Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21404 del 14/08/2019

Cassazione civile sez. I, 14/08/2019, (ud. 31/05/2019, dep. 14/08/2019), n.21404

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27713/2015 proposto da:

A. S.r.l. Società Agricola, in persona del legale

rappresentante pro tempore, A.R. in proprio,

elettivamente domiciliati in Roma, Via dei Savorelli n. 11, presso

lo studio dell’avvocato Chiozza Anna, che li rappresenta e difende

unitamente agli avvocati Campostrini Paola, Clementi Bernardino,

Clementi Giuseppe, Clementi Pietro, Severino Federica, Tolentinati

Maurizio, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Agricola Agricola Stella di A.G. e L. S.s., in persona

del legale rappresentante pro tempore, nonchè A.G.,

A.L., elettivamente domiciliati in Roma, Via dei SS. Quattro n.

56, presso lo studio dell’avvocato Losardo Raffaele, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Braida Roberto, giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso il provvedimento della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositato

il 21/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

31/05/2019 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale ZENO

Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione

del secondo motivo;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato Maurizio Tolentinati che ha

chiesto l’accoglimento dl ricorso;

udito, per i controricorrenti, l’Avvocato Roberto Braida che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con sentenza pubblicata il 2 aprile 2009 il Tribunale di Udine accertava che l’uso, da parte di Azienda Agricola A.G. e L. s.s. (poi Società Agricola Stella di A.G. e L. s.s.), costituiva contraffazione del marchio registrato dall’attrice A. s.r.l. e atto illecito di concorrenza sleale; per l’effetto ordinava alla convenuta di cessare l’impiego del segno ” A.”, oltre che di distruggere il materiale pubblicitario, le confezioni e le etichette degli imballaggi in suo possesso in cui era presente il detto nome; fissava inoltre la somma Euro 5.000,00 a carico della stessa convenuta per ogni violazione e inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento adottato.

Interposto gravame, la Corte di appello di Trieste, con sentenza pubblicata il 4 giugno 2012, passata in giudicato, rigettava l’appello principale e, in parziale accoglimento di quello incidentale, condannava l’azienda agricola a modificare la propria ragione sociale, inserendovi indicazioni di fantasia, atte ad assicurare la differenziazione con la ragione sociale della società A., oltre che della ditta di cui era titolare A.R. (il quale aveva introdotto il giudizio insieme a quest’ultima).

2. – La stessa società e A.R. proponevano poi ricorso ex art. 124, comma 7, c.p.i. (d.:gs. n. 30/2005), domandando che Agricola Stella venisse condannata al pagamento delle seguenti somme, come penalità di mora: Euro 9.690.000,00 per i ritardi accumulati da controparte nell’esecuzione dei provvedimenti contenuti nelle sentenze, di primo di secondo grado: Euro 45.000,00 per le violazioni o inosservanze contestate successivamente alle sentenze predette; il tutto con interessi e rivalutazione monetaria.

La Corte di appello di Trieste pronunciava, in data 21 settembre 2015, ordinanza con cui condannava Agricola Stella, oltre che i soci della medesima, A.G. e L., al pagamento di Euro 70.000,00, oltre interessi. L’importo era quantificato sommando le varie penalità di mora, calcolate in ragione di Euro 5.000,00 ciascuna, per le diverse violazioni che erano state accertate. Non era comminata alcuna penalità per il ritardo dei resistenti nella modificazione della ragione sociale della Azienda Agricola A.G. e L.: ciò in quanto, secondo la Corte friulana, alla statuizione con cui era imposto l’obbligo di procedere alla detta modificazione, resa in sede di gravame, non poteva essere estesa la previsione della penale contenuta nella sentenza di primo grado.

3. – L’ordinanza della Corte di Trieste è oggetto del ricorso per cassazione, su due motivi, proposto da A. Società Agricola e A.R.. Resistono con controricorso Agricola Stella, A.G. e L..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Parte ricorrente, nella propria memoria, ha preliminarmente eccepito che la notificazione del controricorso sarebbe affetta da nullità, in quanto eseguita a mezzo del servizio postale da ufficiale giudiziario di Trieste, ritenuto incompetente, giacchè il destinatario della notificazione dell’atto non era residente, dimorante o domiciliato nella sua circoscrizione territoriale, mentre l’atto stesso si riferiva a procedimento di competenza di un giudice (la Corte di cassazione) diverso da quello al quale l’ufficiale notificante era addetto.

L’eccezione va disattesa.

Ancorchè l’istante non ne faccia menzione, le prescrizioni su cui l’eccezione stessa si fonda sono il D.P.R. n. 1229 del 1959, art. 106, comma 1, secondo cui l’ufficiale giudiziario “compie con attribuzione esclusiva gli atti del proprio ministero nell’ambito del mandamento ove ha sede l’ufficio al quale è addetto, salvo quanto disposto dal comma 2 dell’articolo seguente” e, appunto, l’art. 107, che, al comma 2, consente a tutti gli ufficiali giudiziari di “eseguire, a mezzo del servizio postale, senza limitazioni territoriali, la notificazione degli atti relativi ad affari di competenza delle autorità giudiziarie della sede alla quale sono addetti”.

Sul tema sono intervenute di recente le Sezioni Unite che, modificando un precedente orientamento, hanno affermato il principio per cui la violazione delle norme di cui al D.P.R. n. 1229 del 1959, artt. 106 e 107, costituisce una semplice irregolarità del comportamento del notificante, la quale non produce alcun effetto ai fini processuali e, quindi, non configura una causa di nullità della notificazione. E’ stato spiegato che, in particolare, detta irregolarità, nascendo dalla violazione di norme di organizzazione del servizio svolto dagli ufficiali giudiziari, non incide sull’idoneità della notificazione a rispondere alla propria funzione nell’ambito del processo e può, eventualmente, rilevare soltanto ai fini della responsabilità disciplinare o di altro tipo del singolo ufficiale giudiziario che ha eseguito la notificazione (Cass. Sez. U. 4 luglio 2018, n. 17533)

2. – Il primo motivo lamenta falsa applicazione dell’art. 124, comma 2, c.p.i., nonchè falsa applicazione del giudicato (art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c.). Assumono i ricorrenti che la Corte di appello avrebbe errato nell’interpretare la norma di cui al cit. art. 124, comma 2, applicando una tantum la penalità di mora di Euro 5.000,00 a ciascuna delle singole violazioni, anzichè, come avrebbe dovuto, per ogni unità di ritardo temporale che doveva essere stabilita dalla stessa Corte di merito.

Il secondo motivo oppone la violazione del principio generale dell’ordinamento in base al quale la sentenza di appello è sostitutiva a tutti gli effetti di quella di primo grado, anche se integralmente confermativa di quest’ultima, nonchè la violazione del giudicato, a mente delle richiamate disposizioni di cui all’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c.. Sostengono i ricorrenti che avrebbe errato la Corte di appello nel ritenere inapplicabile la penalità di mora al ritardo con cui aveva avuto luogo la variazione della denominazione sociale della società resistente (da Azienda Agricola A.G. e L. ad Agricola Stella di A.G. e L.): infatti, la pronunciata inibitoria non poteva essere scissa dalla penalità di mora pronunciata per ogni violazione, inosservanza o ritardo.

3. – Il ricorso è anzitutto ammissibile, l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 124, comma 7, c.p.i. essendo impugnabile con ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., comma 7 (Cass. 7 febbraio 2017, n. 3189).

4. – L’impugnazione è tuttavia infondata.

La Corte di appello, come si è detto, ha applicato alle singole violazioni da essa constatate la penalità di Euro 5.000,00 (prevista nella sentenza di primo grado). La pronuncia, assunta a norma dell’art. 124, comma 7, c.p.i., è riferita alla inottemperanza, da parte della società Agricola Stella, A.G. e A.L., alla statuizione inibitoria avente ad oggetto l’utilizzo del nome ” A.”: utilizzo accertato in plurime condotte (allocazione di un cartello pubblicitario alla manifestazione “(OMISSIS)”, recante il nome ” A.”; posizionamento di una insegna del medesimo contenuto sulla facciata della cantina della società Agricola Stella; impiego del nome ” A.” nell’etichettatura delle bottiglie di vino; pubblicazione del logo esposto alla manifestazione “(OMISSIS)” in un numero della rivista “(OMISSIS)”; utilizzo dell’indirizzo mail info.vinianselmi.it; adozione della PEC vinianaselmi.pec.c.oldiretti.it; identificazione dell’azienda

resistente attraverso la denominazione ” A.G. e L.”).

Ora, l’inibitoria consiste in un ordine di non fare e importa, dunque, a carico del destinatario, un obbligo di astensione dal compimento della condotta ritenuta illecita. Tale obbligo è suscettibile di esecuzione forzata nelle sole forme previste per l’eliminazione di quanto realizzato (art. 2933 c.c.), ma, nei confronti della protrazione o della reiterazione della detta condotta, opera, come strumento di dissuasione – e quindi, nella materia che qui interessa, come mezzo di coazione indiretta alla cessazione degli atti contraffattivi, con cui è violato il diritto di proprietà industriale – la penalità di mora contemplata dall’art. 124, comma 2, c.p.i..

Per regola, nelle violazioni degli obblighi di non fare la misura coercitiva va raccordata non già al ritardo in un’attività esecutiva, che non può esservi, quanto alla specifica inosservanza al divieto di porre in essere gli atti (nella specie contraffattivi) che integrano un illecito: sicchè la penale colpisce ogni singola condotta con cui è violato l’obbligo di non fare. Non può tuttavia escludersi che il giudice che pronunci l’inibitoria, in presenza di una condotta suscettibile di protrarsi nel tempo senza soluzione di continuità, determini la penalità di mora in ragione del ritardo con cui l’autore dell’illecito ottemperi all’obbligo di porre fine all’attività vietata (si pensi al caso in cui la misura di cui all’art. 124, comma 2, c.p.i. debba applicarsi alla vietata presenza su di un sito web di segni distintivi interferenti con privative altrui). In quest’ultima ipotesi, tuttavia, il giudice del merito dovrà per un verso precisare che la penalità di mora è per l’appunto comminata per sanzionare la mancata cessazione di una determinata attività (e non il compimento di singoli atti con cui si trasgredisca all’obbligo di non facere) e, per altro verso, indicare l’unità temporale da prendere in considerazione per quantificare la somma dovuta. Tale duplice definizione del contenuto del provvedimento si impone per una elementare esigenza di certezza, onde impedire che il destinatario della misura sia esposto a conseguenze patrimoniali imprevedibili, non desumibili dal dictum del giudice.

La stessa esigenza di certezza esclude, del resto, che il giudice dell’attuazione possa integrare il contenuto del provvedimento del giudice del merito che manchi di tali indicazioni: in tal senso, non può dunque condividersi l’affermazione, formulata da parte ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c. (pag. 6), secondo cui la Corte di appello di Trieste avrebbe dovuto “stabilire innanzitutto l’unità di riferimento per l’applicazione della somma dovuta a titolo di penalità di mora”.

Ma a quest’ultimo riguardo sono spendibili ulteriori considerazioni, da ritenere assorbenti. E’ da osservare, al riguardo, che l’art. 124, comma 7, c.p.i. delinea un procedimento deputato a dirimere le contestazioni che sorgono con riguardo alle misure concesse, e non certo a modificare il contenuto delle statuizioni che le riguardano: ciò che può aver luogo solo attraverso l’utilizzo dei pertinenti rimedi impugnatori, ai quali non possono certo sovrapporsi altri interventi (quali, appunto, quelli adottati in forza della disposizione citata). La liquidazione della penale opera difatti sul piano della preventiva risoluzione di questioni attinenti a un titolo che si è già formato, consentendo ai contendenti di prevenire la controversia che possa tra loro insorgere in sede esecutiva nell’ipotesi in cui la parte vittoriosa, intendendo ottenere il pagamento della penalità di mora, ponga direttamente in esecuzione la pronuncia di merito che la preveda (cfr. art. 614 bis c.p.c.), provvedendo ad autoliquidarsi la somma che gli spetterebbe in forza della previsione del provvedimento emesso: soluzione, quest’ultima, che, come è ovvio, espone l’interessato all’opposizione esecutiva della controparte che intenda contestare la quantificazione dell’importo preteso.

In conclusione, ove il giudice non applichi espressamente la penalità ex art. 124, comma 2, c.p.i. a un ritardo, nè comunque indichi l’unità temporale cui ragguagliare la somma dovuta, e vengano in questione puntuali atti che integrino violazioni dell’inibitoria, la liquidazione della detta penalità deve attuarsi prendendo in considerazione tali specifiche inosservanze alla statuizione emessa, restando esclusa una eterointegrazione della sentenza di merito da parte del giudice chiamato a pronunciarsi ex art. 124, comma 7, c.p.i. sulle contestazioni insorte.

Quanto alla restante censura, basterà osservare che la misura di cui dell’art. 124 c.p.i., comma 2 è stata resa dal giudice di primo grado con riguardo a pronuncia che non aveva ad oggetto la modifica della ragione sociale della Azienda Agricola A.G. e L.. L’ordine in questione venne pronunciato dalla Corte di appello con la sentenza del 4 giugno 2012; non avendo il giudice del gravame statuito alcuna penalità di mora con riguardo a tale capo di condanna, non poteva pretendersi di conseguire un tale risultato col ricorso ex art. 124, comma 7: tale ricorso può investire le “contestazioni” inerenti a misure precedentemente adottate, e non la concedibilità di penalità che il giudice del merito abbia espressamente negato, o su cui abbia mancato di statuire; e infatti, l’illegittimo diniego della misura o l’omessa pronuncia sul punto vanno denunciati coi mezzi di impugnazione previsti contro la sentenza di merito, esulando dalle “contestazioni” di cui si è appena detto.

Non può nemmeno sostenersi che l’estensione delle penalità disposte in prime cure alla statuizione, in appello, circa la modificazione della ragione sociale trovi fondamento nel principio per cui la sentenza di gravame si sostituisce a quella di primo grado: ciò non implica, come è del tutto evidente, che le statuizioni rese dal secondo giudice con riferimento a domande precedentemente disattese vadano integrate con quanto disposto dal giudice di prima istanza con riguardo ad altre domande, da lui invece accolte.

Da ultimo, il rilievo (cfr. memoria di parte ricorrente, pag. 10), secondo cui l’ordine di modificazione della ragione sociale era contenuto nella sentenza del Tribunale, si fonda su di un dato palesemente contrastante con la decisione di appello (cfr., in particolare, pagg. 28 e 29 del ricorso per cassazione): non ha quindi alcun fondamento l’affermazione per la quale la penalità di mora si riferiva anche a detta statuizione.

5. – La novità della questione consente l’integrale compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e compensa le spese; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 31 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2019

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