Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21367 del 24/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 24/10/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 24/10/2016), n.21367

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3116/2014 proposto da:

L.M., C.F. LLAMRA66E06L120O, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato PIER LUIGI PANICI,

che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ENEL DISTRIBUZIONE S.P.A., c.f. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

GIROLAMO DA CARPI 6, presso lo studio dell’avvocato FURIO TARTAGLIA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato PATRIZIA

SACCHETTI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6286/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 25/07/2013 R.G.N. 6419/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2016 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito l’Avvocato GUGLIELMI CARLO per delega Avvocato PANICI

PIERLUIGI;

udito l’Avvocato MATTEI STEFANO per delega Avvocato TARTAGLIA FURIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 6286/2013, depositata il 25 luglio 2013, la Corte di appello di Roma rigettava il gravame di L.M. nei confronti della sentenza del Tribunale di Latina che ne aveva respinto la domanda volta ad accertare la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli da ENEL Distribuzione S.p.A., con lettera del (OMISSIS), in relazione alla previsione di cui al punto n. 6 del paragrafo 5^ dell’Accordo nazionale del 27 luglio 1982, concernente i “criteri di correlazione tra le mancanze dei lavoratori ed i provvedimenti disciplinari in ambito ENEL”, richiamato in calce all’art. 25 CCNL Settore Elettrico, e sulla base delle circostanze già oggetto di contestazione disciplinare, e cioè essere stato, il dipendente, in data (OMISSIS), arrestato per produzione e traffico di sostanze stupefacenti (fatto del quale era stata data notizia dagli organi di stampa con la precisazione della sua qualità di “impiegato dell’ENEL”) e quindi, in data (OMISSIS), condannato a pena detentiva e pecuniaria per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

La Corte di appello osservava, a sostegno della propria decisione, che nella specie trovava applicazione non l’art. 25 CCNL Settore Elettrico ma l’Accordo sindacale del 27 luglio 1982, il quale, al punto richiamato nella lettera di licenziamento, sanziona il compimento da parte del lavoratore di “atti tali da far venire meno radicalmente la fiducia dell’Ente” nei confronti dello stesso; che non risultava contestata l’idoneità o meno allo svolgimento delle mansioni di appartenenza quanto, piuttosto, il grave discredito dell’azienda (connesso alla pubblicazione dei fatti sugli organi di stampa) e la sfiducia nell’operato di un dipendente le cui prestazioni sono comunque necessarie allo svolgimento dell’attività aziendale; che, alla stregua di tali elementi e dell’entità del reato commesso, il licenziamento non era da considerarsi nè sproporzionato nè incongruo ma inevitabile conseguenza di una condotta, che, pur realizzata all’esterno dell’ambiente di lavoro, era tale da ledere irrimediabilmente la fiducia riposta nel dipendente e da impedire la prosecuzione del rapporto.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il lavoratore con due motivi; ENEL Distribuzione S.p.A. ha resistito con controricorso, assistito da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2104, 2105, 2106 e 2119 c.c., alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e all’art. 27 Cost., comma 2, nonchè violazione o falsa applicazione di norme dei contratti e accordi collettivi di lavoro, per avere la sentenza impugnata erroneamente ritenuto sussistente il potere disciplinare e sanzionatorio del datore di lavoro pur in presenza di un fatto totalmente estraneo alla prestazione lavorativa e agli obblighi che alla stessa sono collegati; per avere ritenuto la gravità della condotta contestata, anche in considerazione del reato ascritto al dipendente, e proporzionata la sanzione espulsiva, nonostante che le dimensioni della società datrice di lavoro e le caratteristiche del rapporto (in particolare, la natura delle mansioni svolte) dovessero condurre a diversa soluzione in ordine ad entrambe le questioni; per avere ritenuto la tempestività della contestazione disciplinare, quando il fatto dell’arresto e la relativa pubblicità a mezzo di notizie di stampa, erano ad essa anteriori di circa sei mesi; per avere infine ritenuto l’esistenza della giusta causa e la legittimità del recesso, senza che vi fosse, al tempo del licenziamento, una condanna penale in via definitiva a carico del lavoratore, e ciò in contrasto con la presunzione di non colpevolezza e con la disposizione di cui all’art. 25 CCNL Settore Elettrico.

Con il secondo motivo di ricorso il lavoratore denuncia omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, che hanno formato oggetto di discussione fra le parti, indicandoli negli stessi temi già oggetto di censura nell’ambito del primo motivo e nel difetto di alcuna argomentazione circa la inidoneità di una sanzione conservativa e circa l’inesistenza di una giusta causa, ove non vi sia giudicato penale, in caso di licenziamento coincidente con il reato contestato.

Il ricorso deve essere respinto.

Riguardo al primo motivo si osserva che: (a) esso presenta un preliminare profilo di improcedibilità, nella parte in cui deduce l’inesistenza di una giusta causa di recesso fino al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, posto che, nell’inosservanza dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non risulta specificata nel ricorso l’avvenuta produzione nè del CCNL Settore Elettrico nè dell’Accordo sindacale del 27 luglio 1982 (entrambi richiamati nella esposizione del motivo) e non essendo precisata la sede in cui i testi di fonte collettiva in questione siano rinvenibili (cfr. ordinanza SS.UU. n. 25038/2013); (b) il motivo è, inoltre, inammissibile, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, laddove denuncia il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 2105 c.c., risolvendosi, per questa parte, in una mera enunciazione di violazione di legge, tale da non consentire, nemmeno attraverso una lettura globale dell’atto, di individuare il collegamento della norma di diritto, che si assume oggetto di violazione, con la sentenza impugnata e con le argomentazioni che la sostengono, nè quindi di cogliere, in definitiva, le ragioni, per le quali di essa si chieda l’annullamento (cfr. ex aliis Cass. n. 187/2014); e (c) del pari inammissibile, ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, laddove censura la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte ha ritenuto la tempestività della contestazione disciplinare, non avendo formato oggetto di critica specifica la seconda ragione decisoria espressa sul corrispondente motivo di gravame dal giudice di secondo grado (cfr. sentenza, p. 7, sub 9) e cioè, oltre alla tardività della deduzione, il riferimento all’intervenuta applicazione della sospensione cautelare e all’attesa, da parte della società datrice di lavoro, dell’esito del giudizio penale, nel quadro del richiamato principio di diritto di cui a Cass. n. 23739/2008.

Nel resto, il motivo è infondato.

Come, infatti, ripetutamente precisato da questa Corte, con orientamento consolidato e risalente (cfr. in tal senso già Cass. n. 783/1978), rientra nella nozione di giusta causa di recesso del datore di lavoro ogni fatto o comportamento del lavoratore, anche estraneo alla sfera del contratto e, in particolare, anche diverso dall’inadempimento contrattuale, che sia tale da far venir meno quella fiducia che costituisce il presupposto essenziale della collaborazione e, quindi, della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato.

In particolare, sono da ritenersi comprese nel concetto di giusta causa anche condotte che, pur se concernenti la vita privata del lavoratore, tuttavia possano in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che connota il rapporto di subordinazione, nel senso che abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo nel datore di lavoro le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa.

E’ altresì consolidato l’orientamento, secondo il quale l’accertamento in concreto di una giusta causa, che si fondi su di una condotta del lavoratore estranea al rapporto contrattuale, presuppone una valutazione e un’analisi dei singoli casi, nella pluralità e diversità degli indici soggettivi e oggettivi che li definiscono, e, pertanto, della natura e gravità dell’elemento psicologico, del ruolo del dipendente e del grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni svolte, della qualità del datore di lavoro e della esigenza di tutela della sua immagine esterna.

In definitiva, e come ancora recentemente ribadito, la condotta illecita extralavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poichè il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dell’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario (cfr. Cass. n. 776/15).

Nondimeno, è pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perchè idonei, per le concrete modalità con cui si manifestano, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali (cfr. Cass. n. 15654/12).

Ne deriva, sul piano del metodo, che mentre spetta a questa Corte l’individuazione dell’astratta riconducibilità di una data condotta extralavorativa al concetto di giusta causa di licenziamento enunciato nelle norme a contenuto assiologico variabile (o c.d. elastiche) dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 1, compete al giudice del merito apprezzare se e in che misura tale condotta abbia leso il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro.

Nel caso di specie, indubbia essendo l’astratta potenzialità di tale lesione riguardo ad una condotta di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, per il disvalore etico-sociale che vi è connesso, tale da riflettersi nella predisposizione di una severa reazione punitiva da parte dell’ordinamento, è da rilevare che la sentenza impugnata, con motivazione esente da vizi logici o giuridici, ha in concreto accertato come la condotta realizzata fosse idonea a determinare la cessazione del vincolo di fiducia, che deve sussistere fra le parti del rapporto, e ciò in considerazione della diversa natura delle sostanze stupefacenti sequestrate, del loro valore economico non modesto, della (almeno parziale) destinazione delle medesime sostanze alla cessione a terzi per fini di lucro, dello stato di tossicodipendenza del dipendente (già emerso in occasione di due episodi analoghi nel (OMISSIS)), oltre che in considerazione dell’ampia diffusione che la notizia dell’arresto aveva avuto attraverso gli organi di stampa, ove il L. era stato presentato come “impiegato dell’ENEL”.

Si tratta di condotta che il giudice del merito ha ritenuto, con motivazione adeguata e, come tale, incensurabile in sede di legittimità, idonea a giustificare l’applicazione della sanzione espulsiva, quale “inevitabile conseguenza della sfiducia venutasi a creare da parte del datore di lavoro nei riguardi del suo dipendente” per il convergere nel fatto “del discredito arrecato all’azienda”, della “rilevante entità del reato commesso” e della “inaffidabilità del dipendente” (cfr. sentenza, pp. 7-8) la cui prestazione “è comunque necessaria allo svolgimento dell’attività aziendale” (p. 6).

Il secondo motivo è inammissibile.

Esso, infatti, non si conforma allo schema normativo del nuovo vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione conseguente alla modifica introdotta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, pur in presenza di sentenza di appello depositata in data 25/7/2013 e, pertanto, in data posteriore all’entrata in vigore della modifica (11 settembre 2012).

Come precisato da questa Corte a Sezioni Unite con le sentenze 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054, l’art. 360 c.p.c., n. 5, così come riformulato a seguito della novella legislativa, configura un vizio specifico denunciabile per cassazione, costituito dall’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (e cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2016

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