Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2136 del 30/01/2020

Cassazione civile sez. I, 30/01/2020, (ud. 06/12/2019, dep. 30/01/2020), n.2136

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FEDERICO Guido – Presidente –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 31359-2018 r.g. proposto da:

H.K., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso, giusta

procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Marta Di

Tullio, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma,

Via Emilio Faa di Bruno n. 15.

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (cod. fisc. (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore il Ministro.

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Caltanissetta, depositato in data

25.9.2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

6/12/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1.Con il decreto impugnato il Tribunale di Caltanissetta – decidendo sulla domanda avanzata da H.K., cittadino del Pakistan, e indirizzata al riconoscimento dello status di rifugiato ovvero della protezione sussidiaria o del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, dopo il diniego della Commissione territoriale di Siracusa – ha confermato quest’ultimo provvedimento, rigettando la comanda presentata dal richiedente.

Il tribunale ha ricordato che il richiedente aveva narrato: i) di aver lasciato il Pakistan nel giugno del 2014 e di essere giunto in Italia nel settembre dello stesso anno, dopo aver attraversato la Libia; li) di essere stato costretto ad allontanarsi dal suo paese di origine per il timore di una “fatwa” emessa contro di lui da parte di un gruppo di musulmani sunniti, che lo accusava di aver venduto un terreno agli sciiti i quali, a loro volta, avevano intrapreso su detto terreno la costruzione di un Imam Barga; iii) di aver appreso che la comunità religiosa cui apparteneva non aveva approvato la sua scelta di alienare il terreno di sua proprietà a musulmani sciiti; iv) di essere stato costretto pertanto a recarsi presso la comunità sciita, per chiedere la restituzione del terreno, restituzione che tuttavia non era mai avvenuta; v) di aver peraltro appreso che a causa dello scontro tra le due fazioni religiose era intervenuta la morte di una persona appartenente alla comunità sciita, evento cui erano seguite le denunce reciproche delle opposte fazioni; vi) di aver subito pressioni da parte dei due gruppi religiosi che intendevano costringerlo a rendere false dichiarazioni ciascuno a proprio vantaggio, nonostante non fosse stato presente allo scontro.

Il tribunale ha dunque ritenuto inverosimile che i sunniti, coinvolti nello scontro, avessero bisogno della testimonianza del ricorrente per essere scagionati, posto che quest’ultimo non era stato presente al momento della sparatoria. Il tribunale ha evidenziato che non risultava nemmeno chiaro il motivo per cui il ricorrente avesse subito minacce da parte degli acquirenti del terreno per essere scagionati, atteso che la cessione dell’immobile era avvenuta alla presenza di un notaio e che, peraltro, le dichiarazioni rese dal ricorrente sulla cd. fatwa non avevano trovato riscontro nelle fonti informative consultate. I giudici del merito hanno, dunque, considerato le dichiarazioni rese non plausibili e coerenti con le informazioni disponibili sul paese d’origine e, conseguentemente, non veritiere. Il tribunale ha, inoltre, ritenuto che non ricorressero i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato nè per la protezione sussidiaria, in quanto non era emerso alcun pericolo di subire un danno grave, posto che era stato lo steso ricorrente ad aver riferito che la regione di provenienza era sicura. Il Tribunale ha infatti evidenziato che la moglie del ricorrente, insieme ai figli, risiedevano ancora in Punjab, osservando che, nella detta regione, non esiste in realtà alcun conflitto armato interno, come risulta dal rapporto EASO aggiornato all’agosto 2017 e dal report 25.8.2017 della Commissione nazionale per il diritto di asilo. Il tribunale ha, infine, respinto anche la richiesta di protezione umanitaria, in quanto nessuna grave ed oggettiva situazione personale, tale da integrare una possibile situazione di vulnerabilità, ricorreva nel caso di specie, non bastando a tal fine lo svolgimento di attività lavorativa in Italia.

2.Il decreto, pubblicato il 25.9.2018, è stata impugnata da H.K. con ricorso per cassazione, affidato a sette motivi.

L’amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, – si duole del mancato riconoscimento dello status di rifugiato. Si denuncia l’omessa acquisizione precisa e aggiornata delle fonti informative necessarie per la valutazione e la decisione della domanda di riconoscimento di protezione internazionale del richiedente, nonchè l’omessa verifica della situazione attuale del paese di provenienza.

2. Con il secondo mezzo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 17,.

3. Con il terzo motivo si articola vizio di violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, lett. f). Si evidenzia che – al fine del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria – il tribunale era venuto meno al suo obbligo di cooperazione istruttoria.

4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 15, commi 1 e 2, in relazione al diniego della protezione sussidiaria.

5. Con il quinto si denuncia violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Si evidenzia che il Pakistan vive una situazione di instabilità, come riportato nell’EASO report e che la violenza è dovuta alla instabilità politica, ai conflitti etnici, alla violenza settaria e alle tensioni con l’India e l’Afghanistan, comportando il respingimento verso il Paese di origine l’esposizione del richiedente al rischio di essere vittima di attentati e scontri.

6. Con il sesto mezzo si denuncia violazione dell’art. 3 Cost., non essendo stato considerato dai giudici del merito il doveroso bilanciamento tra la tutela degli interessi privati e la tutela del bene giuridico alla sicurezza pubblica della nazione e non avendo considerato che il richiedente non aveva commesso alcun reato grave o crimine di guerra o contro l’umanità e non aveva riportato alcuna condanna civile e penale nel territorio nazionale e all’estero.

7. Con il settimo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo. Si evidenzia che la circostanza che il richiedente fosse stato minacciato dai mujahedden per averli denunciati alla polizia (a cui aveva richiesto aiuto per timore senza tuttavia ottenere protezione) rappresentava una situazione di persecuzione ad personam, riconducibile a ragioni tutelate dalla Convenzione di Ginevra.

8. Il ricorso è inammissibile.

9. Manifestamente infondata è la prima doglianza posto che i giudici del merito – la cui decisione è qui impugnata – hanno, invero, esaminato la condizione attuale interna del Pakistan, escludendo che la stessa presenti situazioni di conflittualità generalizzata e fondando tale decisione sulla consultazione di qualificate fonti informative (espressamente citate nel provvedimento).

10. Inammissibili sono anche il secondo, terzo e quarto motivo di censura (riguardanti il diniego del riconoscimento dello status di rifugiato e della reclamata protezione internazionale), giacchè le relative doglianze sono state formulate in modo generico e tali da non far comprendere il significato delle censure.

11. Il quinto motivo – incentrato sul diniego della richiesta protezione umanitaria – è del pari inammissibile perchè anch’esso genericamente formulato e perchè non intercetta la ratio decidendi della motivazione impugnata, che si fonda sulla valutazione di non credibilità del richiedente e sull’accertata inesistenza di una situazione di vulnerabilità di quest’ultimo.

12. Il sesto motivo è inammissibile perchè la doglianza viene articolata in modo decentrato rispetto ai presupposti normativi sottesi alle richieste di protezione internazionale, citando elementi di valutazione in fatto, che non si inquadrano nei paradigmi applicativi della tutela reclamata in questa sede.

13. Il settimo motivo è inammissibile perchè rivolge alla Corte di legittimità la richiesta di rivalutazione del merito della decisione impugnata.

Ne discende la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Nessuna statuizione è dovuta per le spese del presente giudizio di legittimità, stante la mancata difesa dell’amministrazione intimata.

Per quanto dovuto a titolo di doppio contributo, si ritiene di aderire all’orientamento già espresso da questa Corte con la sentenza n. 96602019.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2020

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