Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2139 del 30/01/2020

Cassazione civile sez. trib., 30/01/2020, (ud. 26/03/2019, dep. 30/01/2020), n.2139

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. PERRINO Angel – Maria –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Tony – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 24865/2016 R.G. proposto da:

King s.p.a., in persona del L.R. B.A., rappresentata e difesa

dagli avvocati Enrico Salvatico, Filippo Bruno, Anselmo Carlevaro

con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via

Gian Giacomo Porro 8;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia n. 1766/2016 del 29/1/2015, depositata in data 29/3/2016;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 marzo 2019

dal Consigliere Adet Toni Novik;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. IMMACOLATA ZENO, che ha concluso per l’accoglimento

del 3 e 6 motivo di ricorso;

Uditi gli avvocati Anna Collabolletta per l’Avvocatura Generale dello

Stato e Marco Lenti (per delega).

Fatto

1. La Commissione tributaria provinciale di Milano ha rigettato i ricorsi delle società King S.p.A., importatore, e Multilogistic S.p.A., rappresentante indiretto, avverso gli avvisi di accertamento per dazi e sanzioni 2010 emessi dall’Agenzia delle dogane, con i quali era stata revocata la preferenza tariffaria accordata alla merce – elementi di fissaggio in acciaio inox – di origine “Filippine preferenziale”, con applicazione, oltre al dazio generalizzato per l’origine Taiwan, anche quello antidumping nella misura del 23,6%.

2. La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia (CTR) ha rigettato i ricorsi delle società ed ha accolto il ricorso incidentale dell’ufficio, dichiarando cessata la materia del contendere in relazione ad 1 atto di irrogazione delle sanzioni.

3. Il giudice d’appello riteneva che: – la vicenda si inseriva in una indagine internazionale, condotta in collaborazione con I’OLAF, da cui era emerso che, successivamente all’introduzione di un dazio antidumping sulle merci originarie di Taiwan, era stato rilevato un incremento di esportazioni dalle Filippine verso l’Unione Europea; – gli accertamenti (nella sentenza si richiamano le rappresentazioni grafiche di comparazione delle merci eseguite dall’Ufficio) avevano evidenziato che le stesse merci, importate nelle Filippine da Taiwan, erano state successivamente esportate nei paesi dell’Unione Europea, in particolare in Italia, secondo il metodo del trasbordo (transhipment); – per tali fatti sussisteva la responsabilità solidale dell’importatore e dello spedizioniere; correttamente era stato applicato il dazio generale del 23,60%, in quanto la documentazione commerciale utilizzata per importare la merce nelle Filippine riportava la dicitura Maid in Taiwan; – le autorità doganali Filippine avevano comunicato che i documenti di importazione delle merci erano stati falsificati e che gli elementi di fissaggio importati non erano qualificati per ricevere il trattamento tariffario preferenziale; – in conseguenza erano stati ritirati tutti i certificati Form A.

Su queste premesse, la CTR escludeva che: – fosse stato applicato retroattivamente il Reg. CE n. 205 del 2013; – gli appellanti fossero in buona fede; – fosse stata acquisita prova della lavorazione o trasformazione nelle Filippine della merce importata (operazione questa, peraltro, smentita dal modesto margine di ricarico del 5%, e non immaginabile per ogni singola vite); riteneva infine che le sanzioni applicate erano proporzionate alle violazioni riscontrate, ed erano state emesse nel rispetto del T.U.L.D., art. 303, in base agli scaglioni ivi previsti.

3. La sentenza è stata impugnata dalla società King S.p.A. sulla base di sei motivi. L’Agenzia delle dogane resiste con controricorso.

Diritto

1. Con il primo motivo, la società ricorrente denuncia “vizio di motivazione. Errata e/o insufficiente motivazione circa l’esistenza di un transhipment in mancanza di prove della coincidenza qualitativa delle merci”. La sentenza impugnata aveva richiamato gli accertamenti compiuti dall’OLAF, non considerando che il report finale, come anche i verbali dell’istruttoria compiuta nelle Filippine, non erano stati depositati. La CTR aveva utilizzato tabelle che riportavano pesi e colli delle merci in entrata nelle Filippine e in uscita dal medesimo paese, ma la coincidenza tra questi dati era smentita dalla diversa natura dei beni indicata nella documentazione commerciale (semilavorati, in entrata, e lavorati, in uscita). La motivazione era carente ed illogica nella parte in cui aveva ritenuto esistente un trasbordo e contestato l’esecuzione di operazioni di trasformazione delle merci.

1.1. Il motivo è inammissibile, stante l’applicabilità alla sentenza impugnata della regola della pronuncia c.d. “doppia conforme” di cui all’art. 348 ter c.p.c., (applicabile ratione temporis poichè il gravame è stato proposto nel 2014) e della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (essendo stata la sentenza di appello pubblicata il 29 marzo 2016); – in particolare, la doglianza è inammissibile in quanto contravviene al principio, condiviso dal Collegio, secondo cui nell’ipotesi, come quella che ci occupa, di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, applicabile anche nel giudizio di legittimità in materia tributaria, ovvero al ricorso avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale (cfr. Cass., Sez. U., n. 8053 del 2014), il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528 del 2014; n. 26774 del 2016); adempimento che la ricorrente, nel caso di specie, non ha svolto, emergendo comunque dal contenuto del ricorso che identica è la quaestio facti esaminata da entrambe le Commissioni.

1.2. La censura è inoltre infondata in relazione al valore da attribuire alla relazione OLAF. Occorre premettere che l’ordinamento comunitario attribuisce piena rilevanza di elemento probatorio alla relazione redatta dall’OLAF all’esito delle indagini antifrode, come previsto dal Reg. CE del Parlamento e del Consiglio 25 maggio 1999, n. 1073 del 1999, art. 9, comma 2, (relativo alle “indagini svolte dall’Ufficio per la lotta antifrode (OLAF)”) che espressamente considera la relazione redatta dall’OLAF al termine delle indagini “equipollente” alle relazioni amministrative redatte dagli ispettori dello Stato membro, tanto ai fini delle “regole di valutazione” applicabili, quanto ai fini del “valore” probatorio da riconoscere a tali relazioni secondo la disciplina legislativa dello Stato membro.

Occorre precisare, al riguardo, che se la indicata norma comunitaria attribuisce tale efficacia probatoria esclusivamente al rapporto finale (“al termine della indagine l’Ufficio redige sotto l’autorità del direttore una relazione finale…Le relazioni così elaborate costituiscono elementi di prova…”), tuttavia la stessa non pone alcuna limitazione in ordine alla utilizzabilità nei procedimenti amministrativi e giudiziali dello Stato membro anche delle altre fonti di prova acquisite nel corso delle indagini svolte dall’OLAF, come è dato evincere dal medesimo Reg. comunitario, art. 9, comma 3, e art. 10, comma 1, i quali prevedono la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di “ogni documento utile” acquisito e la comunicazione di “qualsiasi informazione” ottenuta nel corso delle indagini. In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “la relazione elaborata dall’OLAF ha piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro così come dispone il Reg. CE n. 1073 del 1999, e dunque gli elementi raccolti in quei verbali e fatti propri nell’avviso di accertamento sono del tutto idonei a giustificare la pretesa di recupero” (cfr. Corte Cass. 5 sez. ord. 2.3.2009 n. 4997; id. 24.9.2008 n. 23985; id. 28.5.2008 n. 13890), non dubitandosi in tali sentenze che, se la relazione elaborata dall’OLAF ha pieno valore probatorio, anche “gli elementi raccolti in quei verbali e fatti propri nell’avviso di accertamento” sono idonei a sostenere la pretesa tributaria (cfr.: Corte cass. n. 23985/2008, in motivazione; id. V sez. 27.7.2012 n. 13496; 5842/13).

La CTR ha indicato a pag. 9 le ragioni secondo cui i prodotti esportati dalle Filippine erano identici a quelli provenienti da Taiwan. Le argomentazioni poste a sostegno della doglianza non dimostrano alcun vizio logico della sentenza impugnata, nè l’omessa considerazione di elementi di fatto che, ove fossero stati tenuto presenti, avrebbero dovuto indurre a statuizione diversa, ma si limitano a postulare un apprezzamento diverso, senza considerare che il sindacato di legittimità non consente di riesaminare il merito della vicenda processuale, ma solo di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi.

2. Con il secondo motivo, si eccepisce la “violazione e falsa applicazione delle regole di origine Reg. Ce n. 2454 del 1993, allegato 15, (all. 4), (dac)”. Il dazio antidumping del 23,6% era stato ritenuto applicabile perchè la sentenza impugnata aveva ritenuto che la merce provenisse da Taiwan in base alla dicitura Made in Taiwan riportata in un documento; nessuna indagine tuttavia era stata compiuta circa un’eventuale lavorazione sostanziale in Taiwan o la prevalente origine taiwanese della materia prima. La provenienza da Taiwan non era sufficiente per ritenere che quello fosse il paese di produzione dei prodotti, con la conseguenza che dovevano ritenersi prodotti in luogo sconosciuto.

Pur in difetto di indicazione in rubrica del paradigma di legittimità invocato, la ricorrente sembra eccepire il vizio di violazione di legge. In questa ottica la censura è inammissibile. Una recente sentenza ha affermato – in termini molto chiari – che la erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (c.d. vizio di sussunzione) postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato “fermo ed indiscusso”, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (Cass., Sez. 3, n. 6035 del 13/03/2018). L'”errore di diritto” nell’attività di giudizio si traduce nella inesatta o errata individuazione od interpretazione della norma (o della fattispecie astratta in essa considerata) che deve essere applicata al rapporto come esattamene cognito nei suoi elementi fattuali, ovvero in un errore di sussunzione (che si verifica quando i fatti come oggettivamente rilevati non appaiono riconducibili alla fattispecie astratta contemplata dalla norma, ovvero pur essendo a quella riconducibili vengono tuttavia regolati dal Giudice sulla base di effetti giuridici diversi da quelli considerati dalla norma applicata).

Nel caso in esame, sotto la veste della violazione di legge, la ricorrente censura la valutazione delle prove che hanno portato la CTR ad affermare (pag. 9-10) l’origine taiwanese delle merci importate.

3. Con il terzo motivo, si denuncia “errata interpretazione e/o applicazione del Reg. CE n. 771 del 2005, e del regolamento generale Reg. CE n. 384 del 1996, (art. 13)”. Secondo la ricorrente, con “un ulteriore salto motivazionale”, la CTR avrebbe errato applicando il dazio antidumping nella misura del 26,4% (recte, 23,6%) sul prezzo di importazione in Italia, non corrispondente al prezzo di esportazione da Taiwan, su cui il regolamento CE 771/2005 ha calcolato il margine di dumping. Nel caso in esame, non essendo stato rintracciato il produttore delle merci, il dazio era stato applicato ad un prezzo che non era quello di esportazione da Taiwan, sul quale, dati i passaggi commerciali documentati, non era più certo che il prezzo corrisposto all’importazione dalla società King possa definirsi ancora in dumping, posto che comprendeva anche gli oneri accessori (costi, spese di trasporto, costi doganali di importazione e esportazione nelle Filippine, il ricarico del 5%). La Commissione avrebbe applicato un regolamento specifico ad una fattispecie non disciplinata, laddove il regolamento di base antidumping – Reg. CE n. 384 del 1996, art. 13, – richiedeva una specifica procedura per la registrazione delle operazioni sospette al fine della verifica dell’elusione. Pertanto, essendo stata l’inchiesta sulle Filippine avviata con il Reg. CE n. 502 del 2012, c’era stata una illegittima applicazione retroattiva del Reg. n. 205 del 2013.

3.1. Ancora in difetto di indicazione in rubrica del paradigma di legittimità invocato, la ricorrente sembra eccepire il vizio di violazione di legge in relazione all’origine taiwanese della merce importata. In questa ottica la censura è inammissibile in quanto surrettiziamente si attacca la motivazione della CTR che a pag. 10 ha dettagliato le ragioni in fatto che l’hanno indotta a ritenere che la merce importata non fosse di origine preferenziale valorizzando l’intervenuta revoca dei certificati Form A “il cui rilascio era intervenuto per una cattiva rappresentazione dei fatti da parte dell’esportatore”. In presenza di una “doppia conforme” e della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la censura incentrata sul vizio motivazionale non è utilmente proponibile.

3.2. Quanto alla evocata applicazione retroattiva del Reg. CE n. 771 del 2005, e del regolamento generale Reg. CE n. 384 del 1996, (art. 13), la medesima censura è infondata.

3.2.1. Ai fini di una più chiara comprensione della vicenda è necessario ripercorrere sinteticamente le misure adottate in materia di dazi antidumping con riguardo a Taiwan, rispetto all’importazione nella Comunità Europea di fissaggi in ferro e acciaio (sinteticamente riportate nella sentenza impugnata).

3.2.2. Il Reg. (Ce) n. 771 del 2005, della Commissione del 20 maggio 2005 ha istituito un dazio antidumping provvisorio sulle importazioni di taluni elementi di fissaggio di acciaio inossidabile e di loro parti originari della Repubblica popolare cinese, dell’Indonesia, di Taiwan, della Thailandia e del Vietnam.

L’Art. 1 (nelle parti rilevanti in questa sede) dispone:

1. E’ istituito un dazio antidumping provvisorio sulle importazioni di taluni elementi di fissaggio di acciaio inossidabile e di loro parti, classificati ai codici NC 7318 12 10, 7318 14 10, 7318 15 30, 7318 15 51, 7318 15 61 e 7318 15 70, e originari della Repubblica popolare cinese, dell’Indonesia, di Taiwan, della Thailandia e del Vietnam.

2. L’aliquota del dazio antidumping provvisorio applicabile al prezzo netto franco frontiera comunitaria, dazio non corrisposto, per i prodotti fabbricati dai produttori esportatori di Taiwan elencati nell’allegato è del 15,8% (codice addizionale TARIC A649).

3. Le aliquote del dazio antidumping provvisorio applicabili al prezzo netto franco frontiera comunitaria, dazio non corrisposto, per i prodotti fabbricati dalle società elencate di seguito sono: omissis.

Tutte le altre società non menzionate sopra e le società elencate nell’allegato 23,6.

4. omissis.

5. Salvo disposizioni contrarie, si applicano le norme vigenti in materia di dazi doganali.

3.2.3. Il Reg. (Ce) del Consiglio 14 novembre 2005, n. 1890 del 2005, ha istituito un dazio antidumping definitivo e disposto la riscossione definitiva dei dazi provvisori istituiti sulle importazioni di taluni elementi di fissaggio di acciaio inossidabile e di loro parti originari della Repubblica popolare cinese, dell’Indonesia, di Taiwan, della Thailandia e del Vietnam e ha chiuso il procedimento relativo alle importazioni di taluni elementi di fissaggio di acciaio inossidabile e di loro parti originari della Malaysia e delle Filippine.

L’Art. 1 (nelle parti rilevanti) dispone:

1. E’ istituito un dazio antidumping definitivo sulle importazioni di taluni elementi di fissaggio di acciaio inossidabile e di loro parti, classificati ai codici NC 7318 12 10, 7318 14 10, 7318 15 30, 7318 15 51, 7318 15 61, e 7318 15 70, e originari della Repubblica popolare cinese, dell’Indonesia, di Taiwan, della Thailandia e del Vietnam.

2. L’aliquota del dazio antidumping definitivo applicabile al prezzo netto franco frontiera comunitaria, dazio non corrisposto, per i prodotti fabbricati dai produttori esportatori di Taiwan elencati nell’allegato è del 15,8% (codice addizionale TARIC A649).

3. Le aliquote del dazio antidumping definitivo applicabili al prezzo netto franco frontiera comunitaria, dazio non corrisposto, per i prodotti fabbricati dalle società elencate di seguito sono: omissis.

Tutte le altre società non menzionate sopra e le società elencate nell’allegato 23,6.

4. Salvo disposizioni contrarie, si applicano le norme vigenti in materia di dazi doganali.

3.2.4. Il Reg. di base n. 1225 del 2009, art. 10, (che, “a fini di razionalità e chiarezza”, ha rielaborato organicamente il Reg. CE n. 384 del 1996), stabilisce che: “Retroattività. 1. Le misure provvisorie e i dazi antidumping definitivi sono applicati unicamente ai prodotti immessi in libera pratica dopo l’entrata in vigore delle decisioni adottate a norma dell’art. 7, paragrafo 1, e dell’art. 9, paragrafo 4, a seconda del caso, fatte salve le eccezioni di cui al presente regolamento”. A sua volta, l’art. 13, paragrafo 1, prevede che l’applicazione dei dazi antidumping può essere estesa alle importazioni da paesi terzi di prodotti simili, leggermente modificati o meno, con la conseguenza che le importazioni da Taiwan oggetto di contestazione sono considerate elusive del dazio antidumping Cina e soggiacciono all’applicazione del dazio previsto per quella Nazione istituito nel 2009.

3.3. Si tratta di norme antecedenti le importazioni in contestazione avvenute nel 2010-, conosciute, o conoscibili, dalla società che, quindi, era in grado di prevedere l’applicazione del dazio antidumping.

Ininfluente è che nella sentenza impugnata, a soli fini argomentativi, sia stata fatta menzione del Reg. CE n. 205 del 2013, non pertinente nella fattispecie in quanto relativo alle importazioni “di taluni elementi di fissaggio in acciaio inossidabile e loro parti spediti dalle Filippine” nell’UE, ma originari della Repubblica Popolare Cinese (RPC).

4. Con il quarto motivo, la società denuncia “errata e/o insufficiente e contraddittoria motivazione circa l’assenza di buona fede della esponente”. Non sarebbero stati valutati dalla CTR i rapporti fiduciari intercorsi tra la King e le case madri taiwanesi (Tong Hwei e Min Hwei) che fruivano di un dazio antidumping agevolato ed il significato da attribuire alle pubblicazioni sulle Gazzette Ufficiali della Comunità Europea delle indagini svolte in Oriente che non avevano evidenziato, prima del 2013 (Reg. CE n. 205 del 2013), un coinvolgimento delle Filippine in attività di elusione doganale.

La CTR, si afferma, avrebbe compiuto una – “Errata valutazione e contraddittoria motivazione delle prove circa l’applicazione dell’art. 220 C.D.C.,” nonchè una – “Errata interpretazione e applicazione del Reg. CE n. 1079 del 1999, art. 11, sulla valenza probatoria della relazione conclusiva OLAF”, quest’ultima mai prodotta dall’Ufficio, laddove le relazioni presentate non avevano le caratteristiche di specificità e motivazione richiesti agli atti redatti dagli organi investigativi italiani, ma si presentavano generiche e prive di indicazioni sulle misure da adottare e sui dazi da recuperare.

4.2. La censura è inammissibile. Fermo il limite di deducibilità del vizio di motivazione in presenza di una “doppia conforme”, va aggiunto che le Sezioni unite di questa Corte hanno avuto occasione di chiarire (per tutte, Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053) che in relazione a sentenze, come quella in esame, soggette al regime delineato dal testo novellato dell’art. 360 c.p.c., 1 comma, n. 5, il controllo di legittimità concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, è scomparso il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza e della contraddittorietà, ma resta il controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata. L’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti. E’ quindi denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. S.U. 7/04/2014, n. 8053).

4.3. Nella vicenda all’esame la ricorrente non individua quali fatti storici, decisivi ai fini della decisione, il giudice di merito avrebbe omesso di prendere in esame, ma sottopone al Collegio soltanto le contraddizioni in thesi riscontrate nella motivazione resa, come tali inidonee a consentire l’esame delle doglianze da parte del giudice di legittimità. Posto che il tema devoluto con la censura concerne la buona fede, i rilievi appaiono comunque infondati a fronte della esaustiva motivazione della CTR, fondata sulle indagini OLAF riportate nell’accertamento. Il profilo della buona fede della ricorrente è stato esaminato ed escluso con motivazione logica dalla CTR (pag. 11), che ha messo in evidenza tutti gli indici in base ai quali la società aveva l’obbligo di verifica e di controllo dei propri fornitori. Va ribadito che “Nel caso in cui l’autorità doganale abbia allegato e dimostrato l’irregolarità delle certificazioni presentate, procedendo al recupero “a posteriori” dell’imposta, spetta al dichiarante dimostrare l’esistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dall’art. 220 codice doganale comunitario, (Reg. CEE 12 ottobre 1992, n. 2913), ossia che i dazi non siano stati riscossi per un errore delle autorità competenti, che tale errore sia tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede e che il dichiarante abbia rispettato tutte le prescrizioni normative riguardanti la sua dichiarazione in dogana. (Sez. 5 -, Sentenza n. 5560 del 26/02/2019, Rv. 652961 – 02). L’art. 220 Codice Doganale Comunitario, p. 2, comma 1, lett. b, esenta da responsabilità l’importatore in buona fede in casi tassativi circoscritti. Questa Suprema corte ha chiarito che essa “per essere applicata, richiede un compiuto esame da parte del giudice sulla ricorrenza della buona fede, che va dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova di tutti i presupposti necessari perchè resti impedito il recupero daziario: a) un errore imputabile alle autorità competenti; b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; c) l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente” (Cass. n. 7702/2013). Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore, richiesto dal Reg. CEE n. 2913 del 1992, art. 220, comma 2, lett. b), (cosiddetto Codice doganale comunitario) ai fini dell’esenzione della contabilizzazione a posteriori, non ha valenza esimente in re ipsa, ma solo in quanto sia riconducibile ad una delle situazioni fattuali individuate dalla normativa comunitaria, tra le quali va annoverato l’errore incolpevole, purchè però esso sia imputabile a comportamento “attivo” delle autorità doganali nel rilasciare le certificazioni all’esito dei controlli sulle dichiarazioni di provenienza degli esportatori” (Cass. n. 7837/2010). E, tuttavia, tale errore, per assumere rilievo esimente, deve essere in ogni caso imputabile a comportamento attivo delle autorità doganali, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dello stesso operatore o di altri soggetti (Corte di Giustizia, 27 giugno 1991, Mecanarte, C348/89, punti 23, 24; Corte di Giustizia 18 ottobre 2007, Agrover, cit., punto 31; Corte di Giustizia 10 dicembre 2015, Veloserviss, C427/14 punti 43, 44). Ciò posto è corretta l’affermazione della CTR là dove, con pertinente richiamo giurisprudenziale, ricorda che “dell’affidabilità dei propri fornitori rispondono gli operatori comunitari del settore, considerato che la comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori”.

4.4. Il tema della valenza probatoria delle relazioni OLAF è stato già trattato al precedente 1.2., cui si fa rimando.

5. Con il quinto motivo, si deduce il “Vizio di motivazione. Errata e/o insufficiente motivazione circa la sanzionabilità della condotta degli esponenti senza prova di colpa o dolo”. Essendo stata la frode scoperta soltanto dopo due missioni OLAF e con la collaborazione delle autorità Filippine, non vi era responsabilità dell’importatore nell’aver ritenuto che la merce fosse di produzione filippina. La CTR non avrebbe considerato che la norma invocata dall’ufficio, T.U.L.D., art. 303, era stata successivamente modificata (D.L. 2 marzo 2012, n. 6), con la previsione che il presupposto per l’irrogazione delle sanzioni è la differenza di qualità, quantità e valore delle merci, ma non l’origine.

La doglianza è infondata. In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 5, applicando alla materia fiscale il principio sancito in generale dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3, stabilisce che non è sufficiente la mera volontarietà del comportamento sanzionato, essendo richiesta anche la consapevolezza del contribuente, cui deve potersi rimproverare di aver tenuto un comportamento, se non necessariamente doloso, quantomeno negligente. Ciò va inteso nel senso della sufficienza della coscienza e della volontà, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di chi lo abbia commesso, lasciando a costui l’onere di provare di aver agito senza colpa (Cass. 22890/2006; conf. 13068/2011; v. 4171/09, sulla non necessità di un intento fraudolento). Mentre l’esimente della buona fede, come si è detto nel paragrafo che precede, rileva solo se l’errore sia inevitabile, occorrendo che l’ignoranza dei presupposti dell’illecito sia incolpevole, cioè non superabile con l’uso della normale diligenza (Cass. 10607/03, in tema d’importazione di valuta). Nessuna incidenza ha sulla fattispecie la sopravvenuta modifica normativa citata dalla ricorrente: peraltro, la giurisprudenza di legittimità ormai costante afferma che il TULD, art. 303, punisce anche la dichiarazione non veritiera sull’origine delle merci, poichè l’origine è elemento distintivo della qualità, coperto dall’interpretazione estensiva (non analogica) della norma sanzionatoria (Cass. 27 luglio 2012, n. 13489, Rv. 623648; Cass. 3 agosto 2012, n. 14030, Rv. 623654; Cass. 3 agosto 2012, n. 14042, Rv. 623866; Cass. 14 febbraio 2014, n. 3467, Rv. 630066; Cass. 29 luglio 2016, n. 15872, Rv. 640663).

6. Con il sesto motivo, si eccepisce “Mancata e/o insufficiente motivazione circa la sproporzione della sanzione di cui al t.u.l.d., art. 303”, avendo la CTR limitato la sua valutazione solo circa la sua funzione e capacità dissuasiva. Sostiene inoltre la ricorrente che, essendo stata la violazione accertata a posteriori una sola volta, il cumulo avrebbe dovuto essere applicato in relazione a tutte le bollette rettificate, e non soltanto all’interno di ogni dichiarazione IVA e le violazione daziarie.

Il motivo è inammissibile, ai sensi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e comunque infondato.

6.1. Il Codice Doganale dell’Unione n. 952 del 2013, è inapplicabile ratione temporis alla fattispecie. Correttamente quindi i giudici di merito hanno applicato il T.U.L.D., art. 303.

6.2. Il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, non può trovare applicazione nel caso in esame, in cui ricorre un’indubbia violazione sostanziale. Di qui l’inapplicabilità del meccanismo di computo da tale norma previsto.

6.3. La richiesta della ricorrente di “rimettere alla Corte di Giustizia il vaglio di compatibilità del tuld, art. 303, con i parametri di cui al Reg. ce n. 450 del 2008, art. 21,” non può essere accolta. Rientra nelle attribuzioni di ogni Stato membro dell’UE il compito di contrastare le violazioni alle norme doganali applicando il regime sanzionatorio che ritiene più appropriato. La Corte di giustizia dell’Unione Europea si è ripetutamente pronunciata sulla conformità al diritto comunitario delle sanzioni doganali adottate degli Stati membri. Dalla lettura di tali pronunce emerge chiaramente che gli Stati membri devono vigilare affinchè le sanzioni applicabili al proprio interno siano uniformi a quelle applicabili all’interno degli altri stati membri e, soprattutto, devono fare in modo che tali sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive in conformità ai principi generali del diritto comunitario. La Corte ha precisato che, in assenza di armonizzazione delle normative comunitarie in questo settore, gli Stati membri hanno la competenza di scegliere le sanzioni che sembrano loro più appropriate. Essi sono tuttavia tenuti ad esercitare questa competenza nel rispetto del diritto comunitario e dei suoi principi generali e, di conseguenza, nel rispetto del principio di proporzionalità (v. sentenza De Andrade, cit., punto 20). Come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 36 delle sue conclusioni, nè il codice doganale nè il regolamento d’applicazione prevedono misure particolari allorchè l’obbligazione sorge sulla base degli artt. 202-205 codice doganale, artt. 210 e 211 codice doganale, nonchè 220 codice doganale, che riguardano tutti situazioni caratterizzate da una violazione, da parte dell’operatore interessato, della normativa doganale comunitaria. In tale contesto, si deve concludere che gli Stati membri sono competenti ad adottare i provvedimenti appropriati per assicurare il rispetto della normativa doganale comunitaria, a condizione che i detti provvedimenti rispettino il principio di proporzionalità. A tanto provvede l’art. 303, citato nel prevedere fasce diverse di sanzioni rapportate all’ammontare dei diritti di confine evasi.

7. Le spese seguono la soccombenza; sussistono i presupposti per l’applicazione nei confronti della ricorrente del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate, in complessivi Euro 7000, oltre alle spese prenotate a debito ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quanto previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’udienza, il 26 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2020

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