Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21362 del 18/09/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 21362 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: TRICOMI IRENE

SENTENZA

sul ricorso 7248-2011 proposto da:
ISTITUTO DI VIGILANZA PRIVATA NOTTURNA E DIURNA S.R.L.
00395890791, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
GREGORIO VII 500, presso lo studio dell’avvocato
PAVONE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato
2013

LARUSSA MASSIMO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2487
contro

CRITELLI LUIGI, FURRIOLO ARTURO, CRITELLI GIOVANNI,
BORRELLO MASSIMO, tutti elettivamente domiciliati in

Data pubblicazione: 18/09/2013

ROMA,

VIA M.

CLEMENTI

51,

presso

lo

studio

dell’avvocato GIUSEPPE ITRI, rappresentati e difesi
dall’avvocato PRESTIA SALVATORE, giusta delega in
atti;

controri correnti

di CATANZARO, depositata il 21/09/2010 R.G.N.
326/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 11/07/2013 dal Consigliere Dott. IRENE
TRICOMI;
udito l’Avvocato PAVONE GIUSEPPE per delega LARUSSA
MASSIMO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIULIO ROMANO che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

avverso la sentenza n. 1133/2010 della CORTE D’APPELLO

SVOLGIMENTO DEL FATTO
1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 1133 del 2010,
pronunciando sull’impugnazione proposta da Critelli Giovanni, Borrello Massimo,
Critelli Luigi e Furriolo Arturo, nei confronti dell’Istituto di vigilanza privata notturna e
diurna srl, accoglieva l’appello e, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di
Catanzaro, giudice del lavoro, n. 1396/2008 del 4 dicembre 2008, dichiarava illegittimo
il licenziamento irrogato dal suddetto Istituto nei confronti dei lavoratori appellanti, con

condanna alla reintegrazione degli stessi nel posto di lavoro occupato al momento del
licenziamento, al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto
maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione e al versamento dei
contributi previdenziali ed assicurativi dal giorno del licenziamento alla reintegrazione.
2. L’Istituto di vigilanza privata notturna e diurna srl, in data 7 giugno 2007,
aveva intimato a Critelli Giovanni, Borrello Massimo, Critelli Luigi e Furriolo Arturo il
licenziamento per giusta causa.
Il Tribunale di Catanzaro, adito dai lavoratori, reputava infondata l’eccezione
di nullità della contestazione disciplinare per genericità ed indeterminatezza e riteneva
legittimo il licenziamento irrogato.
3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre l’Istituto di
vigilanza privata notturna e diurna srl, prospettando due motivi di ricorso.
4. Resistono con controricorso Critelli Giovanni, Borrello Massimo, Critelli
Luigi e Furriolo Arturo.
5. L’Istituto ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’udienza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Occorre premettere che la contestazione disciplinare rivolta dall’Istituto di
vigilanza privata notturna e diurna srl a Critelli Giovanni, Borrello Massimo, Critelli
Luigi e Furriolo Arturo, aveva ad oggetto il rinvenimento, nella notte tra il 24 e il 25
maggio 2007, in più siti, luoghi di espletamento di vigilanza fissi, di copia di un
volantino (datato 23 aprile 2007) a firma degli stessi e rimesso a mezzo lettera
accompagnatoria, predisposta il 17 maggio 2007, alle autorità e agli uffici che vi si
leggevano in indirizzo, nel quale veniva data un’immagine dell’Istituto estremamente
negativa, non veritiera e gravemente lesiva del prestigio e del buon nome dello stesso,
che, senza ricatti di sorta, aveva sempre corrisposto ogni emolumento, anche in periodi,
più o meno recenti, in cui i bilanci societari facevano registrare rilevanti perdite ed
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aveva sempre perseguito pratiche di gestione del personale che, nel rispetto delle
previsioni contrattuali, e delle norme di legge, si ispiravano ad intese che,
legittimamente perfezionate con tutto il rimanente personale, per una loro rivisitazione
avrebbero richiesto nuove trattative di carattere collettivo.
Nel volantino si faceva riferimento a comportamenti che si assumevano
vessatori, arbitrari e frutto di evidenti abusi, ma anche dai toni ricattatori e frutto di
pratiche illegali, in cui avrebbero dovuto risultare coinvolti o almeno compiacenti

anche uffici istituzionalmente preposti al controllo e alla vigilanza sui contratti di lavoro
e sulle stesse modalità di espletamento del servizio, non trascurandosi nemmeno le
00.SS. attraverso l’operato delle loro rappresentanze aziendali e non esclusi alcuni
atteggiamenti che avrebbero dovuto apparire come pratiche di vere e proprie tangenti.
I lavoratori, nelle giustificazioni fornite il 30 maggio 2007, confermavano la
sottoscrizione ed il contenuto del testo riportato nel volantino, ma affermavano di
essere completamente estranei alla divulgazione dello stesso e di ignorare le modalità
ed i presunti autori della sua pubblicizzazione.
Tali giustificazioni erano state ritenute_ non in grado di ricomporre l’elemento
fiduciario irrimediabilmente compromesso, oltre alla intervenuta violazione
dell’obbligo di fedeltà, con la conseguente irrogazione del licenziamento per giusta
causa.
2. Tanto premesso può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.
3. Con il primo motivo di ricorso è dedotta insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un primo fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Espone il ricorrente che la Corte d’Appello pone a fondamento della propria
decisione, innanzitutto, la mancanza di prova circa l’ attribuibilità ai lavoratori appellanti
della divulgazione dello scritto in questione nei luoghi in cui lo stesso veniva stato
ritrovato.
Tale argomento e non solo perché oggetto della contestazione era il contenuto e
non la divulgazione dello scritto (attraverso cui la società datrice di lavoro era venuta a
conoscenza del documento), veniva contraddetto dalle risultanze processuali.
Ed infatti, i lavoratori prima avevano redatto il documento in data 23 aprile 2007
e solo il 17 maggio 2007 l’avevano inviato alle diverse autorità.
In ragione del tenore del documento, gli unici che avevano interesse alla
divulgazione dello stesso non potevano essere che i suoi redattori, apparendo illogico
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quanto ritenuto dalla Corte d’Appello secondo cui altri lavoratori, non identificati, si
sarebbero resi promotori della diffusione.
Deduce il ricorrente, quindi, che anche a non voler considerare che la conferma
del documento ed il riconoscimento dell’attribuzione dello stesso agli stessi lavoratori,
fossero da ritenere di per sé motivo di grave violazione dell’elemento fiduciario, per il
grave contenuto dello stesso, anche la divulgazione, doveva essere imputata ai
lavoratori, in quanto provata in via presuntiva; peraltro, il documento veniva rinvenuto

nei luoghi dove veniva espletato il servizio di vigilanza.
Ad avviso del ricorrente, quindi, la motivazione della sentenza sarebbe viziata
nel pervenire ad affermare che il contenuto del documento, quantunque impregnato da
termini ed espressioni esagerate ed inopportune e incidenti negativamente
sull’immagine della società datrice, si presta ad essere considerato (…) come legittimo
esercizio del diritto di critica nei confronti di parte datoriale sulla gestione del rapporto
di lavoro.
4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un secondo fatto controverso e decisivo per il giudizio. Violazione e
falsa applicazione degli artt. 2105 e 2119 cc, dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966,
collegati con l’interpretazione che ne è dovuta ex artt. 1175 e 1375 cc.
In merito alla valenza diffamatoria, la Corte d’Appello, in modo contraddittorio,
riconosce che il documento si pone in contrasto e viola il principio di continenza
formale, ma sminuisce l’intento denigratorio, oltre che sul presupposto della mancata
diffusione ad opera dei resistenti, anche per il fatto che lo stesso veniva inviato solo
agli organi istituzionalmente individuati come deputati alla tutela dei lavoratori, non
tenendo conto che lo stesso veniva trasmesso anche a organi deputati all’ordine
pubblico quali il Vice Ministro dell’Interno e il Prefetto, e, quindi, attesa l’attività di
vigilanza esercita, soggetta ad autorizzazioni e licenze da parte della Prefettura, oltre
che di controllo da parte della Questura, con l’intento di recare danno al datore di
lavoro.
Né, l’affermazione della Corte d’Appello che l’intenzione dei lavoratori
sarebbe stata quella che la società rimanesse all’oscuro del documento può costituire
elemento idoneo a sminuirne il contenuto. Il riferimento all’essere il documento un atto
di accusa riguardo varie sigle sindacali, all’esser il termine tangente interpretato in
senso riduttivo, non ne diminuirebbe la portata e l’effetto diffamatorio e lesivo del
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decoro e dell’immagine e reputazione dell’istituto e dei legali rappresentanti, ben
individuati anche per il riferimento alla vecchia e nuova generazione, rispetto alle
autorità a cui veniva inviato.
La sentenza sarebbe, altresì, viziata in quanto nel documento in questione si
rinvenivano espressioni suscettibili di violare il disposto di cui all’art. 2105 cc e di
vulnerare la fiducia che il datore di lavoro ripone nel lavoratore. Il superamento del
limite del rispetto della verità oggettiva si sarebbe tradotto in una condotta lesiva del

decoro dell’impresa datoriale, con la conseguenza della legittimità del provvedimento
espulsivo, più che proporzionale rispetto alla gravità del comportamento, non potendo il
datore di lavoro continuare a dover porre la giusta fiducia in un dipendente che abbia
pubblicamente espresso giudizi gravemente diffamatori nei propri confronti.
4. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro
connessione. Gli stessi sono fondati nei limiti che segue.
5. Occorre premettere che in presenza di più interessi collidenti, e cioè
l’interesse della persona o dell’impresa oggetto di affermazioni lesive e l’interesse
contrapposto di chi ne è l’autore – costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost. sulla
libertà di manifestazione del pensiero – occorre trovare un punto di intersezione e di
equilibrio, che va individuato nel limite in cui il secondo interesse, non rechi
pregiudizio, all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto, persona fisica o
società.
Dunque assume rilievo la continenza (esposizione veritiera e corretta) del fatto
nell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sia dal punto di vista sostanziale
che formale. In particolare, sotto il primo profilo, i fatti narrati devono appunto
corrispondere alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva e, sotto il secondo,
l’esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, cioè deve essere contenuta negli
spazi strettamente necessari (Cass., n. 23798 del 2007).
Tanto premesso, occorre rilevare che il problema posto dalla controversia
consiste nello stabilire se i lavoratori abbiano esercitato il diritto di critica rispetto alle
attività datoriali, nel rispetto della legge e della Costituzione, e se la reazione datoriale
sia stata legittima o meno.
A tal fine, va precisato che non è necessario ancorare la condotta dei lavoratori
alla precisa violazione dell’art. 595 del cp, perché è possibile la configurazione di un
illecito in termini civilistici ai sensi dell’art. 2043 cc., integrabile quindi anche con un
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comportamento meramente colposo (al di fuori del dolo generico richiesto dalla norma
penale), che si svolga anche alla presenza dell’offeso (diversamente da quanto prevede
la norma penale).
Entrando ora nel merito, va premesso che la Corte d’Appello, disattendendo le
argomentazioni svolte dal primo giudice, che riteneva che le espressioni utilizzate nel
volantino (indicato come documento dal giudice dell’appello), esposto alla conoscenza
della generalità dei consociati, apparivano gravemente denigratorie e come tali, idonee a

compromettere in modo irreparabile, al di là della veridicità dei fatti ivi riportati, il
vincolo fiduciario sotteso allo specifico rapporto di lavoro intercorrente tra gli stessi
lavoratori e l’istituto di vigilanza, pone al centro della propria decisione la non
riferibilità ai lavoratori in questione della diffusione del volantino/documento.
La Corte d’Appello, in primo luogo, riforma la sentenza di primo grado
impugnata in punto di ascrivibilità agli appellanti della divulgazione del documento a
loro firma nella città di Catanzaro.
In secondo luogo, pur ritenendo superata la continenza formale — nell’affermare
che il Tribunale avrebbe teso a riferire le espressioni ed i termini a contenuto
denigratorio ed offensivo non già alla enunciazione nel documento in contestazione,
quanto piuttosto ed essenzialmente “alla conoscenza della generalità dei consociati”
delle espressioni ritenute gravemente denigratorie, suscettibili di compromettere il
vincolo fiduciario — escludeva la sussistenza della giusta causa di licenziamento in
ragione, del mancato superamento della continenza sostanziale, e per l’essere il
documento in questione diretto alle sole autorità in indirizzo, al fine di sollecitare le
autorità e l’organizzazione sindacale destinataria ad intervenire per accertare e valutare
la situazione che non avrebbe trovato soluzione positiva attraverso l’opera di
mediazione delle organizzazioni sindacali aziendali.
Nel fare ciò, tuttavia, la Corte d’Appello prescinde dalla contestazione, come
dalla stessa riportata in sentenza, riformulandola di fatto, in ragione delle
argomentazioni svolte dal Tribunale su un tema introdotto dai lavoratori ricorrenti a
propria esimente.
Occorre rilevare che, nel caso di specie, la diffusione del volantino /documento,
non ha costituito oggetto della contestazione disciplinare, come la stessa viene riportata
a pag 3 della sentenza d’appello, e come dedotto dall’odierno ricorrente nel censurare la
sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro.
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Il licenziamento per giusta causa veniva irrogato, come anticipato nella
contestazione — ove si faceva riferimento, in ragione del contenuto del volantino
/documento, al venir meno dell’elemento fiduciario essenziale alla prosecuzione del
rapporto — all’esito delle giustificazioni fornite, per essere le stesse assolutamente non
in grado di ricomporre l’elemento fiduciario, da ritenere irrimediabilmente
compromesso, oltre che violato l’obbligo di fedeltà. Contenuto del documento la cui
riferibilità ai lavoratori resistenti è dagli stessi riconosciuta.

Si può ricordare, in proposito, come questa Corte ha affermato il principio della
necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della
sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti
diversi da quelli contestati (Cass., n. 6091 del 2010).
Pertanto, le circostanze relative alla diffusione, prese in esame, disattendendole,
dal Tribunale, in ragione della progettazione difensiva dei lavoratori, non integrano,
come erroneamente ritiene la Corte d’Appello, statuendo sulla prova in merito,
elemento della contestazione, e neppure possono rientrare nel giudizio di
proporzionalità ed adeguatezza rimesso al giudice di merito, nel valutare le complessive
circostanze del caso anche in ragione delle deduzioni dei lavoratori, atteso che
attengono ad un fatto distinto da quello oggetto della contestazione..
Ciò chiarito, il centro della fattispecie in esame riguarda l’idoneità delle
affermazioni contenute nel documento, riportato nel volantino, inviato ad un pluralità di
istituzioni (Ministero del lavoro, Ministero degli Interni, Prefettura di Catanzaro,
Segretariato generale CGIL, Segretariato generale FILCAMS CGIL, Segretariato
generale CGIL), a ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, in modo tale da
costituire giusta causa di licenziamento. Peraltro, la Corte d’Appello, nell’escludere la
diffusione in capo ai ricorrenti, prospetta la conoscenza dello stesso da parte di altri
lavoratori che l’avrebbero diffuso, e dunque nell’ambiente di lavoro.
La sentenza della Corte d’Appello mostra una motivazione non corretta e non
congrua.
In primo luogo, come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di
licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, ai sensi
dell’art. 2119 cod. civ. o dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, il giudizio di
proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso deve essere
effettuato con riguardo al contenuto del documento redatto dagli odierni resistenti e
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trasmesso a diverse istituzioni e autorità pubbliche, in quanto oggetto della
contestazione disciplinare.
La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione
degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento
fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al
lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze
nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la

proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento
fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto,
da giustificare la massima sanzione disciplinare; a tal fine, quale comportamento che,
per la sua gravità, è suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, può assumere
rilevanza disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della
prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad
arrecare un pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali,
(Cass., n. 15654 del 2012).
In secondo luogo, si può rilevare che, contraddittoriamente e in violazione
dell’art. 2105 cc, il giudice di secondo grado, conferma, come statuito dal primo
giudice, il superamento della continenza formale (pagg. 12 e 13 della sentenza
d’appello) «le espressioni ed i termini contenuti nello scritto proveniente dagli
appellanti, che il giudice di primo grado ha avuto cura di riportare in sentenza, lasciano
indubbiamente sottintendere, attraverso l’attribuzione di atteggiamenti “vessatori, la
riferita utilizzazione di “pratiche illegali”, di pretese tangenti” per mantenere il posto di
lavoro, di scarsa considerazione e di violazione dei diritti dei lavoratori, una valutazione
essenzialmente negativa del soggetto destinatario, idonea a determinarne un pregiudizio
sul piano dell’immagine e della reputazione», ma esclude il superamento della
continenza sostanziale (pag. 15 della sentenza), mentre solo la sussistenza di entrambi i
suddetti elementi concorre a rendere legittimo l’esercizio del diritto di critica.
L’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di
lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si
traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di
provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di
perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere
definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la
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violazione del dovere scaturente dall’art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di
licenziamento (Cass., n. 11220 del 2004, n. 29008 del 2008, citata Cass., n. 23798 del
2007).
6. Il ricorso deve essere accolto. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per
le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.
PQM

spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.
Roma 11 luglio 2013

Il Consigliere estensore

Il Funzionario Giudiziari
Dott.ssa Donatella

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le

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