Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21356 del 26/07/2021

Cassazione civile sez. lav., 26/07/2021, (ud. 20/01/2021, dep. 26/07/2021), n.21356

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17988-2019 proposto da:

B.M., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato FRANCESCO GIARRIZZO;

– ricorrente –

contro

STATI UNITI D’AMERICA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, FORO TRAIANO n. 1/A,

presso lo studio degli avvocati FRANCESCA PULEJO, GIORGIO COSMELLI,

che li rappresentano e difendono;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 371/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 01/04/2019 R.G.N. 361/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2021 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ STEFANO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCO GIARRIZZO;

udito l’Avvocato FRANCESCA PULEJO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Catania, con sentenza n. 371/2019, decidendo sul reclamo proposto da B.M. nei confronti degli Stati Uniti d’America, confermava la pronuncia del locale Tribunale che aveva respinto l’opposizione del B., dipendente della (OMISSIS), con sede in (OMISSIS), intesa ad ottenere la declaratoria dell’illegittimità del licenziamento intimatogli con lettera del 12.10.2012.

Il B. era stato licenziato per aver tenuto un comportamento violento ai danni di un collega, nei confronti del quale aveva rivolto insulti e minacce, causando seria turbativa alle attività operative, e gravi lesioni fisiche.

In sede giudiziale il dipendente aveva lamentato l’illegittimità del licenziamento in quanto irrogato per motivi discriminatori ed aveva chiesto che fosse ordinata la sua reintegrazione nel posto di lavoro, con tutte le conseguenze risarcitorie; in via subordinata, aveva chiesto che ne fosse dichiarata l’illegittimità per sproporzione e assenza di giusta causa.

Il giudice di prime cure, nel contraddittorio con gli Stati Uniti d’America, respingeva il ricorso escludendo la natura discriminatoria del licenziamento e ritenendo inammissibile la subordinata domanda di tutela obbligatoria in quanto domanda non fondata sul “medesimo fatto costitutivo” rispetto alla domanda proposta in via principale volta alla declaratoria di nullità del licenziamento perché discriminatorio.

Tale pronuncia era confermata in sede di opposizione.

La Corte d’appello di Catania respingeva il reclamo del B..

2. Riteneva la Corte territoriale ammissibile la proposizione in via subordinata alla domanda volta a denunciare la discriminatorietà del licenziamento quella volta alla declaratoria del difetto di giusta causa ovvero di ingiustificatezza del recesso datoriale, in quanto fondate sul comune presupposto della vicenda estintiva del rapporto.

Tuttavia, in ossequio alla ragione più liquida, considerava risolutiva ai fini dell’infondatezza delle pretese la piena legittimità dell’adottato provvedimento sia sotto il profilo della discriminatorietà, già esaminato dal primo giudice, sia sotto quello della sussistenza della giusta causa.

Quanto al primo aspetto, rilevava che, a fronte di una specifica e argomentata motivazione sul punto del licenziamento discriminatorio svolta dal primo giudice, il reclamante non avesse formulato alcuna critica che potesse confutare e contrastare le ragioni addotte dal Tribunale, limitandosi a riproporre i medesimi argomenti, motivatamente disattesi dal primo.

In ogni caso, evidenziava l’errore del reclamante nell’aver ritenuto che la pretesa disparità di trattamento consumata ai suoi danni dal datore di lavoro (che non aveva adottato analogo provvedimento nei confronti di altro collega, S.D., pure coinvolto nel medesimo episodio) potesse ricondursi al principio di discriminazione.

Quanto al secondo aspetto, riteneva che dalle acquisizioni processuali fossero emersi elementi ampiamente idonei a dimostrare che la condotta posta in essere dal reclamante fosse così grave da ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario e da giustificare ai sensi dell’art. 2119 c.c. il recesso intimatogli.

Precisava che la dinamica di verificazione del fatto come oggetto di contestazione avesse trovato ampio supporto probatorio oltre che nella linea difensiva tenuta dal reclamato – sostanzialmente improntata alla non contestazione – anche nelle acquisizioni processuali e in particolare nell’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza del Giudice di Pace di Catania, emessa all’esito del procedimento penale istaurato a carico del B., sentenza avverso la quale non era stata proposta impugnazione.

In particolare, assumeva che dal detto accertamento fosse emerso che il B., dopo la animata discussione svoltasi all’interno del posto di lavoro, si era messo alla guida della propria autovettura all’inseguimento dell’altro dipendente ( S.D.), che era già su strada a bordo della propria auto; lo aveva costretto a fermarsi e quindi lo aveva ingiuriato e minacciato colpendolo ripetutamente con pugni al torace e al viso.

Riteneva che il comportamento posto in essere dal reclamante fosse palesemente inadempiente agli obblighi fondamentali che accedono al rapporto di lavoro e si rivelasse indiscutibilmente contrario agli interessi del datore di lavoro per il disvalore ambientale che lo stesso aveva causato così da ledere gravemente e irreparabilmente, il vincolo fiduciario e da configurare il licenziamento come sanzione adeguata ai sensi dell’art. 2106 c.c., giudizio questo che permane in capo al giudice anche nel caso di sanzioni disciplinare previste dagli accordi collettivi o da atti equiparati (e così, nello specifico, dalle Conditions of Employment for local Na. Employes of the U.S. Armed Forces in Italy).

Aggiungeva che non si sarebbe potuti pervenire ad una diversa valutazione in ordine alla gravità della condotta ascritta al B. considerando che l’episodio (aggressione) era avvenuto al di fuori del luogo, delle mansioni e dell’orario di lavoro.

Escludeva che potesse aver avuto efficacia discriminante1in ordine al giudizio di gravità ai sensi dell’art. 2119 c.c. della condotta l’assunto difensivo del B. secondo il quale la modalità di esecuzione della prestazione lavorativa seguita dal dipendente coinvolto nell’episodio e oggetto della reazione comportamentale del primo che “avrebbe causato empasse sull’inventario e importante danno alla produttività”, trattandosi di fatto non riscontrato dal datore di lavoro.

3. Per la cassazione della sentenza B.M. ha proposto ricorso con cinque motivi.

4. Gli Stati Uniti d’America hanno resistito con controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).

Censura la sentenza impugnata laddove ha dichiarato inammissibile il secondo motivo di reclamo con riferimento alla dedotta natura discriminatoria del licenziamento per violazione del principio di specificità di cui alle norme denunciate.

2. Il motivo è inammissibile.

La Corte territoriale ha riportato testualmente la censura del reclamante ed ha evidenziato che quest’ultimo si era limitato genericamente a dedurre di “aver esposto con dovizia di particolari gli elementi di fatto e le indicazioni probatorie sulla base dei quali il giudice avrebbe dovuto compiere l’attività istruttoria per accertare la natura discriminatoria del licenziamento” senza supportare tale argomentazione con alcun riferimento specifico nel grado di gravame ed ha ritenuto che tale modo di procedere gr61 fosse in palese violazione del principio di specificità posto in via generale dall’art. 342 c.p.c. e nel rito del lavoro dall’art. 434 c.p.c. la cui osservanza si impone tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello.

Le suddette affermazioni, corrette in diritto (v. Cass., Sez. Un. 16 novembre 2017, n. 27199; Cass. 30 maggio 2018, n. 13535), non sono idoneamente contrastate dal ricorrente che non ha offerto alcun concreto elemento per ritenere che già il giudice di prime cure avesse ignorato le argomentazioni fattuali e giuridiche poste a sostegno della natura discriminatoria del licenziamento dovendosi, al contrario evidenziare, che, per quanto si evince dalla sentenza impugnata, il Tribunale aveva fornito una specifica e argomentata motivazione sul punto del licenziamento discriminatorio e che il reclamante si era limitato a riproporre i medesimi argomenti motivatamente disattesi dal primo.

Il ricorrente, invero, trascrive solo una parte della motivazione della decisione del Tribunale (v. pag. 8 del ricorso) ma già da questa si evince che il nucleo centrale di tale decisione era stato che la deduzione relativa al carattere discriminatorio del licenziamento fosse del tutto generica, basata solo sul trattamento differente riservato all’altro collega coinvolto nella medesima vicenda. Rispetto a tale passaggio argomentativo (valorizzato anche dai giudici del reclamo) il B. oppone di aver articolato mezzi istruttori non presi in considerazione tanto dal primo giudice quanto dalla Corte territoriale ma ciò non scardina l’affermata genericità della deduzione, in quanto non supportata da circostanze specifiche da cui desumere la lamentata natura discriminatoria dell’adottato provvedimento.

3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c..

Censura la sentenza impugnata per l’omessa pronuncia in ordine alle istanze istruttorie.

4. Il motivo è inammissibile.

Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione ove ne siano prospettati ritualmente gli estremi (v. Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2001, n. 15982; Cass. 18 marzo 2013, n. 6715; Cass. 5 luglio 2016, n. 13716; Cass. 20 ottobre 2017, n. 24830).

5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo.

Critica la sentenza impugnata per aver ritenuto di dover preliminarmente accertare la legittimità del licenziamento senza svolgere alcuna attività istruttoria come invece richiesto dal B..

6. Il motivo è inammissibile.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai consolidata (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., Sez. Un., 18 aprile 2018, n. 9558; Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2018, n. 33679) nell’affermare che: il novellato testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma; nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione.

Orbene, un vizio di tal fatta non è rinvenibile nella sentenza impugnata che, come evidenziato nello storico di lite, ha dato conto, in modo chiaro e logico, dell’esito dell’esame della questione della legittimità del licenziamento “secondo il reclamante non assistito da giusta causa e comunque censurabile sotto il profilo della proporzionalità”.

Ne’ rileva che la suddetta questione non sia stata affrontata dal giudice di prime cure risultando, come detto, posta in sede di reclamo dallo stesso B..

Quanto alla omessa valutazione di circostanze allegate dal lavoratore già in primo grado e reiterate in sede di reclamo, il motivo, come detto, è fuori del perimetro dell’attuale art. 360 c.p.c., n. 5.

7. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la nullità sentenza in relazione all’art. 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, ed all’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1.

Censura la sentenza impugnata per non aver descritto il processo cognitivo attraverso il quale è giunta alle conclusioni finali, per aver erroneamente ritenuto la fondatezza della prospettata sussistenza dei fatti sulla scorta di dichiarazioni di impegno rese da soggetti in assenza di qualsiasi forma di contraddittorio, senza fornire congrua motivazione in merito alla non idoneità della prova testimoniale proposta dal lavoratore.

8. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha offerto una congrua spiegazione delle ragioni che l’hanno portata al giudizio finale circa la legittimità dell’adottato provvedimento espulsivo e ciò ha fatto traendo spunto sia dalle stesse argomentazioni difensive del B. da cui ha valutato di evincere che la condotta contestata non era mai stata contestata dallo stesso nella sua oggettività (avendo egli sempre affermato che il diverbio con colluttazione fisica avuto con l’altro dipendente era comunque avvenuto fuori dal luogo di lavoro, con ciò implicitamente ammettendo di aver posto in essere la condotta offensiva ascrittagli) sia dalla circostanza che la dinamica di verificazione del fatto aveva trova ampio supporto probatorio nelle acquisizioni processuali e in particolare nella sentenza del Giudice di Pace di Catania emessa il 3 agosto 2016 all’esito del procedimento penale istaurato a carico del B. per il reato di cui all’art. 594 c.p. – nel frattempo depenalizzato – e quello di lesioni di cui all’art. 582 c.p. per il quale era stato condannato anche al risarcimento danni nei confronti della parte civile, ovverosia nei confronti dell’altro dipendente coinvolto nella vicenda, sentenza avverso la quale non era stata proposta impugnazione.

Inoltre i giudici del reclamo hanno valorizzato le dichiarazioni rese dalla persona offesa ed hanno ritenuto che le stesse fossero risultate riscontrate dalle deposizioni rese in sede di sommarie informazioni da altri colleghi di lavoro che le avevano reiterate in giudizio seppur mediante dichiarazioni di impegno, ritenute utilizzabili ai sensi dell’art. 116 c.p.c. in quanto del tutto coincidenti con quelle dagli stessi già riscontrate dal Giudice di pace nella richiamata decisione di condanna.

E’, del resto, principio da tempo consolidato quello secondo il quale la valutazione delle prove, e con essa il controllo sulla loro attendibilità e concludenza, e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, sono rimesse al giudice del merito e sono sindacabili in cassazione solo sotto il profilo della adeguata e congrua motivazione che sostiene la scelta nell’attribuire valore probatorio ad un elemento emergente dall’istruttoria piuttosto che ad un altro. In particolare, ai fini di una corretta decisione adeguatamente motivata, il giudice non è tenuto a dare conto in motivazione del fatto di aver valutato analiticamente tutte le risultanze processuali, né a confutare ogni singola argomentazione prospettata dalle parti, essendo, invece, sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter logico seguito nella valutazione degli stessi per giungere alle proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli morfologicamente incompatibili con la decisione adottata. In tema di valutazione delle prove, difatti, nel nostro ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non esiste una gerarchia delle prove stesse, nel senso che (fuori dai casi di prova legale) esse, anche se a carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo convincimento (v. ex multis Cass. 28 giugno 2006, n. 14972; Cass. 18 aprile 2007, n. 9245; Cass. 12 settembre 2011, n. 18644).

9. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo in relazione alla violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3.

Critica la sentenza impugnata per aver omesso di motivare sulla contestata violazione di talune norme poste a presidio del diritto di difesa in ambito di licenziamento (e così, oltre che delle specifiche norme dello Statuto dei lavoratori anche di quelle delle Condizioni di impiego per il personale civile non statunitense delle Forze Armate U.S.A. in Italia del 2006: art. 30, comma 3, dell’Allegato 6, punto 9, art. 33 lett. A).

10. Il motivo è inammissibile per plurime concorrenti ragioni.

Non è trascritto il testo delle Condizioni di impiego cui si fa riferimento, in violazione del principio di specificità del ricorso né è indicato ove tali Condizioni siano rinvenibili nei fascicoli d’ufficio o di parte.

Neppure è evidenziato quando ed in quali termini la relativa questione sia stata sottoposta, ab initio, al giudice del merito, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3 né si evince se sulla stessa vi sia stata una qualche pronuncia da parte del Tribunale in prime cure.

Il motivo, poi, non si confronta con il passaggio argomentativo della sentenza impugnata secondo il quale “deve quindi ritenersi senz’altro legittimamente irrogato l’impugnato licenziamento per giusta causa, non essendo ravvisabili altri vizi di legittimità in riferimento alla procedura che ha condotto all’applicazione della contestata sanzione, non foss’altro che il lavoratore è stato sempre posto in grado di difendersi adeguatamente dalla contestazione degli addebiti oppostagli”, risultando del tutto generico il riferimento ad un iter disciplinare “posto in essere in violazione degli artt. 3 e 24 Cost.”.

11. Il ricorso deve, dunque, essere respinto.

12. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

13. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass., Sez. Un., 20 febbraio 2020, n. 4315, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2021

 

 

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