2.3. La Corte d’Appello, motivando il rigetto della corrispondente ragione di gravame, ricordato che la fede privilegiata assiste i soli fatti percepiti sensorialmente dal pubblico ufficiale, ha affermato che la controargomentazione opposta dagli appellanti al verdetto di primo grado “trascura di affrontare il punto nodale della questione, che è la differenza fra ciò che i verbalizzanti videro direttamente: due corpi riversi al suolo; e ciò che essi appresero non in via sensoriale, ma attraverso una elaborazione logica che ha portato i pubblici ufficiali ad attribuire un nominativo a ciascuna salma, non si sa in base a quale fonte, rinviando ad un secondo momento per il riconoscimento delle vittime. In particolare la didascalia alla foto 12 contiene, oltre all’identificazione del defunto, anche l’attribuzione proprio a costui della conduzione del motociclo, quindi il lettore si trova di fronte non già a due fatti caduti nella percezione diretta del personale di polizia, bensì a due valutazione che la medesima compie: la prima, il processo logico inducente all’attribuzione di un qualsiasi nominativo a due sconosciuti; la seconda, la qualità di conducente riconosciuta alla salma caduta nel fosso”. Ora osserva il decidente, mentre la seconda valutazione è errata per quanto risultante in contrario dal testimoniale, “la prima che gli appellanti mettono in dubbio potrà essere anche errata, ma per quel che conta in questa sede, la valutazione non è idonea a sorprendere la pubblica fede, perchè gli autori del rapporto rimettono ad una fase successiva il riconoscimento delle salme, attestandosi così l’incertezza della indagine sui nomi delle vittime, appresi da terzi, ovvero desunti da altri accertamenti quali la compulsazione dei documenti e l’accostamento dei medesimi a ciascuna vittima. Attività”, commenta la Corte, “che escludono entrambe la fede privilegiata all’indicazione nominativa di questa o di quella salma”.

2.4. La Corte d’Appello ha in tal modo mostrato di allinearsi ai dettami di questa Corte in ordine all’efficacia probatoria degli atti formati da un pubblico ufficiale e mente della norma in esergo.

Si osserva infatti nella giurisprudenza di questa Corte, segnatamente con riguardo alle attività documentate da un verbale di accertamento, che l’efficacia di piena prova fino a querela di falso, che ad esso deve riconoscersi appunto ai sensi dell’art. 2700 c.c., in dipendenza della sua natura di atto pubblico, concerne, oltre al fatto della provenienza dell’atto dal pubblico ufficiale rogante e al fatto che le parti presenti abbiano reso al medesimo le dichiarazioni ivi riportate, anche gli “altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”, e ciò nei soli limiti delle attività materiali, immediatamente e direttamente richieste, percepite e constatate dallo stesso pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni (Cass., Sez. II, 30/01/2019, n. 2702). Ne sono di conseguenza esclusi i fatti della cui verità il verbalizzante si sia convinto in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche (Cass., Sez. IV, 07/11/2014, n. 23800), nonchè gli apprezzamenti, i giudizi e le valutazioni dal medesimo espressi (Cass., Sez. II, 27/10/2008, n. 25844), tanto più se essi sono frutto di informazioni apprese de relato (Cass., Sez. III, 03/06/1999, n. 5435) o dalla consultazione di documenti (Cass., Sez. I, 27/04/2011, n. 9380) o da un’errata percezione sensoriale che può generare un errore materiale (Cass., Sez. II, 4/12/2009, n. 25676), circostanze, rispetto alle quali, quando la parte voglia contestarne la verità sostanziale ovvero la fondatezza degli apprezzamenti o delle valutazioni che su di esse si basano, non estendendosi ad esse la fede privilegiata del documento, non si rende necessario impugnare l’atto con querela di falso (Cass., Sez. U, 25/11/1992, n. 12545), la loro confutazione potendo infatti avvenire a mezzo degli ordinari rimedi istruttori nella disponibilità delle parti (Cass., Sez. II, 24/11/2008, n. 27937).

2.5. Nè vi è ragione di deflettere da questo quadro di riferimento in considerazione dei rilievi che vi muove il motivo che, ove non impinge nella valutazioni di questioni di puro merito (il fatto che i verbalizzanti avessero rimesso ad una fase successiva il riconoscimento delle salme valorizzato dal decidente, nella sua potestà di giudice esclusivo della prova, in senso contrario alla fede privilegiata della circostanza qui contestata), cita a proprio conforto la giurisprudenza di questa Corte in ordine all’attività di identificazione che viene esperita dal pubblico ufficiale. Nel far ciò i deducenti non si avvedono, però, che, rispetto alle fattispecie richiamate, quella in disamina risulta connotata da obiettive peculiarità, che ne precludono ogni riduttiva assimilazione, se non per il diverso contesto dell’accertamento, quantomeno per il fatto che esso non è riflesso di una diretta percezione dei verbalizzanti, che l’identità delle persone apprendano direttamente dalle stesse, ma di un processo logico di mediazione tra i dati fattuali che il rilevamento del sinistro rendeva disponibili.

Dunque l’addebito è insussistente ed il motivo va per l’appunto respinto.

3.1. Con il secondo motivo di ricorso i M. si dolgono, deducendo la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c., del fatto che la Corte d’Appello, benchè fosse stata investita della domanda subordinata concernente la posizione del cadavere di M.N. di seguito al sinistro, sulla quale il giudice di primo grado inizialmente adito aveva omesso di statuire, abbia analogamente trascurato di pronunciarsi sul punto, omettendo in tal modo di accertare quale fosse il corretto posizionamento del M. nel teatro del sinistro.

3.2. Non diversamente anche il quinto motivo di ricorso, censurando però la decisione per la pretesa violazione degli artt. 39 e 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, reitera la medesima lagnanza, dolendosi i ricorrenti che la Corte, attinta in grado di appello al fine di sentir pronunciare la nullità della sentenza di primo grado che non aveva statuito sulla domanda, abbia dichiarato inammissibile il relativo motivo di gravame, rendendo in tal modo una pronuncia “nulla per totale inintelligibilità” e adottata in violazione tanto dell’art. 112 c.p.c., non avendo il Tribunale provveduto sulla relativa domanda, che dell’art. 39 c.p.c., avendo erroneamente ravvisato la litispendenza sulla questione rispetto al giudizio risarcitorio.

3.3. Entrambi i motivi non meritano seguito.

3.4. Il secondo si smentisce già da sè leggendo il quinto, dato che sono gli stessi ricorrenti a dire, con questo, che il motivo di gravame volto a denunciare il vizio di omessa pronuncia in cui era caduto il giudice di prima istanza in ordine alla posizione del cadavere del M. è stato dichiarato inammissibile da quello di secondo grado, onde, pur se procedendo solo ad una dichiarazione in rito, non sussiste in capo alla sentenza qui impugnata il vizio che si vorrebbe veder sanzionato.

Peraltro, pur dichiarando il motivo “inammissibile ex art. 342 c.p.c.”, la Corte d’Appello non ha mancato di far notare che il Tribunale, nell’atto di pronunciarsi sull’ammissibilità della querela, aveva comunque affrontato la domanda subordinata “sostenendo implicitamente la litispendenza nel senso che la medesima andava proposta nel giudizio germinativo della causa in discussione”, con il che il motivo, pur in disparte dalla sua rilevata inammissibilità, era stato perciò disatteso, ed il rigetto così pronunciato sottrae l’impugnata sentenza alla rimostranza di che trattasi.

3.5. Questo mette al riparo la decisione anche dalla corrispondente lagnanza che trova espressione nel quinto motivo di ricorso, mentre la nullità di essa per inintelligibilità, per aver la Corte d’Appello dichiarato inammissibile il gravame rigettato anche nel merito, non rivestendo il punto spessore decisorio, non rispecchia un interesse impugnatorio dei ricorrenti meritevole di tutela, a maggior ragione se si riflette che la doglianza esternata non ha ad oggetto il quomodo della decisione ma l’an di essa; così come, d’altro canto, risulta inconferente l’allegazione in critica alla litispendenza rilevata rispetto al giudizio risarcitorio – lamentandosi che in quella sede il giudice adito avesse respinto ogni istanza istruttoria al riguardo giudicando la questione estranea al tema della controversia – dato che se la questione era stata rappresentata in quel giudizio, in quel giudizio e, a fronte della pronuncia declinatoria del giudice ivi adito, nei gradi successivi di esso – la relativa domanda avrebbe dovuto essere coltivata.

4.1. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti deducono ancora la violazione dell’art. 112 c.p.c. poichè il giudice d’appello, a cui si erano rivolti per lamentare che quello di prime cure era incorso nella violazione dell’art. 6 CEDU e dell’art. 6 del TUE allorchè aveva dichiarato inammissibile la querela sull’assunto che l’erroneità del rapporto andava denunciata nel giudizio risarcitorio mediante gli ordinari mezzi istruttori, avrebbe frainteso lo specifico motivo di gravame, limitandosi a rilevare che le preclusioni erano previste in tutti gli ordinamenti interni degli Stati aderenti all’Unione, quando, al contrario, era stata intenzione dei ricorrenti, a fronte del rigetto delle istanze istruttorie al riguardo formulate nel giudizio risarcitorio, rimarcare che per effetto dell’impugnata decisione di primo grado si erano venuti a trovare nella pregiudizievole condizione di non poter provare la propria tesi nè in sede risarcitoria nè in sede di querela.

4.2. Il motivo non ha pregio.

Allorchè la Corte d’Appello, delibando il motivo di che trattasi, ha inteso confutarne la fondatezza richiamando il fatto che “le preclusioni nel processo civile si rinvengono in tutti gli ordinamenti interni degli Stati membri Europei, sicchè, ove ragionevoli, non violano il diritto al processo per il cittadino”, non è affatto incorsa nel fraintendimento lamentato – e tantomeno ha travisato la censura come sottende la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c. ma ha esattamente ricondotto la vicenda – sfrondandola di ogni suggestione emotiva, qui pure riproposta – nei giusti limiti segnati del suo radicarsi all’interno della dinamica processuale e dei meccanismi anche preclusivi, che in quell’ambito disciplinano l’esercizio delle prerogative delle parti secondo il modello del blocco di attività. Non a caso, proprio muovendo lungo questa impostazione che richiama le parti ad un uso consapevole e responsabile degli strumenti processuale in un ottica che se intende salvaguardare il principio di effettività della tutela giurisdizionale nell’interesse dei singoli non intende, d’altro canto, compromettere, a tutela dell’interesse generale l’efficienza del sistema processuale, la Corte d’Appello si è indotta a rilevare che “nella fattispecie gli appellanti sono stati messi a conoscenza dell’antinomia fra l’attribuzione della qualità di conducente al cadavere nel fossato e alle diverse dichiarazioni rese da un informatore poi sentito come teste fin dalla costituzione in quel giudizio dell’odierna appellante”. Da qui traendo, poi, la conclusione, non rettificabile in questa sede in accoglimento della dispiegata doglianza, che “quindi non il sistema giudiziario nazionale, ma solo la colpevole inerzia delle parti ha determinato il maturarsi delle preclusioni avveratisi molti mesi dopo il deposito della comparsa di costituzione della convenuta”.

5.1. Con il quarto motivo di ricorso i M. si danno pensiero di contestare, deducendo sul punto la violazione degli artt. 100,112 e 132 c.p.c., l’errore in cui è caduta la sentenza impugnata nel giudicare inammissibile per difetto di interesse il quarto motivo di gravame con cui si erano doluti della contraddittorietà tra motivazione e dispositivo della sentenza di prime cure, per avere questa ritenuto la querela nella prima inammissibile e nel secondo infondata ed in ragione di ciò applicando anche la sanzione pecuniaria prevista in questo caso. Diversamente da quanto divisato dal decidente, si sostiene, il denegato interesse era al contrario pienamente sussistente, giacchè sull’inammissibilità non si forma il giudicato, che invece qualifica la pronuncia di rigetto se non impugnata, ed inoltre la prima non comporta l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 226 c.p.c., comma 1, applicabile invece alla seconda.

5.2. Il motivo è infondato.

5.3. Il collegio condivide l’approccio argomentativo adottato nell’illustrazione del motivo dai ricorrenti che hanno dichiarato di non voler far torto a questa Corte soffermandosi nel disquisire sulla differenza tra inammissibilità ed infondatezza e crede che, onde aver ragione della doglianza, sia bastevole – in ciò comunque dovendosi correggere la motivazione della sentenza impugnata a mente dell’art. 384 c.p.c., comma 4, – prendere effettivamente atto che, di contro all’affermazione operata dal decidente, sussista un innegabile interesse impugnatorio dei ricorrenti a far valere la pretesa anomalia.

5.4. Senonchè esso non concreta alcuna conseguenza cassatoria, dal momento che il preteso contrasto tra dispositivo e motivazione, da sciogliersi, in linea di principio, nel senso di ritenere prevalente la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale, si rivela nella specie del tutto insussistente poichè neppure i ricorrenti pongono in dubbio il fatto che il giudice di primo grado, nel rigettarne la querela, abbia adottato una pronuncia di merito con cui ha respinto la relativa istanza non già perchè irritualmente proposta, ma perchè essa non era riscontrata dai fatti allegati. Corretta era perciò la determinazione di infondatezza recata dal dispositivo e corretta, poichè irrogata secundum ius, era, di conseguenza, l’applicazione della pena pecuniaria prevista dall’art. 226 c.p.c. in tal caso.

6. Il ricorso va dunque respinto.

7. Spese alla soccombenza e doppio contributo.

P.Q.M.

Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 10200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 13 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2019

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