Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21366 del 24/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 24/10/2016, (ud. 08/06/2016, dep. 24/10/2016), n.21366

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18386/2012 proposto da:

D.L.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA SICILIA 235, presso lo studio dell’avvocato GIULIO DI GIOIA, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MILENA MONICA DE

NICOLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.L., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

LAZIO 20/C, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO LADDAGA,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE BELLO, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4042/2011 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 26/07/2011, R.G. N. 6596/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/06/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato GIUSEPPE BELLO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza numero 4042 in data 25 maggio – 26 luglio 2011 la Corte di Appello di Napoli, in riforma dell’impugnata sentenza, condannava il resistente D.L.G., costituitosi tardivamente in appello, ai pagamento, in favore dell’attore – appellante F.L., della somma di 76.208,84 Euro, a titolo di differenze retributive, di cui Euro 16.117,60 per t.f.r., oltre accessori di legge nonchè al rimborso delle spese di lite come Ai liquidate, ponendo altresì a carico del D.L. quelle di c.t.u..

La Corte partenopea, disattesa la preliminare eccezione di novità proposta dall’appellato, riteneva che nel caso di specie il giudice di primo grado avesse utilizzato un criterio tanto rigoroso per l’accertamento della fattispecie di cui all’art. 2094 c.c., da risultare irrealistico. Infatti, l’elemento discriminante era stato individuato nel rapporto che avrebbe intrattenuto con i clienti dell’officina in cui lavorava ed in particolare nella riscossione del prezzo delle riparazioni effettuate, considerato indice inequivoco della autonoma utilizzazione dei macchinari di proprietà del D.L. per la realizzazione di un’attività propria del ricorrente. La ricostruzione anche sotto il profilo logico non poteva essere condivisa, in quanto tra i compiti che parte datoriale può affidare ai propri sottoposti sicuramente rientra anche quello della riscossione dai clienti del prezzo dei servizi scambiati. In conclusione, relativamente all’aspetto ritenuto prevalente dal primo giudicante, secondo la corte distrettuale, soltanto laddove fosse emerso che il F. individuava in assoluta autonomia il controvalore della riparazione eseguita, riscuotendolo dal cliente e facendolo proprio, per poi attribuire al D.L. unicamente una quota predeterminata a titolo di corrispettivo per l’utilizzazione dei macchinari, sarebbe stato possibile ritenere che il rapporto intercorso avesse natura autonoma. Invece, i testi escussi si erano limitati a riferire di aver pagato il correspettivo delle riparazioni al F. oppure al D.L., salvo nei casi in cui il cliente avesse particolari legami di amicizia con il primo. Tuttavia, anche in questi casi il teste aveva indicato con certezza il solo D.L. come titolare dell’officina. Nessun teste, per contro, aveva potuto riferire circa i rapporti economici intercorsi tra i due litiganti, che implicassero il pagamento di somme per l’utilizzo dell’officina, avendo anzi tutti dichiarato di aver appreso dal F. della corresponsione di una retribuzione fissa mensile. D’altro canto, i testi sentiti avevano descritto il rapporto di lavoro come ininterrotto e con le medesime caratteristiche dal (OMISSIS).

Se, dunque, ad avviso della Corte d’Appello, lo stesso datore di lavoro aveva qualificato il rapporto come subordinato fino all’anno (OMISSIS), non vi era motivo di ritenere che la natura fosse mutata per l’epoca successiva. Nel dettaglio, peraltro, tutti i testi avevano confermato la presenza quotidiana del F. nell’officina del D.L., l’osservanza da parte dell’attore di un orario di lavoro coincidente con quello di apertura al pubblico dell’esercizio, sicchè doveva ritenersi sussistente il requisito dello stabile inserimento. I testi D.M. e G. avevano, altresì, confermato l’esercizio dei potere direttivo. Pertanto, sussisteva il diritto del ricorrente a percepire la retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost., per il periodo (OMISSIS), non essendo stata d’altro canto comprovata in alcun modo l’adesione del D.L. alla contrattazione collettiva di settore.

Pertanto, esclusa altresì l’eccepita prescrizione quinquennale ed operate talune detrazioni con riferimento a quanto indicato dalla c.t.u. contabile, espletata in secondo grado, spettavano per differenze retributive al F. 60.091,04 Euro, parametrate in relazione al quarto livello del C.C.N.L., nonchè la somma di Euro 16.117,80 a titolo di t.f.r. sulle differenze inerenti agli anni dal (OMISSIS).

Avverso l’anzidetta pronuncia D.L.G. ha proposto ricorso per cassazione, con atto notificato il 23 luglio 2012 affidato a tre motivi variamente articolati:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2222 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (si lamenta in effetti inversione dell’onere probatorio, così violando l’articolo 2697, laddove la Corte d’Appello aveva opinato che il rapporto intercorso tra le parti poteva considerarsi autonomo soltanto laddove fosse stato dimostrato che il danaro riscosso come prezzo dovuto per le riparazioni eseguite era fatto proprio dal F.; essendo stati integralmente contestati, da parte convenuta i fatti costitutivi dei diritti vantati dall’attore circa la natura subordinata del rapporto per l’intero periodo dedotto in giudizio, competeva al F. provare rigorosamente la subordinazione asserita);

2) omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 vecchio testo (contrariamente a quanto opinato dalla Corte di merito, nessuno dei testi escussi, nel riferirsi a quanto loro detto dal diretto interessato F., aveva parlato di retribuzione fissa mensile, nè aveva indicato il rapporto lavorativo come ininterrotto e che lo stesso avesse conservato le medesime caratteristiche dal (OMISSIS); parimenti, non risultava dimostrato quanto opinato dalla Corte territoriale, circa la presenza quotidiana del F. in officina e la sua osservanza di un orario di lavoro, coincidente con quello di apertura dell’officina. A tale ultimo riguardo il teste C. si era riferito a quanto dichiaratogli dallo stesso F.; parimenti, erroneo era l’apprezzamento sull’esercizio del potere direttivo, con riferimento alle deposizioni dei testi D.M. e G.; del tutto illogica e contraddittoria, a dire del ricorrente, era la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui riteneva che se lo stesso datore di lavoro aveva qualificato il rapporto come subordinato fino al (OMISSIS) non vi sarebbe stato motivo di ritenere che la sua natura fosse mutata in epoca successiva, trattandosi di sillogismo che non poteva reggere. Infatti, parte convenuta aveva contestato la ricorrenza della subordinazione, deducendo invece la sussistenza di tre distinti rapporti di lavoro ed in epoca successiva al (OMISSIS) di un rapporto di collaborazione autonoma, sicchè era intrinsecamente illogico e contraddittorio, oltre che pregiudiziale ed apodittico, concludere che “non vi è motivo di ritenere che la natura sia mutata in epoca successiva”. Infatti, se la Corte di appello avesse correttamente e logicamente apprezzato le risultanze testimoniali, non sarebbe potuta giungere alla conclusione di un unico rapporto subordinato senza soluzione di continuità da (OMISSIS), tenuto conto inoltre degli indirizzi giurisprudenziali citati in relazione all’art. 2094 c.c.);

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (infatti, la sentenza impugnata -pur rilevando che i testi C. e G., indicati dal F., avevano dichiarato di aver appreso da costui circa la retribuzione mensile pagata, e parimenti il teste D.M. in ordine all’esercizio del potere direttivo – aveva fondato e motivato la sua decisione su tali deposizioni in aperta violazione di legge. La deposizione “de relato ex parte actoris”, se riguardata di per sè sola, non ha alcun valore probatorio, nemmeno indiziario; può tuttavia assurgere a valido elemento di prova quando sia suffragata da circostanze oggettive e soggettive ad essa intrinseche o da risultanze probatorie acquisite al processo che concorrano a confortarne la credibilità – citando, tra l’altro, Cass. n. 11844 del 19/05/2006. Nella specie le riportate emergenze istruttorie non offrivano alcun riscontro oggettivo, che potesse in qualche modo suffragarne credibilità).

Ha resistito il F. mediante controricorso.

Non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c., in vista della pubblica udienza fissata all’otto giugno 2016, alla quale peraltro, a seguito di rituali avvisi, è comparsa la sola parte controricorrente.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato in base alle seguenti considerazioni.

Premesso che in questo giudizio di legittimità ciò che viene in rilievo è soltanto quanto accertato, valutato e deciso nel merito in sede di gravame, nei limiti di quanto devoluto allo stesso sulla scorta di appositi e specifici motivi, come già visto in narrativa, circa il percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, i giudici dell’appello hanno sufficientemente motivato il proprio convincimento in ordine ai fatti di causa mediante argomentato apprezzamento, perciò incensurabile in sede di legittimità.

Ed invero, quanto al primo motivo di censura, come agevolmente si evince dalla surriferita motivazione della pronuncia di appello, non risulta alcun errore di diritto, circa l’applicazione degli artt. 2094, 2222 e 2697 c.c..

Dalla complessiva, e non frammentaria, lettura dell’impugnata sentenza, in primo luogo, non si rileva alcuna inversione dell’onere probatorio rispetto alle regole sul punto fissate dall’art. 2697 c.c..

La Corte napoletana ha, infatti, ritenuto erronea la pronuncia appellata per aver delimitato la cognizione della domanda unicamente al periodo successivo al (OMISSIS), mentre l’attore aveva azionato le sue pretese creditorie, assumendo che il rapporto di lavoro, subordinato, era stato unico ed ininterrotto da (OMISSIS), senza quindi considerare che i licenziamenti intimati dal D.L. nel (OMISSIS), nel (OMISSIS) e a (OMISSIS) dell’anno (OMISSIS) dissimulavano un rapporto di lavoro in effetti proseguito ininterrottamente. Infatti, al convenuto aveva eccepito un frazionamento in tre diversi periodi ((OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)), con conseguente prescrizione ex art. 2948 c.c. (ma in assenza della stabilità reale, eccezione quindi respinta).

Orbene, il competente giudice di merito ha ritenuto che i testi escussi avevano riferito di un rapporto di lavoro ininterrotto, che aveva conservato le stesse caratteristiche dal (OMISSIS) sino ala cessazione avvenuta il (OMISSIS). Sulla scorta di tale presupposto, quindi, escluso per l’effetto anche ogni effettivo recesso durante il periodo intermedio (neanche il ricorrente con le sue tre doglianze si riferisce specificamente ai licenziamenti, di cui vi è cenno a pag. 2 della sentenza d’appello – mancano ad ogni modo le rituali formalità sul punto dovute a norma dell’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6, nonchè art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) i giudici di appello hanno dedotto, visto altresì che lo stesso resistente aveva riconosciuto la natura subordinata del rapporto sino al (OMISSIS), come non vi fosse alcun valido motivo per ritenere che la natura di tale rapporto fosse mutata per l’epoca successiva.

In altri termini, secondo la Corte distrettuale, accertato che il rapporto si era protratto ininterrottamente per l’intero arco temporale dedotto ed essendo altresì pacifica, per ammissione di parte convenuta, la natura subordinata sino al (OMISSIS), dalle risultanze istruttorie non emergeva alcun rilevante elemento di cognizione da cui poter desumere la novazione del rapporto (cfr. Cass. lav. n. 8527 – 08/04/2009: la sopravvenuta trasformazione di un rapporto di lavoro subordinato in un diverso rapporto di lavoro, con il conseguente svolgimento della prestazione sulla base di un titolo negoziale diverso, deve essere dimostrata dalla parte che deduce la trasformazione a seguito di uno specifico negozio novativo, il quale presuppone, innanzi tutto, che risulti la chiara ed univoca volontà delle parti di mutare il regime giuridico del rapporto. In senso analogo v. pure Cass. lav. n. 6985 del 26/11/1986, secondo cui la sopravvenuta trasformazione di un rapporto di lavoro subordinato in rapporto di lavoro autonomo, con il conseguente svolgimento della prestazione lavorativa in regime di autonomia e senza vincolo di subordinazione, deve essere dimostrata dalla parte che deduce la trasformazione stessa.

V. altresì Cass. n. 4670 del 26/02/2009: poichè la novazione oggettiva si configura come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente con nuove ed autonome situazioni giuridiche, di tale contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti e alla causa, l'”animus novandi”, consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l'”aliquid novi”, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto. L’esistenza di tali specifici elementi deve essere in concreto verificata dal giudice del merito, con un accertamento di fatto che si sottrae al sindacato di legittimità solamente se è conforme alle disposizioni contenute nell’art. 1230 c.c., commi 1 e 2 e art. 1231 c.c. e se risulta congruamente motivato. Conforme Cass. n. 16038 del 2004).

Per completare il ragionamento, inoltre, ma senza perciò invertire l’onere probatorio ex cit. art. 2697 alla luce della succitata giurisprudenza, ed evidentemente in relazione al secondo periodo ((OMISSIS)), per il quale il convenuto aveva negato la subordinazione, la sentenza impugnata osservava come sarebbe stato possibile riconoscere la natura autonoma laddove fosse stato dimostrato che il F. in autonomia avesse indicato il prezzo delle riparazioni da lui eseguite, riscuotendolo e facendolo proprio, pagando quindi al titolare dell’officina una quota di esso quale corrispettivo per l’uso dei macchinari (o attrezzature e dei locali); ciò che tuttavia non era emerso dalla espletata prova testimoniale, nel senso che il prezzo era di regola corrisposto, indifferentemente, al F. o al D.L., quest’ultimo ad ogni modo da tutti riconosciuto come titolare dell’officina. La Corte di merito, come già detto, ha poi accertato, in base alle citate ed apprezzate testimonianze, oltre alla ininterrotta permanenza del rapporto con le stesse caratteristiche per gli anni dal (OMISSIS)) al (OMISSIS), la presenza quotidiana del F. nell’officina del D.L. con l’osservanza altresì di un orario coincidente con quello di apertura dell’esercizio, donde lo stabile inserimento del primo nell’azienda facente capo al secondo e la sua sottoposizione alle direttive di questi.

In tale contesto, quindi, la Corte territoriale ha ritenuto di poter valorizzare quanto altresì de relato riferito dai testi circa la retribuzione mensile ricevuta da F., evidentemente da parte del convenuto attuale ricorrente, in base a quanto appreso dal diretto interessato.

A tal riguardo, quindi, appare infondata pure la censura mossa con il terzo motivo di ricorso, non soltanto perchè il giudicante ha giustificato il proprio convincimento sulla scorta di altri elementi, mentre le dichiarazioni de relato circa la retribuzione assumono nel più ampio contesto dell’intera argomentazione un valore pressochè marginale e trascurabile, ma anche in quanto nella specie le citate dichiarazioni de relato sono state evidentemente valutate insieme agli altri elementi di prova di cui si è detto, che hanno indotto i giudici di appello a considerarle attendibili, soprattutto poi in base alla ritenuta unitarietà del rapporto protrattosi dal (OMISSIS) con le stesse caratteristiche senza soluzione di continuità e senza che fosse emersa alcuna novazione riguardo all’originaria ed indiscussa sua natura subordinata.

Infine, anche il secondo motivo va disatteso, poichè in effetti con tale censura parte ricorrente inammissibilmente pretende in sede di legittimità quanto complessivamente e congruamente apprezzato in punto di fatto dal giudice di merito.

Ed invero, come già detto i giudici dell’appello hanno ritenuto fondato l’interposto gravame, valutando complessivamente le risultanze processuali acquisite in relazione all’intero periodo di cui è causa dedotto in giudizio, accertando con motivazione immune da errori logici e di diritto, che il rapporto di lavoro, iniziato come subordinato, come ammesso dallo stesso convenuto almeno fino ad una certa epoca, si era protratto di fatto senza interruzioni di sorta per tutto l’arco temporale considerato, di modo che non sussisteva alcun motivo, ragionevole e giuridicamente valido, da cui poter desumere la trasformazione del suo regime, secondo quanto invece diversamente prospettato ed eccepito dal resistente, che di conseguenza avrebbe dovuto fornire idonea prova al riguardo, però non acquisita o comunque non emergente dagli atti.

Dunque, una volta provato il rapporto di lavoro subordinato, che d’altro canto si presume di regola a tempo indeterminato, e dimostrata altresì la continuità delle relative prestazioni (v. l’art. 2697 c.c., comma 1), ogni altro fatto estintivo (per es. licenziamento formalmente intimato o anche valide dimissioni o novazione) o modificativo va provato da chi lo eccepisca (art. 2697 c.c., comma 2).

Pertanto, alla luce di quanto riportato anche nella precedente narrativa, non si tratta di omessa motivazione, nè di motivazione apparente o contraddittoria, poichè, negli anzidetti termini tutti gli elementi di cognizione risultangìo essere stati debitamente esaminati, ed in quanto risulta sufficientemente enunciata la ratio decidendi circa la sussistenza dei diritti rivendicati dal lavoratore istante.

Invero, la motivazione della sentenza qui impugnata ha preso in esame tutte le salienti circostanze di fatto emerse ed allegate nel corso del giudizio, senza nulla tralasciare, per poi decidere, con motivazione insindacabile in questa sede di legittimità, che ricorrevano le condizioni di legge a favore dell’attore.

Quanto, poi, al 3^ motivo d’impugnazione, così come formulato da parte ricorrente, va ancora osservato che la deduzione della violazione dell’art. 116 c.p.c., è ammissibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ne consegue l’inammissibilità della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. (Cass. lav. n. 13960 del 19/06/2014 – Conforme Cass. n. 26965 del 2007. V. altresì Cass. 3 civ. n. 15107 del 17/06/2013: mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la censura che investe la valutazione – attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 c.p.c. – può essere fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360).

Del resto – e ciò pure riguardo al secondo motivo di doglianza del D.L. – il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito (Cass. civ. Sez. 6-5, ordinanza n. 91 del 07/01/2014. In senso analogo v., tra le altre, Cass. 15489 del 2007, nonchè ancora Sez. 6-5, n. 5024 del 28/03/2012, secondo la quale il controllo di logicità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa.

Cfr. altresì Cass. n. 25332 del 28/11/2014, secondo cui il giudizio di legittimità è a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione, che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti.

V. pure Cass. 1 civ. n. 1754 del 26/01/2007: il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti.

In senso analogo, Cass. lav. n. 3881 del 22/02/2006 riteneva che il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento, dei ratti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'”iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5): in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. Conforme Cass. n. 3928 del 2000).

Pertanto, nel richiamare ancora quanto rilevato in ordine alle surriferite argomentazioni della sentenza qui impugnata, del tutto logiche ed esaurienti nel loro percorso, oltre che corrette in punto di diritto, le stesse non integrano di certo gli estremi della motivazione omessa ovvero carente o manchevole o contraddittoria, nei sensi di cui al citato art. 360 c.p.c., n. 5.

Nei sensi anzidetti, dunque, il ricorso principale va respinto.

Le spese seguono la soccombenza e vanno quindi poste a carico del ricorrente.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi, oltre, spese generali in ragione del 15%, nonchè accessori di legge, con attribuzione al procuratore anticipatario avv. Giuseppe Bello per il controricorrente.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2016

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