Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21384 del 15/09/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 15/09/2017, (ud. 16/06/2017, dep.15/09/2017),  n. 21384

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11375-2016 proposto da:

R.F., R.H., K.E., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA VALADIER N 43, presso lo studio

dell’avvocato GIOVANNI ROMANO, rappresentati e difesi dall’avvocato

GIOVANNI ANTONIO GURNARI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

R.S., R.C., RE.FO.IR., domiciliati in

ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentati

e difesi dall’avvocato ANTONIA G. LASCALA giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

e contro

R.A., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte

di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIA G.

LASCALA giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

RO.CA.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 128/2015 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 16/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/06/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

I ricorrenti, nella qualità di eredi di R.G., figlio premorto di F.C., convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria gli altri eredi, affinchè venisse accertata la nullità del testamento olografo del 22 gennaio 1992 con il quale il loro dante causa era stato escluso dalla successione, chiedendo quindi procedersi alla divisione dei beni relitti.

Si costituivano i convenuti che contestavano la fondatezza della domanda, ed in via riconvenzionale chiedevano accertarsi la natura simulata, in quanto dissimulante una donazione, della vendita di azienda intervenuta tra la de cuius ed il defunto R.G. in data 31/12/1984, con il conseguente accoglimento della domanda di riduzione all’uopo proposta.

Il Tribunale di Reggio Calabria con la sentenza n. 1210/2004 rigettava la domanda principale, ed in accoglimento della riconvenzionale, accertava che la vendita dell’azienda in realtà costituiva una donazione della madre in favore del figlio.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria, a seguito di gravame proposto dagli attori confermava integralmente la sentenza impugnata condannando gli appellanti anche al rimborso delle spese del grado di giudizio.

A tal fine osservava che la richiesta di nullità avanzata dagli attori in merito al testamento non si fondava su pretesi vizi di forma dell’atto, nè sull’incapacità della testatrice ovvero su un errore commesso dalla medesima o sulla sua coartazione della volontà, bensì unicamente sul fatto che l’atto fosse stato redatto sotto dettatura.

In tal senso deponevano le complessive richieste che miravano a dimostrare che il contenuto del testamento non poteva rispondere ai limiti culturali, anagrafici e di salute della de cuius, che non sarebbe stata mai in grado di redigere un atto avente la complessità di quello impugnato.

Anche le richieste istruttorie articolate dalle parti non erano conducenti rispetto alla patologia negoziale rappresentata dalla violenza in danno della testatrice, dovendo quindi disattendersi il motivo di appello formulato sul punto.

Quanto all’accoglimento della domanda riconvenzionale di simulazione della vendita dell’azienda, la Corte distrettuale rilevava che correttamente era stata ammessa la prova testimoniale da parte del giudice di prime cure, in quanto trattavasi di prova finalizzata a supportare la domanda di simulazione che era a sua volta funzionale all’azione di riduzione proposta dai convenuti in qualità di legittimari, e quindi di terzi rispetto all’atto impugnato, non potendo spiegare alcuna efficacia ostativa la circostanza che l’atto de quo fosse stato redatto nelle forme dell’atto pubblico, vertendo la prova sull’accertamento delle effettive volontà delle parti, e non già sul contenuto estrinseco dell’atto, per il quale opera l’efficacia di prova legale tipica dell’atto pubblico.

La sentenza impugnata osservava altresì che i limiti alla prova della simulazione della quietanza non operano laddove il pagamento sia inteso come fatto storico, rilevante ai fini dell’accertamento della simulazione della vendita.

Passando poi alla ricostruzione della natura simulata della vendita, in quanto dissimulante una donazione, i giudici di appello valorizzavano in primo luogo il tenore della scheda testamentaria, che trovava conforto nel tenore delle deposizioni testimoniali, nella limitata capacità reddituale del’acquirente e nella natura saltuaria dell’attività lavorativa svolta dalla odierna ricorrente, che non si palesava come idonea a consentire di far fronte all’onere economico del pagamento del prezzo.

Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso K.E., R.H. e R.F. sulla base di quattro motivi.

R.A. e Re.Fo.Ir., R.C. e R.S., questi ultimi tre quali eredi di Ro.An., hanno resistito con distinti controricorsi, avnti però medesimo contenuto.

Ro.Ca. non ha svolto difese in questa fase.

Il primo motivo di ricorso denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 624 c.c.

Si lamenta parte ricorrente che la Corte distrettuale non abbia esaminato la richiesta di annullamento del testamento per violenza in danno della testatrice, ritenendo che la domanda non fosse stata avanzata in questi sensi.

La decisione gravata avrebbe però trascurato la circostanza che nelle premesse della citazione erano stati evidenziati una serie di elementi d fatto che deponevano per l’esistenza di una coartazione della volontà della testatrice.

Tali elementi, ove poi adeguatamente valutati, non avrebbero che potuto portare all’annullamento del testamento in applicazione della previsione di cui all’art. 624 c.c.

Il motivo è manifestamente infondato.

I giudici di merito, con valutazione in fatto non sindacabile in questa sede, vertendo sulla corretta interpretazione della domanda proposta, hanno ritenuto che la domanda avanzata dagli attori fosse volta unicamente a far valere l’invalidità del testamento in quanto redatto sotto dettatura, escludendo quindi che nella medesima fosse inclusa anche una domanda di invalidità per vizi di forma ovvero per vizi della volontà.

Per l’effetto hanno quindi ritenuto che non potesse trovare accoglimento la richiesta, avanzata solo in corso di causa, e quindi tardivamente, di annullare il testamento ai sensi dell’art. 624 c.c.

A tal fine deve rilevarsi che la decisione impugnata, lungi dall’avere omesso la disamina di fatti decisivi (e ciò anche a voler superare i legittimi dubbi in ordine alla possibilità di estendere la novellata previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ai fatti processuali, quali gli elementi costituitivi delle domande delle parti) ha fornito una adeguata valutazione del contenuto dell’atto di citazione, pervenendo, in linea con quanto già ampiamente argomentato dal Tribunale, alla conclusione secondo cui non risultava essere stata proposta anche una domanda di annullamento fondata sull’incapacità della testatrice ovvero sulla presenza di vizi della volontà.

Il secondo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1199,2726 e 2732 c.c..

Si evidenzia che i giudici di merito hanno erroneamente dato ingresso ad una prova testimoniale al fine di provare la natura simulata della vendita dell’azienda in favore del dante causa dei ricorrenti.

Inoltre tale prova sarebbe stata ammessa anche al fine di contrastare la valenza probatoria privilegiata della quietanza, in contraddizione con quanto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 19888/2014.

Il motivo è evidentemente infondato, in quanto i ricorrenti non mostrano di avere esattamente inteso il contenuto della decisione, la quale ha giustificato l’ammissione della prova testimoniale in ragione della specificità della domanda riconvenzionale, rappresentata da una domanda di simulazione funzionale però al contestuale esperimento dell’azione di riduzione.

In tal senso, vale richiamare il costante e tradizionale orientamento di questa Corte per il quale l’erede legittimario che chieda la dichiarazione di simulazione di una vendita fatta dal “de cuius”, diretta a dissimulare, in realtà, una donazione, agisce per la tutela di un proprio diritto ed è terzo rispetto alle parti contraenti, sicchè la prova testimoniale e per presunzioni è ammissibile senza limiti quando, sulla premessa che l’atto simulato comporti una diminuzione della sua quota di riserva, proponga contestualmente all’azione di simulazione una domanda di riduzione della donazione dissimulata, diretta a far dichiarare che il bene fa parte dell’asse ereditario e che la quota a lui spettante va calcolata tenendo conto del bene stesso (cfr. ex multis Cass. n. 19912/2014; Cass. n. 20960/2016).

Pertanto, rivestendo i convenuti la qualità di terzi in relazione all’impugnativa dell’atto de quo, la detta qualità giustifica anche la possibilità di poter offrire la prova della natura simulata della quietanza anche a mezzo testi, senza che possano loro opporsi le limitazioni probatorie invece operanti nei rapporti tra debitore e creditore (per l’ammissibilità della prova per testi della simulazione della quietanza da parte dei terzi, cfr. Cass. n. 10743/2008; Cass. n. 125/2000).

D’altronde, e proprio con specifico riferimento alla posizione del legittimario, si è affermato che la posizione di terzo che lo stesso riveste rispetto alla vendita dissimulante una donazione, fa sì che non possa attribuirsi valore vincolante alla dichiarazione relativa al versamento del prezzo, pur contenuta nel rogito notarile, potendo, invece, trarsi elementi di valutazione circa il carattere fittizio del contratto dalla circostanza che il compratore, su cui grava l’onere di provare il pagamento del prezzo, non abbia fornito la relativa dimostrazione (cfr. Cass. n. 15346/2010).

Il terzo motivo di ricorso denunzia l’omessa valutazione circa un fatto decisivo per il giudizio in ordine alla capacità patrimoniale e reddituale di R.G.S. e degli altri congiunti.

Si sostiene che la valutazione circa l’impossibilità per il dante causa dei ricorrenti di poter fare fronte all’onere economico del pagamento del prezzo all’epoca della cessione dell’azienda sarebbe erronea, non essendosi invece tenuto conto di altri elementi di prova che deponevano in senso contrario.

Infatti, la Corte di merito non ha considerato che il prezzo era stato in parte compensato con il TFR dovuto all’acquirente, nonchè del contributo economico apportato dalla moglie del R..

A ciò deve aggiungersi che erroneo appariva l’apprezzamento della prova testimoniale, fondandosi la decisione gravata su un quadro indiziario non connotato da certezza.

Il motivo è evidentemente destituito di fondamento.

La censura, lungi dal denunziare un vizio sussumibile nella nuova previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile alla fattispecie ratione temporis, si sostanzia in un’inammissibile censura di merito, mirante ad ottenere surrettiziamente un nuovo apprezzamento dei fatti di causa ad opera di questa Corte, in contrasto con il principio secondo cui ciò compete in maniera esclusiva al giudice del merito.

La sentenza gravata ha, con apprezzamento in fatto non sindacabile in questa sede, ritenuto che le capacità economiche del dante cause delle ricorrenti, anche a voler tenere conto del limitato apporto economico suscettibile di essere offerto dal coniuge, non consentivano di ritenere verosimile l’effettivo pagamento del corrispettivo della vendita.

Peraltro, le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8054/2014 hanno altresì sottolineato che “L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”, affermazione questa che depone chiaramente per l’infondatezza della censura proposta.

Il quarto motivo, infine, denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. in ragione dell’intervenuta condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite.

Il motivo è evidentemente infondato.

All’esito del giudizio di appello il gravame avanzato dai ricorrenti è stato integralmente rigettato, sicchè la decisione di porre a carico degli appellanti le spese di lite costituisce una piana e rigorosa applicazione della regola della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, procedendosi ad una liquidazione unica, atteso che i contro ricorrenti, pur avendo redatto distinti atti difensivi, sono assistiti dal medesimo difensore, avendo peraltro identica posizione processuale (cfr. da ultimo Cass. n. 17215/2015). Nulla per le spese per l’intimato che non ha svolto attività difensiva.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

 

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 8.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2017

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