Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21362 del 13/08/2019

Cassazione civile sez. I, 13/08/2019, (ud. 30/05/2019, dep. 13/08/2019), n.21362

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 12553/2018 r.g. proposto da:

J.A., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso, giusta

procura speciale apposta in calce al ricorso, dagli Avvocati Carla

Gregoratti e Andrea Saccucci, elettivamente domiciliato in Roma, Via

Lisbona n. 9, presso lo studio dell’Avvocato Saccucci.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona Ministro legale rappresentante pro

tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale

dello Stato presso i cui Uffici è elettivamente domiciliato in Roma

Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Trieste, depositata in

data 15 marzo 2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/5/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Trieste – decidendo sull’appello proposto da J.A., cittadino del Pakistan, avverso l’ordinanza emessa in data 8 marzo 2017 dal Tribunale di Trieste (con la quale erano state respinte le domande del richiedente volte al riconoscimento dello status di rifugiato e, in via subordinata, quelle di protezione sussidiaria ed umanitaria) – ha rigettato l’appello e confermato, pertanto, il provvedimento reso in primo grado.

La corte del merito ha ritenuto non fondata la dedotta violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, nei termini della mancata dichiarazione di contumacia del Ministero dell’Interno, stante la rappresentanza processuale nel giudizio di primo grado del ministero tramite la commissione territoriale che aveva anche depositato memoria difensiva; ha, altresì, ritenuto l’infondatezza della reclamata protezione internazionale e di quella sussidiaria e umanitaria, in ragione della non verosimiglianza di quanto raccontato dal richiedente (che aveva giustificato la sua decisione di espatrio in ragione di una richiesta estorsiva avanzata da componenti di un locale partito politico) e della non riconducibilità della vicenda personale nelle ipotesi previste normativamente per il riconoscimento della reclamata protezione. La corte di merito ha, inoltre, precisato, sempre in riferimento alla domanda di protezione sussidiaria, che la regione di provenienza del richiedente (il Punjab) non è scossa da violenze indiscriminate e generalizzate, ma anzi rappresenta la regione più industrializza ed avanzata del Pakistan; ha, infine, evidenziato che non sussisteva neanche una condizione di particolare vulnerabilità del ricorrente, tale da giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

2. La sentenza, pubblicata il 15.3.2018, è stata impugnata da J.A. con ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

La parte ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 166 e 171 c.p.c., nonchè del D.Lgs. 28 gennaio 2018, n. 25, art. 35 e T.U. n. 1611 del 1933, artt. 1 e 3 – si duole della mancata dichiarazione di contumacia del ministero in ragione della invalidità della rappresentanza processuale del ministero spesa dalla commissione territoriale.

2. Con il secondo motivo si denunzia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 122 e 123 c.p.c., art. 24 Cost. e art. 6 Cedu. Si evidenzia da parte del ricorrente che non era stato nominato un interprete per la sua partecipazione consapevole al giudizio e che inoltre non erano stati tradotti gli atti che aveva prodotto a sostegno delle sue domande.

3. Con il terzo motivo – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3 e omessa motivazione – la parte ricorrente si duole della mancata valutazione, come fatti accertati in giudizio, di quelli narrati dal richiedente a sostegno delle sue domande di protezione internazionale ed umanitaria, avendo assolto il ricorrente all’onere della prova sullo stesso incombente in ragione della norma da ultimo ricordata.

4. Con il quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, nn. 1 e 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Si evidenzia la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi da parte dei giudici del merito e la mancata integrazione probatoria, dunque, degli elementi di valutazione già offerti dal ricorrente per la dimostrazione della fondatezza delle domande di protezione.

5. Con il quinto motivo si articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 1, lett. a, comma 2, della Convenzione di Ginevra, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e e g e artt. 5 e 14. Si denuncia come erronea la valutazione giudiziale secondo la quale il racconto del richiedente sarebbe riconducibile ad una vicenda personale di criminalità comune, come tale non legittimante la richiesta di protezione in esame.

6. Con il sesto motivo il ricorrente lamenta omesso esame di un fatto decisivo per la decisione, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g e art. 14, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5 e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19. Si evidenzia che, in relazione alle domande di protezione sussidiaria ed umanitaria, non era stata presa in esame la situazione di rischiosità della città di Karachi (in cui il ricorrente aveva soggiornato negli ultimi anni), ma solo quella della regione del Punjab di provenienza del richiedente.

7. Con il settimo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 74 e segg., in relazione alla revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello stato.

8. Il ricorso è fondato nei limiti qui di seguito precisati.

8.1 Il primo motivo di censura è, invece, infondato.

8.1.1 Con riferimento alla previsione di cui all’art. 417 bis c.p.c., richiamata dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 7 (applicabile ratione temporis) – secondo cui le P.A., nelle controversie relative ai rapporti di lavoro, possono stare in giudizio, in primo grado, mediante loro dipendenti – va precisato che la detta disposizione codicistica si differenzia da quella di cui al R.D. n. 1611 del 1933, art. 2, che consente all’Avvocatura dello Stato di delegare, per la rappresentanza dell’Amministrazione, un funzionario o procuratore, in quanto in un caso l’amministrazione assume direttamente la difesa, nell’altro la delega concerne la sola rappresentanza in giudizio, restando l’attività defensionale affidata all’ufficio dell’Avvocatura competente per territorio (Cass. 17596/2016).

8.1.1 A ciò si aggiunga che la mancanza di un provvedimento formale di dichiarazione di contumacia non è di per sè causa di nullità del procedimento o della sentenza, quando risulti che il contraddittorio sia stato comunque ritualmente costituito nei confronti delle parti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20406 del 05/09/2013; Sez. L, Sentenza n. 4804 del 24/04/1993). Va, peraltro, evidenziato come la parte ricorrente non abbia neanche illustrato quale sia il suo interesse processuale alla dichiarazione di contumacia della controparte processuale.

Ne consegue il rigetto della doglianza.

8.2 Il secondo motivo è del pari infondato.

8.2.1 In tema di protezione internazionale, l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonchè quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, è – invero previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione.

La presenza dell’interprete, come la traduzione della documentazione prodotta va disposta solo “ove necessario”.

Ne consegue che la parte, ove censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un “vulnus” all’esercizio del diritto di difesa (Cass. 11295/2019; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 11871 del 27/05/2014).

Del resto, in tal senso si esprime anche l’art. 12, lett. b) della Direttiva 2013/32/UE, citato dal ricorrente, secondo cui “il richiedente riceve, laddove necessario, l’assistenza di un interprete per spiegare la propria situazione nei colloqui con le autorità competenti. Gli Stati membri reputano necessario fornire tale assistenza almeno quando il richiedente è convocato a un colloquio personale di cui agli artt. da 14 a 17 e 34 e una comunicazione adeguata risulta impossibile in sua mancanza. In questo e negli altri casi in cui le autorità competenti convocano il richiedente asilo, tale assistenza è retribuita con fondi pubblici”.

La nomina dell’interprete è prevista, dunque, anche dalla norma Europea, solo in caso di effettiva necessità (“laddove necessario”), ed in particolare in caso di colloquio personale.

Orbene, esclusa la ricorrenza – nella specie – di tale ultima evenienza, è evidente che la necessità sorge in relazione al concreto esercizio del diritto di difesa dello straniero, e postula, quindi, che sia formulata una specifica eccezione che ponga in evidenza le lesioni specifiche al diritto di difesa che di tale mancanza siano diretta conseguenza.

Quanto, poi, alla pretesa necessità di un traduttore per i documenti redatti nella lingua madre dell’istante, va soltanto aggiunto come il principio della obbligatorietà della lingua italiana, previsto – oltre che dalla normativa speciale – anche dall’art. 122 c.p.c., si riferisca, con riferimento a tale ultima norma, agli atti processuali in senso proprio e non anche ai documenti esibiti dalle parti, sicchè, quando siffatti documenti risultino redatti in lingua straniera, il giudice, ai sensi dell’art. 123 c.p.c., ha la facoltà, e non l’obbligo, di procedere alla nomina di un traduttore (Cass. 6093/2013).

8.3 Il terzo, quarto, quinto e sesto motivo (con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5) – che possono esaminarsi congiuntamente – sono invece fondati.

Preme evidenziare che il diritto alla protezione sussidiaria non può essere, invero, escluso dalla circostanza che a provocare il danno grave per il cittadino straniero siano soggetti privati, qualora nel paese d’origine non vi sia un’autorità statale in grado di fornirgli adeguata ed effettiva tutela, con conseguente dovere del giudice di effettuare una verifica officiosa sull’attuale situazione di quel paese e, dunque, sull’eventuale inutilità di una richiesta di protezione alle autorità locali (Cass., 20/07/2015, n. 15192; Cass., 03/07/2017, n. 16356; Cass., 09/10/2017, n. 23604).

Nel caso concreto, l’impugnata sentenza dà atto che il richiedente, originario di Rawalpindi, nella regione del Punjab, si era trasferito nella capitale (Karachi) e che il medesimo temeva di essere esposto alla minaccia di un danno grave alla vita o alla persona, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), “in caso di rimpatrio nella città in cui abitava al momento della fuga”, appunto Karachi. Ed è in tale città che sarebbe avvenuto l’episodio narrato dall’immigrato. E tuttavia, la Corte territoriale fa riferimento esclusivo – nel citare il rapporto COI acquisito – alla regione del Punjab della quale era originario l’istante, ma che il medesimo aveva abbandonato da tempo, essendosi trasferito a vivere a Karachi.

Ne consegue che manca, all’evidenza, un accertamento specifico relativo alle condizioni di sicurezza, alla efficienza ed integrità della polizia, alla presenza ed alle eventuali attività estorsive del partito politico M.Q.M., con riferimento alla città dove – stando alla stessa Corte d’appello – lo straniero dovrebbe essere rimpatriato.

Si aggiunga che, come denunciato dal ricorrente, la motivazione impugnata risulta effettivamente evanescente anche quanto alle ragioni di inattendibilità della narrazione dell’immigrato, con riferimento alle circostanze relative all’uccisione del fratello, essendosi la Corte limitata a fare riferimento a lacune probatorie, senza peraltro preoccuparsi di integrarle con accertamenti officiosi mirati e specifici sul punto.

8.4 Il settimo motivo è invece assorbito.

Si impone pertanto la cassazione del provvedimento impugnato con rinvio alla corte di appello competente anche per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il terzo, quarto, quinto e sesto motivo di ricorso; rigetta il primo e secondo motivo; dichiara assorbito il settimo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 30 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2019

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