Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21383 del 15/09/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 15/09/2017, (ud. 16/06/2017, dep.15/09/2017),  n. 21383

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17099-2015 proposto da:

DIALOGO SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO POMA 4,

presso lo studio dell’avvocato MARCO BALIVA, rappresentata e difesa

dall’avvocato PIETRO GORGOGLIONE in virtù di procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SALARIA, 259,

presso lo studio dell’avvocato MARCO PASSALACQUA, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato ANGELO BONETTA in virtù di

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza n. 1720/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 09/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/06/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Dialogo S.r.l. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano l’arch. C.A., deducendo che le aveva conferito un incarico professionale che prevedeva, dapprima, la realizzazione di un progetto preliminare, entro 30 giorni dalla conclusione del contratto, e successivamente, nei 40 giorni dalla accettazione da parte della committente del progetto preliminare, di un progetto comunale, al fine di ottenere le autorizzazioni paesistiche, e quindi, nei 60 giorni dal rilascio dell’autorizzazione comunale, di un progetto esecutivo, il tutto in vista della realizzazione di un edificio in (OMISSIS).

Deduceva che la convenuta aveva consegnato un elaborato parziale, avendo versato alla professionista un acconto di Euro 30.720,00, e che successivamente aveva proposto un ridimensionamento dell’incarico, in quanto era necessario sospendere, per la mancata autorizzazione da parte della proprietà dell’avvio delle fasi successive, le opere strutturali ed impiantistiche.

Quindi la società evidenziava che, dopo uno scambio di corrispondenza, aveva deciso di risolvere il rapporto, in ragione della carente e lacunosa progettazione, chiedendo la restituzione dell’acconto versato ed il risarcimento del danno subito.

Si costituiva la C. la quale contestava la fondatezza della pretesa attorea e lamentando che era stata la committente a rendersi inadempiente, chiedeva pronunziarsi la risoluzione del contratto per inadempimento dell’attrice, con la condanna al risarcimento dei danni subiti.

Inoltre chiedeva di essere autorizzata alla chiamata in causa della propria compagnia assicuratrice, al fine di essere tenuta indenne per l’ipotesi di accoglimento della domanda attorea.

Il tribunale, espletata CTU, con sentenza n. 10864 del 9 settembre 2014, riconosceva il diritto della convenuta al compenso per l’attività professionale svolta, determinato in misura pari ad Euro 73.569,76, oltre CP ed IVA, dal quale andava detratto l’acconto già ricevuto, rigettando per il resto la altre domande sia di parte attrice che di parte convenuta.

Nel merito riteneva di condividere le conclusioni del CTU il quale aveva riscontrato che la progettazione eseguita dalla convenuta prima del recesso della committente, era conforme a quanto previsto in contratto, tenuto conto che non si trattava ancora di progettazione esecutiva e che le riscontrate imperfezioni erano sicuramente emendabili nella fase esecutiva, occorrendo appunto tenere conto che si trattava ancora di una progettazione di massima.

Per l’effetto non poteva trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno avanzata dalla società attrice, nemmeno potendo valorizzarsi a tal fine il contenuto ritardo nella consegna degli elaborati e l’adozione di un formato dei files diverso da quello previsto in contratto.

Quanto al compenso richiesto dalla professionista per l’attività sino a quel momento svolta, il CTU aveva determinato il valore delle opere sulla scorta del quale calcolare il dovuto, procedendo analiticamente all’individuazione dell’onorario maturato.

La Corte d’Appello di Milano con ordinanza del 27 aprile 2015 comunicata in pari data, dichiarava inammissibile l’appello della Dialogo S.r.l. in quanto privo di ragionevole probabilità di accoglimento ex art. 348 ter c.p.c., reputando corretta la condivisione da parte del giudice di prime cure delle conclusioni del CTU, frutto di un’adeguata disamina degli atti di causa, dovendosi pertanto escludere la sussistenza di qualsivoglia inadempimento da parte dell’appellata, ritenendo altresì corretta la determinazione dei compensi sulla base del computo del valore delle opere progettande, in base alle superfici da edificare.

Per la cassazione della sentenza del Tribunale e dell’ordinanza della Corte d’Appello ha proposto ricorso la Dialogo S.r.l. sulla base di due motivi.

L’intimata ha resistito con controricorso.

Il primo motivo di ricorso, specificamente rivolto nei confronti dell’ordinanza di inammissibilità della Corte d’Appello, denunzia la violazione di norme di diritto nella parte in cui i giudici di appello hanno dichiarato l’inammissibilità del gravame.

Si sostiene che la Corte distrettuale, a fronte dei motivi di appello, ha ritenuto che le censure mosse fossero generiche sottraendosi quindi al dovere di fornire una risposta di merito. Il motivo è inammissibile.

Ed, invero, l’ordinanza gravata, compiendo una prognosi di merito, come appunto imposto dalla previsione di cui all’art. 348 bis c.p.c., ha ritenuto che i motivi di gravame, ivi incluso quello concernente l’erronea determinazione del costo delle opere sulla scorta del quale calcolare poi i compensi dovuti alla professionista, non avessero ragionevole probabilità di accoglimento, non ravvisandosene la loro fondatezza e comunque l’idoneità ad inficiare la correttezza della decisione del Tribunale.

In tal caso l’ordinanza risulta essere stata pronunciata in conformità di quanto prescritto dal legislatore, in punto di applicazione del cd. filtro in appello, di guisa che la medesima non appare suscettibile di autonoma impugnazione, così come autorevolmente stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 1914/2016, che ha appunto limitato la ricorribilità per cassazione dell’ordinanza de qua, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale (quali, per mero esempio, l’inosservanza delle specifiche previsioni di cui all’art. 348 bis c.p.c., comma 2, e art. 348 ter c.p.c., comma 1, primo periodo e comma 2, primo periodo,), purchè compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso, essendo esclusa la sindacabilità in ordine alla valutazione circa la probabilità di accoglimento del gravame.

Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione da parte del Tribunale dell’art. 112 c.p.c., in quanto, sebbene le parti avessero previsto nel contratto intercorso tra le stesse che il corrispettivo doveva essere determinato su di un importo stimato per le opere da progettare di Euro 9.000.000,00, il compenso è stato determinato in concreto sulla base di una diversa e più elevata stima (Euro 11.857.000,00), errore questo che aveva permesso di riconoscere un compenso decisamente di importo più elevato rispetto a quello richiesto in via riconvenzionale.

Il motivo non può trovare accoglimento attesa la sua formulazione in dispregio della previsione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, avendo la società omesso di riportare in ricorso il contenuto del contratto d’opera professionale che a detta della ricorrente, imporrebbe di determinare i compensi sulla base della stima delle opere nell’importo fisso di Euro 9.000.000,00, il che impedisce di poter apprezzare la effettiva rilevanza dell’errore asseritamente commesso.

In realtà, come si ricava dalla stessa sentenza impugnata, nel riferire delle ragioni in fatto, si fa menzione di tale importo in quanto preceduto dall’avverbio “circa” che depone per la natura meramente indicativa del valore in esame, e non quindi vincolante anche per il successivo calcolo del compenso.

Al fine di supportare la diversa interpretazione posta a fondamento del motivo, sarebbe stato quindi necessario riprodurre in ricorso, come imposto dalla norma citata, il contenuto del contratto de quo, con la conseguenza che tale omissione non permette di poter riscontrare la dedotta violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c.

In tal senso infatti non appare possibile reputare che il giudice di primo grado abbia deciso sulla domanda attorea eccedendo rispetto a quanto richiesto, essendo invece evidente che la censura avrebbe dovuto essere formulata sotto il profilo della sussistenza di un vizio motivazionale della decisione, nella parte in cui ha ritenuto, sulla base delle prescrizioni contrattuali, che l’indicazione del valore dell’opera da progettare, e sulla cui scorta determinare il compenso dovuto, fosse meramente indicativa, come appunto comprovato dalla associazione alla somma indicata con l’avverbio “circa”.

Trattasi quindi di una valutazione in punto di portata e contenuto degli accordi intercorsi tra le parti.

La stessa avrebbe pertanto potuto essere censurata esclusivamente sotto il profilo dell’erronea interpretazione del contratto, denunziando tuttavia una puntale e specifica violazione delle regole di ermeneutica contrattuale a mente dell’art. 1362 c.c. e ss., ovvero sotto il profilo del difetto motivazionale, ma nei ristretti limiti oggi dettati dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Quanto poi alla eventuale doglianza concernente la corretta interpretazione del contratto, non sarebbe stata sufficiente la generica deduzione della violazione delle norme del codice in tema di interpretazione del contratto, ma si sarebbe imposta una puntuale indicazione delle ragioni per le quali la diversa interpretazione offerta dalla Corte di merito sia del tutto insostenibile alla luce delle norme in esame (non apparendo a tal fine sufficiente la mera prospettazione di una diversa interpretazione/sol perchè ritenuta più appagante dalla parte). In ogni caso deve escludersi che le critiche alla sentenza possano trovare giustificazione nella dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., come appunto avvenuto ad opera di parte ricorrente.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore della controricorrente che liquida in complessivi C 4.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2017

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