Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21387 del 18/09/2013


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 21387 Anno 2013
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: FALASCHI MILENA

usucapione — Bene
dell’Ente
Maremma

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 10177/07) proposto da:
MURRU PINUCCIO E MURRU TONINO, rappresentati e difesi, in forza di procura speciale a
margine del ricorso, dall’Avv.to Roberto Santi Laurini del foro di Grosseto ed elettivamente
domiciliati presso lo studio degli Avv.ti Siliva Bandini e Caterina Bindocci in Roma, via Blumenstihl
Bernardo n. 55;
– ricorrenti –

contro
BARTALUCCI GIORGIO, rappresentato e difeso dall’Avv.to Luciano Giorgi del foro di Grosseto,
in virtù di procura speciale apposta a margine del controricorso, ed elettivamente domiciliato
presso lo studio dell’Avv.to Nicola Di Pierro in Roma, via Tagliamento n. 55;
– controricorrente –

i(8f/1-3

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Data pubblicazione: 18/09/2013

avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 1886 depositata il 4 dicembre 2006.
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 22 aprile 2013 dal
Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;
uditi gli Avv.ti Giuseppe Flammia (con delega dell’Avv.to Roberto Santi Laurini), per parte

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Sergio Del
Core, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 26 aprile 1995 Giorgio BARTALUCCI evocava, dinanzi al
Tribunale di Grosseto, Pinuccio e Tonino MURRU per ottenere la condanna degli stessi al rilascio
del terreno sito in Campagnatico (GR) distinto al foglio 33, particelle 46 (per intero) e 22 (in parte),
oltre al risarcimento del danno a titolo di mancato godimento del bene per tutto il periodo
dell’illegittima occupazione.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei MURRU, i quali rilevavano che il possesso del
terreno era stato loro trasmesso in occasione dell’acquisto del podere Tamantino’ avvenuto nel
1991 da parte dei loro danti causa, precisato che questi ultimi lo avevano posseduto
pacificamente dal 1987, così come aveva fatto la precedente proprietaria, sig.ra Biagiotti, che
aveva avuto assegnato il podere, comprensivo dei terreni in questione, dall’Ente Maremma nel
1963, per cui spiegavano domanda riconvenzionale per usucapione dei beni de quibus, il giudice
adito, rigettava la domanda riconvenzionale e per l’effetto accoglieva quella attorea, anche quanto
al risarcimento del danno liquidato in €. 8.489,14.
In virtù di rituale appello interposto dai MURRU, con il quale deducevano di avere detenuto il
terreno in buona fede e solo per ettari 0,43.20, per cui la pretesa risarcitoria doveva essere
ridotta, la Corte di appello di Firenze, nella resistenza del BARTALUCCI, che proponeva anche

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ricorrente, e Luciano Giorgi, per parte resistente;

appello incidentale sempre in punto risarcimento del danno, rigettava l’appello principale e in
accoglimento di quello incidentale, condannava gli appellanti al risarcimento della ulteriore
somma di €. 1.543,98, oltre ad interessi legali.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che non poteva ritenersi

22.1.1992 di contestazione della abusiva detenzione del fondo, con intimazione di rilascio. Né
poteva trovare accoglimento l’asserita detenzione di una minore estensione di terreno di cui alla
particella 46, giacchè a prescindere dalla destinazione (coltivazione o boschiva) era comunque
nella disponibilità degli appellanti.
Aggiungeva che essendo il rilascio intervenuto nel luglio 2004, iniziata la detenzione in mala fede
almeno dal gennaio 1992, il danno da mancato reddito doveva essere computato per la durata di
tredici anni.
Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Firenze hanno proposto ricorso per
cassazione i MURRU, basato su cinque motivi, al quale ha replicato il BARTALUCCI con
controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1147 c.c.,
nonché omessa ed insufficiente motivazione, per avere la corte di merito sostenuto la mancanza
di buona fede degli appellanti con riferimento quanto meno alla lettera del gennaio 1992,
indirizzata ai MURRU dal proprietario, senza tenere conto che la legge considera possessore in
buona fede chi ignora di ledere il diritto altrui, stato psicologico che non muta con la semplice
richiesta stragiudiziale. Proseguono i ricorrenti che vi sarebbe totale carenza di motivazione in
ordine sia alle modalità di apprensione del terreno sia al contenuto della lettera racc. a/r del 1992.

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sussistere la buona fede almeno relativamente alla detenzione successiva alla lettera racc.

A conclusione del motivo viene posto il seguente quesito di diritto: “ai fini della determinazione del

venir meno della buona fede del possessore ex art. 1147 c.c. è sufficiente una missiva
contenente la contestazione dell’abusiva occupazione del bene e la richiesta di sua restituzione
ovvero è necessario che la contestazione sia idonea ad ingenerare nel possessore più di un

circostanze concrete per valutare la fondatezza della contestazione?”.
Con il secondo motivo viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1148
c.c., oltre ad omessa ed insufficiente motivazione, perché avendo il giudice del merito
commisurato il danno al mancato reddito proveniente dal terreno, avrebbe dovuto conteggiare la
mancata percezione dei redditi soltanto dal 1995, anno in cui il BARTALUCCI ha promosso la
causa, come previsto dalla norma invocata. Il motivo culmina nel seguente quesito di diritto:

“il

principio contenuto nell’art. 1148 c.c. secondo il quale la domanda giudiziale fa cessare gli effetti
del possesso in buona fede che non siano divenuti irrevocabili ed impedisce quelli ulteriori, attiene
soltanto all’acquisto dei frutti ovvero si riferisce a tutti i possibili effetti del possesso di buona fede
e quindi risulta applicabile anche in tema di danno derivante da occupazione abusiva?”.
Entrambi i motivi attengono alla medesima questione della buona o mala fede nel calcolo delle
restituzioni e pertanto vanno esaminati congiuntamente.
Essi non appaiono meritevoli di accoglimento.
Occorre premettere che la corte di merito pur avendo stabilito quale criterio per la liquidazione del
danno da mancato reddito la buona o la mala fede dei detentori, nella sostanza ciò che è stato
riconosciuto sono stati i frutti, come ammesso dagli stessi ricorrenti che al secondo motivo
(pagina 8 del ricorso), riferiscono della liquidazione del danno in termini di “mancato acquisto dei
frutti dallo stesso prodotti (rectius: terreno occupato abusivamente). In altri termini, il giudice di
merito ha condannato i ricorrenti alla restituzione del solo reddito prodotto dai terreni per annata

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semplice dubbio dovendo contenere gli elementi di serietà, certezza nonché l’indicazione delle

agraria, tenuto conto delle colture ivi impiantate (v. Tabelle pubblicate sul B.U.R.T. n. 26 del
13.4.1994).
Tanto chiarito, deve rilevarsi che la corte di appello nel ritenere i MURRU non più in buona fede
nella detenzione del terreno de quo dal gennaio 1992 ha fatto riferimento alla lettera di

secondo cui – riconosciuta la natura “iuris tantum” della presunzione — la stessa può essere
superata anche attraverso presunzioni e semplici indizi (cfr Cass. 12 settembre 2003 n. 13424;
Cass. 25 settembre 2002 n. 13929), evidenziando che la presunzione iniziale di possesso di
buona fede, pur giustificata all’epoca dell’acquisto del possesso, era venuta meno dal momento
della richiesta di restituzione, con l’indicazione della particella n. 46 quale terreno occupato
illegittimamente, pacificamente non ricompresa nel loro atto di acquisto. Da allora infatti i MURRU
non solo non ignoravano più di ledere l’altrui diritto conservando il possesso dell’intero compendio
immobiliare, ma anzi erano pienamente consapevoli di violare i diritti che spettavano al resistente,
impedendogli qualsiasi forma di godimento della cosa ed opponendosi, anche processualmente,
alla domanda di restituzione. Sussisteva quindi la prova inequivocabile della malafede dei
possessori abusivi, cosicché i frutti naturali non goduti dal BARTALUCCI erano dovuti a decorrere
non già dalla domanda giudiziale, ma dalla lettera raccomandata inviata per il rilascio del fondo.
Si è quindi in presenza di una ricostruzione dei fatti che hanno dato luogo alla presente
controversia congruamente motivata e priva di vizi logici con particolare riferimento al venir meno
della presunzione di buona fede da parte dei MURRU, come tale immeritevole delle censure
sollevate dai ricorrenti. In particolare non è ravvisabile alcuna contraddizione nelle argomentazioni
svolte nella sentenza impugnata per aver qualificato illegittimo il comportamento tenuto dai
ricorrenti dopo la ricezione della richiesta del resistente, per essersi in realtà il giudice di appello
limitato a rilevare il venir meno della presunzione del possesso di buona fede una volta che essi

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intimazione di rilascio inviata dal BARTALUCCI e con ciò ha inteso fare applicazione del principio

erano divenuti consapevoli che il loro acquisto della particella 46 contrastava con il diritto del
proprietario.
Con il terzo motivo viene dedotta la insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la
natura del terreno occupato nella liquidazione del danno da occupazione abusiva, essendo stato

stesso, computato dal c.t.u. il ‘mancato reddito’ sulla sola particella 46 qualifica la stessa
catastalmente ‘terreno seminativo’. Ne consegue che — ad avviso dei ricorrenti — l’estensione
della superficie del terreno occupato e la sua effettiva vocazione seminativa costituiscono
circostanze rilevanti nella determinazione del danno.
Con il quarto motivo viene denunciata la carenza di motivazione circa la mancata
ammissione delle richieste istruttorie, in particolare la prova testimoniale ed il giuramento
decisorio vedenti proprio sulla estensione del terreno posseduto dai MURRU e l’adibizione della
parte occupata a seminativo.
Anche detti mezzi vanno esaminati congiuntamente in quanto entrambi criticano i criteri di
liquidazione in concreto dei frutti: essi sono inammissibili, prima che infondati.
Premesso che gli stessi ricorrenti riconoscono che dal dato catastale emerge la natura di ‘terreno
seminativo’ del bene occupato illegittimamente, e ciò giustificherebbe la valutazione dei frutti in
termini di reddito annuale, in realtà i ricorrenti non censurano la ratio decidendi ovvero il
presupposto fondante il convincimento del giudice di merito, ossia la sostanziale disponibilità
dell’intero terreno di cui alla particella 46 da parte dei MURRU, per cui gli stessi erano comunque
tenuti a corrispondere l’intera rendita, a prescindere dalla utilizzazione in concreto fatta del bene.
Detta affermazione, che costituisce l’ordito motivazionale posto a fondamento del decisione, non
ha formato oggetto di critica e pertanto risulta irrimediabilmente compromessa la complessiva
tenuta logica dell’argomentazione a sostegno dei mezzi in esame.

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determinato sulla scorta del reddito potenzialmente ricavabile dallo sfruttamento del terreno

Con il quinto motivo viene dedotta contraddittoria ed insufficiente motivazione circa
l’accoglimento dell’appello incidentale, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 112
c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., per avere il giudice del gravame riconosciuto il danno per
tutta l’annata 2004 e non fino al luglio 2004, tempo della restituzione del fondo.

Invero il computo del reddito agrario presuppone una nozione di ‘annata agraria’, che è da
intendere come il periodo di tempo entro cui in una determinata zona viene mediamente portata a
termine la raccolta della maggior parte dei frutti, e la cui determinazione trova nella consuetudine
la sua fonte naturale, e non può individuarsi in relazione all’anno solare nè al tempo
dell’effettivo raccolto di ogni tipo di prodotto nelle singole zone agrarie (Cass. 14 novembre 1977
n. 4954).
Correttamente pertanto il giudice distrettuale ha computato i frutti per annualità avuto riguardo ai
raccolti dell’anno in scadenza (2004).
Conclusivamente il ricorso va rigettato, con condanna dei ricorrenti in solido al pagamento
delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di
Cassazione, che liquida in complessivi €. 2.700,00, di cui €. 200,00 per esborsi.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione Civile, il 22 aprile 2013.

Pure detto motivo non può trovare ingresso.

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