Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2140 del 31/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 31/01/2011, (ud. 25/11/2010, dep. 31/01/2011), n.2140

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato PANNONE OTTAVIO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.M.R., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato DE MICHELE VINCENZO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2067/2006 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 30/11/2006 R.G.N. 2070/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/11/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO LAMORGESE;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI con delega PANNONE OTTAVIO;

udito l’Avvocato GALLEANO SERGIO per delega DE MICHELE VINCENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Bari, con sentenza depositata il 30 novembre 2006, ha confermato, così rigettando l’impugnazione della società Poste Italiane, la decisione di primo grado, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento di D.M.R., disposto nell’ambito della procedura di licenziamento collettivo, in base alla L. n. 223 del 1991 e secondo il criterio, stabilito con accordo sindacale, di concentrare la scelta dei dipendenti da licenziare tra coloro che avevano raggiunto i requisiti per accedere alla pensione di anzianità o di vecchiaia.

La Corte territoriale ha ritenuto la mancanza di collegamento fra le esigenze tecnico-produttive addotte dall’azienda a giustificazione di quella procedura intrapresa e l’individuazione dei dipendenti da licenziare: pur esprimendo la relativa comunicazione di avvio in data 25 giugno 2001 il punto di vista datoriale sulle esigenze tecnico- produttive del ridimensionamento aziendale, la procedura aveva conseguito “un risultato del tutto incoerente”, in quanto era stato applicato in via esclusiva il principio della pensionabilità, senza alcuna distinzione tra le categorie di appartenenza del personale interessato dall’esodo, nel senso che il criterio di scelta aveva colpito indistintamente tutti i dipendenti in assenza di una separata applicazione settoriale; in sostanza era mancato qualsiasi riferimento ai singoli comparti, area operativa, area di base, quadri, professionale etc. Ha sottolineato la sentenza impugnata che l’unica compatibilità nel raffronto tra gli atti prodromici della procedura e il licenziamento collettivo conclusivamente intimato consisteva nella realizzazione, ancorchè parziale (il licenziamento collettivo aveva riguardato 963 lavoratori contro i 9.000 inizialmente ritenuti in eccedenza) dello scopo datoriale di riduzione del costo del personale. Il riferito criterio negoziale di scelta, ha inoltre precisato la Corte di merito, poteva essere legittimamente adottato per soddisfare l’esigenza di attenuazione degli effetti sociali del licenziamento collettivo solo se si fossero scelti i lavoratori da licenziare, siccome pensionabili, tra i 9.000 considerati in eccesso, in base al canone della verifica degli esuberi per ciascuna unità produttiva e per profili professionali, ma qui la società lo aveva utilizzato per contabilizzare il numero delle eccedenze, e poi aveva “cominciato a licenziare scegliendo fra tutti i dipendenti in base al diverso metodo della pensionabilità, così introducendo nella procedura un vizio non rimediabile perchè interruttivo della connessione logico-giuridica che nella L. n. 223 del 1991, lega l’esito della procedura al suo avvio”. Tale difetto, che viziava la condotta del datore di lavoro, era radicale e non limitato ad un errore circa l’individuazione di uno anzichè un altro dipendente, per cui, ha precisato il medesimo giudice, restava priva di rilievo la mancanza di prova circa il licenziamento della D., in caso di corretta applicazione del suddetto criterio di scelta.

Per la cassazione della sentenza la società soccombente ha proposto ricorso con due motivi, poi illustrati con memoria.

L’intimata ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, nonchè vizio di motivazione.

La sentenza impugnata ha concluso per l’insufficienza della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo in base ad una interpretazione della norma che ne fissa il contenuto, errata ad avviso della società. Affermando che l’indicazione là riportata delle qualifiche “quadro di primo livello e di secondo livello”, nonchè delle cd. aree professionali di inquadramento non integra l’indicazione dei “profili professionali” del personale eccedente di cui alla norma denunciata, la Corte di merito ha trascurato il carattere atecnico e generico dell’espressione “profilo professionale”, e non ha considerato che l’adeguatezza della comunicazione iniziale va valutata alla stregua del perseguimento degli obbiettivi che il legislatore assegna alla medesima norma, per cui, raggiunto con le organizzazioni sindacali l’accordo, si deve concludere per la completezza della comunicazione, diversamente le organizzazioni sindacali non sarebbero state poste in grado di discutere le esigenze espresse dal datore di lavoro. Nè peraltro la lavoratrice aveva dedotto e provato vizi e carenze delle informazioni fornite dalla società con l’avvio della procedura, e la loro rilevanza sull’esito della consultazione sindacale, che anzi il giudice del merito ha ritenuto congrua la prospettazione in astratto dell’insufficienza formale ed ha addossato all’azienda l’onere di dimostrare il rispetto delle regole procedurali.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 5, nonchè vizio di motivazione. Deduce l’errore in cui è incorsa la sentenza impugnata nell’affermare che dalla comunicazione di avvio della procedura in questione possano derivare restrizioni degli argomenti potenzialmente oggetto del confronto sindacale, in quanto, invece, obbiettivo della legge è di contenere i sacrifici facendo riferimento a tutti gli occupati, vale a dire tutti i dipendenti, tanto a quelli non interessati dal ridimensionamento aziendale, quanto a quelli in esubero; la norma, nell’individuare l’ambito di operatività dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, si relaziona alle esigenze tecnico produttive ed organizzative del complesso aziendale, con la conseguenza che quell’ambito non può essere limitato ai soli settori individuati come eccedentari. Del resto funzione dei criteri di scelta, anche di quelli negoziali, è di selezionare, una volta qualificati gli esuberi in base alle esigenze tecniche e produttive, i lavoratori da licenziare, non di limitare il potere di recesso.

Erroneamente ancora la sentenza impugnata ha valorizzato eccessivamente il sindacato giurisdizionale sul profilo causale del licenziamento collettivo, senza considerare il costante principio giurisprudenziale secondo cui tale sindacato deve essere limitato alla verifica del rispetto della procedura e dei criteri di scelta convenuti.

Anzitutto devono essere esaminate, in quanto pregiudiziali, le questioni di giudicato interno e del conseguente difetto d’interesse all’impugnazione, sollevate dalla resistente.

Costei nel controricorso ha dedotto che la sentenza di primo grado, confermata in appello, aveva affermato l’illegittimità del licenziamento non solo per la violazione dei criteri di scelta – aspetto su cui la Corte territoriale aveva poi ampiamente argomentato – ma anche per l’inosservanza dell’art. 4 della citata legge n. 223 del 1991 sotto altri profili, non analizzati dal giudice di appello perchè considerati assorbiti. Detti profili costituiscono, ad avviso della resistente, altrettante autonome ragioni di illegittimità del licenziamento, ciascuna idonea a supportare la sentenza, ed in quanto non censurate, non sono state “sostituite” e perciò comportano il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

Queste eccezioni sono infondate. Come avverte la stessa D. nel controricorso (v. pag. 8), la decisione di primo grado era fondata su diverse ragioni – tutte autonomamente in grado di sorreggere la decisione -concernenti i vizi dai quali risulta affetta la procedura di licenziamento intrapresa da Poste Italiane, “vizi denunciati sia in primo che in secondo grado e rispetto ai quali erano stati interposti dalla società ricorrente altrettanti motivi di gravame”. Ed in effetti la sentenza qui impugnata, dopo avere evidenziato che con i motivi di appello formulati l’azienda aveva “diffusamente” criticato tutti i profili di illegittimità del licenziamento rilevati dal primo giudice, ha ritenuto di dover esaminare soltanto la doglianza riguardante l’inosservanza del criterio di scelta dei dipendenti in esubero contemplato nell’accordo sindacale, considerata, per il suo affermato aspetto decisivo, assorbente rispetto agli altri profili devoluti.

La sentenza di appello si basa perciò su un’unica ratio decidendi, ed a questa soltanto, nel proporre il ricorso per cassazione, la società soccombente doveva riferirsi, come in realtà ha fatto, senza che potesse lamentare alcun pregiudizio in ordine agli altri profili di illegittimità della procedura, integranti autonome statuizioni in primo grado e per i quali in appello, malgrado fossero stati investiti dall’impugnazione proposta, non era intervenuta alcuna pronuncia. Come è noto, infatti, per le questioni assorbite la parte non ha l’onere di proporre uno specifico motivo di gravame, che ove proposto risulterebbe privo di oggetto, proprio perchè fa difetto una statuizione contro cui appuntare specifiche doglianze. Va quindi escluso l’eccepito giudicato.

Passando all’esame del ricorso, i due motivi, congiuntamente trattati per la loro connessione, sono fondati.

Si deve infatti osservare che per il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, in materia di licenziamenti collettivi per riduzione di personale, la legge n. 223 del 1991, nel prevedere agli artt. 4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex posi nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatane di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. I residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo), ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva (Cass. 12 ottobre 1999 n. 11455, e numerose altre successive, tra cui Cass. 13 maggio 2004 n. 9134, Cass. 6 ottobre 2006 n. 21541).

Nell’ambito del controllo giudiziale della legittimità del licenziamento collettivo si è altresì precisato che il giudice deve accertare la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento aziendale e i singoli provvedimenti di recesso (Cass. 19 aprile 2003 n. 6385, 6 maggio 2004 n. 8364), mentre con riguardo alla verifica del rispetto delle regole procedurali si è affermato che la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano sottratti al controllo giurisdizionale. Si è in particolare evidenziato che, ove il progetto imprenditoriale sia diretto a ridurre l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i diversi profili professionali previsti dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, senza che occorra la specificazione degli uffici o reparti con eccedenza, e ciò tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura che, nell’ambito delle misure idonee a ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio della scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione (cfr. Cass. 26 febbraio 2009 n. 4653, in fattispecie concernente il licenziamento collettivo dei dipendenti di Poste Italiane).

Come è stato rilevato nella pronuncia ora citata, e in altre nelle quali sono state cassate le decisioni emesse dal medesimo giudice di appello in analoghe fattispecie riguardanti dipendenti postali licenziati per effetto di quella procedura di licenziamento collettivo (v. Cass. nn. 170, 505, 1181, 1406, 1540, 2827, 3013, 6446 tutte del 2009), il giudice del merito, dopo aver premesso in linea con gli orientamenti consolidati della giurisprudenza di questa Corte regolatrice, che le violazioni della procedura (consistenti, in particolare, nell’insufficienza delle informazioni date alle organizzazioni sindacali) hanno effetti lesivi (anche) dei diritti individuali, con la conseguente irrilevanza, su questo piano, degli accordi sindacali comunque raggiunti (cfr. Cass. S.U. n. 302 e n. 419 del 2000; Cass. n. 15377 del 2004), ha ritenuto che non fosse stato adempiuto l’onere di indicare la collocazione aziendale ed i profili professionali del personale eccedente nel presupposto, necessariamente implicito del ragionamento, che non fosse ammissibile ridurre il personale per le causali indicate dall’imprenditore.

La comunicazione di avvio della procedura L. n. 223 del 1991, ex artt. 4 e 24, fatta dalla società ricorrente, ad avviso della Corte territoriale, non esprimeva adeguatamente, il punto di vista datoriale circa le esigenze tecnico-produttive del ridimensionamento, atteso che si limitava ad indicare le eccedenze di personale in ben 9.000 unità, con riferimento soltanto alle regioni, sedi di lavoro e alle classificazioni di tali dipendenti come Q1 (quadri di primo livello), Q2 (quadri di secondo livello), AO (area operativa) e AB (area di base), senza ripetere la distinzione per servizi e funzioni (recapito, sportelleria, staff/rete, CRP, DELP, CUAS, direzioni centrali) del prospetto degli esuberi in data 26 aprile 2001. Ma soprattutto, ha sottolineato il predetto giudice, il risultato conseguito con la procedura era del tutto incoerente con le esigenze quali schematizzate, in quanto era stato applicato il criterio della pensionabilità, senza alcuna distinzione tra le categorie del personale esodato, nel senso che tale criterio di scelta aveva colpito indistintamente tutti i dipendenti senza una separata applicazione settoriale (cioè senza riferimento ai singoli comparti:

area operativa, di base, quadri, professionale, età), e l’unica compatibilità nel raffronto tra gli atti prodromici della procedura e il licenziamento collettivo conclusivamente intimato consisteva nella realizzazione, ancorchè parziale (perchè il licenziamento collettivo in contestazione aveva riguardato 963 lavoratori, tra i quali l’odierna resistente) dello scopo di riduzione del costo del personale, per cui la sentenza impugnata ha ritenuto viziato il licenziamento collettivo anche per illegittimità concernente il criterio di scelta.

Erronea però è l’affermazione della sentenza impugnata laddove sostiene che Poste italiane aveva l’onere di specificare gli esuberi con riferimento ai singoli uffici e con riguardo al settore di attività e alla dislocazione territoriale, indicando gli addetti alle mansioni concrete ritenute non più utili per l’organizzazione, in quanto in tal modo, e qui ribadendosi le argomentazioni svolte da Cass. 4653/09 già citata, ha violato le disposizioni dell’art. 1 e, conseguentemente anche della richiamata L. n. 223 del 1991, art. art. 4, comma 3: a) l’art. 1 perchè ha negato, al di là dei profili formali sui quali apparentemente si incentra la motivazione, la facoltà di Poste Italiane s.p.a., che svolge l’identica attività produttiva sull’intero territorio nazionale, di decidere il ridimensionamento dell’impresa con esclusivo riguardo alla consistenza complessiva del personale ed al fine di ridurre i costi di gestione, determinando le eccedenze in un certo numero di lavoratori regione per regione e per area di inquadramento professionale, così sottoponendo a sindacato la scelta imprenditoriale e finendo, nella sostanza, per considerare ingiustificata una riduzione di personale in questi termini progettata dall’imprenditore, in violazione dei principi innanzi richiamati in tema di licenziamento collettivo; b) l’art. 4, comma 3, perchè la sufficienza dei contenuti della comunicazione di avvio della procedura alle organizzazioni sindacali si deve necessariamente valutare con riferimento ai motivi, esternati nella stessa comunicazione, che determinano l’eccedenza e alle misure proposte dallo stesso imprenditore per attenuare l’impatto sociale dei licenziamenti.

Pertanto, in applicazione dei principi di diritto richiamati, il progetto di riduzione del personale complessivo dell’azienda postale imponeva di indicare soltanto la ripartizione delle eccedenze per categorie professionali, nonchè per le aree del territorio nazionale, anche in vista della conseguente necessità di una nuova distribuzione geografica del personale e di una riorganizzazione del lavoro. In relazione a tale progetto, infatti, non sarebbe stato coerente l’indicazione di uffici o reparti con eccedenze, coincidendo la “collocazione” dei dipendenti da licenziare con l’intero complesso aziendale; nè avrebbe avuto alcun senso la specificazione delle concrete posizioni lavorative che si intendevano eliminare, risultando tale profilo completamente estraneo alle ragioni della decisione imprenditoriale.

D’altra parte, il riferimento legislativo ai “profili professionali” va inteso sì in termini di esclusione della prospettiva formale delle categorie (art. 2095 e 2103 cod. civ.) al fine di privilegiare gli aspetti funzionali della categoria o qualifica d’inquadramento, ma ciò non significa certo richiedere l’indicazione delle concrete posizioni lavorative, cioè delle mansioni svolte, restandosi pur sempre sul piano astratto della classificazione del personale alla stregua della disciplina applicabile al rapporto di lavoro; ed allora, se il giudice di merito aveva accertato che la contrattazione collettiva recava un sistema di inquadramento del personale per “aree funzionali”, ciascuna caratterizzata dall’idoneità professionale allo svolgimento di una pluralità di mansioni, non si comprende perchè l’indicazione dell’area di appartenenza non sarebbe indicazione dei “profili professionali”.

La sentenza, inoltre, si pone in contrasto anche con il principio di diritto secondo cui, in ragione del fine delle informative sulla procedura di mobilità, che è quello di favorire la gestione contrattata della riduzione di personale, la circostanza che sia stato in concreto raggiunto tale fine, per essere stato stipulato un accordo con le organizzazioni sindacali, assume rilevanza nel giudizio di completezza della comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, mentre le eventuali insufficienze o inadempienze informative possono, in ogni caso, essere fatte valere dalle organizzazioni sindacali e non dai singoli lavoratori, salvo che questi ultimi dimostrino l’idoneità in concreto di siffatte informative a forviare o ledere l’esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti alle organizzazioni sindacali, con ricadute a essi lavoratori pregiudizievoli (Cass. 11 gennaio 2008 n. 528). Pur avendo accertato, infatti, che vi era stata effettivamente la gestione contrattata della riduzione di personale in tutti i profili, fino realizzare il risultato di un notevole ridimensionamento delle eccedenze inizialmente programmate, non ne ha tratto le conseguenze sul piano della sufficienza delle informazioni fornite nella fase di avvio della procedura.

E peraltro la sentenza impugnata ha rilevato la mancanza di prova in atti della circostanza che, nel caso di corretta applicazione del riferito criterio di scelta, la D. non sarebbe stata coinvolta nel provvedimento di licenziamento collettivo, argomentazione questa che varrebbe ad escludere una ricaduta pregiudizievole nei confronti della stessa dell’adottato criterio di scelta dei dipendenti da licenziare.

Si deve poi aggiungere che anche la prospettiva di ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti mediante l’applicazione del criterio di scelta (necessitante di accordo sindacale) del possesso dei requisiti per la pensione, offriva elementi utili alla valutazione di sufficienza e coerenza dei contenuti della comunicazione preventiva.

Il detto criterio, in linea con le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 268 del 1994, è ritenuto dalla giurisprudenza della Corte conforme al principio di ragionevolezza e non discriminazione, coerente soprattutto con le finalità del controllo sociale affidato ai sindacati e agli organi pubblici (vedi Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; 24 aprile 2007, n. 9866) ed è ora consacrato a livello legislativo dalla L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 59, comma 3.

Le condizioni favorevoli per un accordo sindacale sul detto criterio erano appunto costituite dalla riduzione di personale da operare sull’intero organico dell’azienda su base nazionale e in relazione a tutte le aeree di inquadramento del personale, senza distinzioni tra uffici e settori produttivi – specifici. Anche questo aspetto induce, quindi, a ritenere sufficienti i contenuti della comunicazione di avvio della procedura, procedura sfociata poi nell’auspicato accordo sindacale.

Il ricorso va accolto sulla base del principio di diritto elaborato da Cass. n. 4653 del 2009, nella sintesi redatta dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo di questa Corte, che qui si trascrive: “In tema di verifica del rispetto delle regole procedurali dettate per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale dalla L. n. 223 del 1991, la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, sottratti al controllo giurisdizionale, cosicchè, nel caso di progetto imprenditoriale diretto a ridimensionare l’organico dell’intero complesso aziendale al fine di diminuire il costo del lavoro, l’imprenditore può limitarsi all’indicazione del numero complessivo dei lavoratori eccedenti suddiviso tra i diversi profili professionali contemplati dalla classificazione del personale occupato nell’azienda, tanto più se si esclude qualsiasi limitazione del controllo sindacale e in presenza della conclusione di un accordo con i sindacati all’esito della procedura, che, nell’ambito delle misure idonee ridurre l’impatto sociale dei licenziamenti, adotti il criterio di scelta del possesso dei requisiti per l’accesso alla pensione”.

Trattandosi di cassazione della sentenza impugnata per violazione di norme di diritto e non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa, a norma dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 1, va decisa nel merito, con il rigetto della domanda proposta dalla D. contro la società Poste Italiane.

In considerazione del difforme esito dei giudizi di merito e delle incertezze rilevate anche in seno alla giurisprudenza della Corte, ricorrono giusti motivi per l’integrale compensazione fra le parti delle spese dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, rigetta la domanda della D.; compensa integralmente fra le parti le spese dei giudizi di merito e di cassazione.

Così deciso in Roma, il 25 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2011

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