Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21349 del 18/09/2013


Clicca qui per richiedere la rimozione dei dati personali dalla sentenza

Civile Sent. Sez. L Num. 21349 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: BERRINO UMBERTO

SENTENZA
sul ricorso 6254-2011 proposto da:
->,
DE NICOL( SERGIO DNCSRG52P09E979T, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA BRESCIA 29 (STUDIO FRANCESCO
ZACHEO), presso lo studio dell’avvocato CONTE CESARE
MAURIZIO, che lo rappresenta e difende, giusta delega
in atti;
– ricorrente –

2013
1992

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – DIREZIONE REGIONALE PUGLIA, in
persona del legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

Data pubblicazione: 18/09/2013

STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA
DEI PORTOGHESI,

12;

– controricorrente

avverso la sentenza n.

6826/2010 della CORTE D’APPELLO

di ROMA, depositata il 01/10/2010 R.G.N. 2018/2006;

udienza del

05/06/2013

dal Consigliere Dott. UMBERTO

BERRINO;
udito l’Avvocato CONTE CESARE MAURIZIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

Svolgimento del processo
Con sentenza del 20/9 — 1/10/2010 la Corte d’appello di Roma, pronunziando sul
ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di De Nicola Sergio, ha
annullato il lodo arbitrale n. 501 emesso il 31/5/2005 dal Collegio arbitrale di

licenziamento senza preavviso intimato in data 3/8/2005 dal Direttore Regionale
della predetta Agenzia al De Nicola a seguito del passaggio in giudicato della
sentenza penale di condanna di quest’ultimo per tentata concussione.
Il Collegio arbitrale aveva annullato il licenziamento per la rilevata intempestività
dell’avvio del procedimento disciplinare, ritenendo che il termine di venti giorni
previsto a tal riguardo dall’art. 24, comma 2, del CCNL 16/5/1995, nella fattispecie
non osservato dall’amministrazione procedente, fosse perentorio.
La Corte d’appello è pervenuta alla decisione di dichiarazione di nullità del lodo
arbitrale sulla base delle seguenti motivazioni: -Anzitutto, l’eccezione di
inammissibilità del gravame sollevata dal De Nicola era infondata, in quanto il lodo
emesso dal collegio arbitrale di disciplina costituito presso l’amministrazione datrice
di lavoro era soggetto al regime di cui all’art. 59 del d.lgs n. 29/1993 nel testo
sostituito dal d.lgs n. 546/93, atteso che il relativo procedimento era stato avviato
nel vigore del contratto collettivo sottoscritto nel luglio del 1995, cioè prima che fosse
stata disposta con l’art. 28 del d.lgs n. 80/1998 la soppressione dell’istituto
dell’impugnazione delle sanzioni disciplinari dinanzi al collegio arbitrale, per cui
trattandosi di arbitrato rituale l’impugnazione non poteva che essere proposta
innanzi alla Corte d’appello ai sensi degli artt. 827 e segg. c.p.c.; inoltre, l’azione
disciplinare non era intempestiva, in quanto il termine previsto per il suo inizio, cioè
quello di venti giorni di cui all’art. 24, comma 2, del c.c.n.I del comparto Ministeri del
16 maggio 1995, non era da considerare perentorio, bensì ordinatorio; in ogni caso,
la contestazione dell’addebito era stata eseguita solo pochi giorni dopo la scadenza
di tale termine; il provvedimento espulsivo era stato correttamente adottato in

disciplina presso il Ministero delle Finanze col quale era stato posto nel nulla il

applicazione dell’art. 66, primo comma, lettera g), del c.c.n.I di riferimento che
prevedeva il licenziamento senza preavviso in relazione all’art. 67, comma 6, lettera
e), punto 3), che, a sua volta, stabiliva la massima sanzione per l’ipotesi di condanna
passata in giudicato per i delitti previsti dall’art. 3, comma 1, della legge n. 97/2001,

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il De Nicola, il quale affida
l’impugnazione a quattro motivi di censura.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Il ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli
artt. 50, 412-ter, 412 e 828 cod. proc. civ., dell’art. 59, comma 7°, del d.lgs 3/2/1993,
n. 29, dell’art. 5 della legge 11/8/1973, n. 533, dell’art. 6 del contratto collettivo
nazionale quadro in materia di conciliazione ed arbitrato del 23/1/2001 e degli artt.
1362, 1363 e 1368 cod. civ., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello ha errato a qualificare come rituale il
lodo arbitrale di cui trattasi, laddove lo stesso era da ritenere irrituale e come tale
impugnabile solo innanzi al Tribunale territorialmente competente. In particolare, la
Corte avrebbe omesso di considerare che i commi 7, 8 e 9 dell’art. 59 del d.lgs n.
29/1993 erano stati abrogati dall’art. 28 del d.lgs n. 80/1998, abrogazione ribadita
con l’art. 72, comma quinto, del d.lgs n. 165/2001, e che nel provvedimento
applicativo della sanzione era stata indicata la normativa di riferimento ai fini
dell’impugnazione, vale a dire gli artt. 412 ter e quater c.p.c. e gli artt. 4 e 6 del
CCNQ del 23/1/2001 in materia di conciliazione ed arbitrato, norme a loro volta
richiamate dal c.c.n.I delle Agenzie Fiscali del 20/2/2005. Inoltre, ai fini della
identificazione della normativa applicabile occorreva aver riguardo alla data del

2

tra i quali era annoverato anche quello ascritto al lavoratore.

provvedimento di licenziamento (3/8/2005) emesso a conclusione del procedimento
disciplinare e non a quella della comunicazione del suo inizio (24/11/1995).
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha già avuto occasione di chiarire (Cass. Sez. lav. n. 10859 del

alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in ragione di una interpretazione
letterale delle norme imposta dal tenore delle stesse, gli artt. 412 “ter e quater” cod.
proc. civ. vanno applicati unicamente agli arbitrati irrituali previsti dai contratti
collettivi. Ne consegue che gli arbitrati rituali – tra i quali va annoverato pure quello
regolato dall’art. 59, commi settimo, ottavo e nono del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29
– sono disciplinati dalle norme di cui agli artt. 827 e ss. cod. proc. civ., sicché
competente sull’impugnativa del lodo non è il tribunale nella cui circoscrizione
l’arbitrato ha avuto sede, ma la Corte d’appello nella cui circoscrizione è la sede
dell’arbitro.” (in senso conf. v. Cass. Sez. lav. n. 16772 del 9/8/2005)
Ciò premesso, va condivisa la tesi della natura rituale dell’arbitrato ex art. 59 d.lgs.
n. 29 del 1993, anche in applicazione della regola più volte ribadita da questa Corte
di Cassazione secondo cui la distinzione tra arbitrato rituale ed arbitrato irrituale
deve essere individuata pure alla luce della legge 5 gennaio 1994 n. 25 attraverso
la dicotomia giudizio-contratto, che rispettivamente li qualifica, nel senso che con il
primo le parti intendono affidare all’arbitro una funzione sostitutiva di quella propria
del giudice, mentre con il secondo esse conferiscono al suddetto arbitro il potere di
definire la controversia sul piano negoziale con una decisione riconducibile alla
volontà dei mandanti (cfr. al riguardo ex plurimis: Cass. 23 giugno 1998 n. 6248;
Cass. 16 maggio 1997 n. 4347; Cass. 4 ottobre 1994 n. 8075). Pertanto, il momento
genetico dell’arbitrato, la mancata qualifica da parte del legislatore dell’arbitrato
come irrituale (diversamente da quanto detto nell’art. 412 ter c.p.c.), gli spazi di
intervento attribuiti al Presidente del Tribunale nella nomina dei presidenti dei
collegi, l’obbligo di conformarsi alla decisione per la sola amministrazione, i criteri

24/7/2002) che “in tema di arbitrato nelle controversie relative ai rapporti di lavoro

oggettivi di rotazione dei membri e di distribuzione dei provvedimenti disciplinari
costituiscono elementi tutti che inducono ad attribuire un carattere rituale all’arbitrato
di cui all’art. 59 d.lgs. n. 29/1993, attesa anche la mancata previsione da parte del
legislatore di un intervento della contrattazione collettiva o individuale sulle

viene, invece, contemplato dal disposto dell’art. 59 bis inserito nel d.lgs. n. 29 del
1993 dall’art. 28 del d.lgs. n. 80 del 1998. 5. Dalla riconosciuta natura rituale
dell’arbitrato ex art. 59 d.lgs. 29/1993 non consegue però la competenza – nella
presente controversia di impugnativa del lodo arbitrale – del Tribunale in unico grado
ex art. 412 quater c.p.c., ma quella della Corte d’appello ai sensi dell’art. 828,
comma 1, c.p.c.
In effetti, l’art. 412 ter c.p.c. (secondo cui, esperito senza successo il tentativo di
conciliazione, le parti possono concordemente deferire ad arbitri la controversia a
patto che la contrattazione collettiva preveda tale facoltà e disciplini la devoluzione
della controversia agli arbitri, le modalità della loro nomina, le forme dell’istruttoria,
il termine entro il quale il lodo deve essere emanato e i criteri per la liquidazione dei
compensi agli arbitri), intitolato “Arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi”,
ponendo con il suo chiaro tenore letterale dei limiti che l’interprete non può superare,
induce ad accogliere la tesi che la nuova disciplina riguardi gli arbitrati di natura
irrituale previsti dalla contrattazione collettiva e non invece quelli previsti e
disciplinati dalla legge.
D’altra parte, il fatto che il successivo art. 412 quater c.p.c. (secondo cui il lodo
arbitrale è impugnabile in un termine molto ristretto davanti al tribunale nella cui
circoscrizione l’arbitrato ha avuto sede, H quale decide in un unico grado, con
sentenza soggetta al solo ricorso per cassazione) non contenga alcun riferimento,
ne’ nella rubrica, nè nel testo, all’arbitrato irrituale non significa che sia volto a fissare
un criterio generale di competenza che valga in tutti i casi di impugnativa del lodo,
a prescindere dalla fonte regolatrice (negoziale o legale) o dalla natura (rituale o

4

fissazione di regole (procedurali) da osservarsi dagli arbitri, diversamente da quanto

irrituale) dell’arbitrato. Infatti, un mero confronto della nuova disciplina con quella
del codice di procedura civile è sufficiente per evidenziare l’impossibilità di
identificare la procedura arbitrale di cui agli artt. 412 ter e quater c.p.c. con quella di
origine legale e di carattere rituale e, conseguentemente, l’inammissibilità di ogni

della norma precedente, riconoscendogli un proprio autonomo (e più esteso) ambito
applicativo.
Va evidenziato al riguardo che se si estendesse ad ogni forma di arbitrato in materia
di lavoro, e quindi anche all’arbitrato rituale, la disciplina di cui all’art. 412 quater
c.p.c. in luogo della “lex generalis” contenuta degli artt. 829 e ss. c.p.c.,
sorgerebbero consistenti dubbi di legittimità costituzionale in ragione di un notevole
calo di tutele ai danni del lavoratore. Invero, i motivi di impugnazione previsti dall’art.
829 c.p.c. non possono considerarsi inclusi nel controllo cui è soggetta, alla stregua
della nuova disciplina, la “validità” del lodo, e ciò sì tradurrebbe, appunto, in una
consistente diminuzione di garanzie per il lavoratore essendo opinione comune che
il lodo irrituale si mostra più “stabile” – in quanto più difficilmente rimovibile come
strumento di regolamentazione della controversia – del lodo rituale, che presenta di
contro una più estesa impugnabilità.
Come è noto, a seguito della riforma attuata con il d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, e
successive integrazionì e modificazioni, i rapporti individuali di impiego dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche, salve le eccezioni espressamente
previste, sono regolati contrattualmente (art. 2, comma 3, del decreto). L’art. 59,
secondo comma, dello stesso testo normativo qualifica il potere disciplinare delle
amministrazioni, nei confronti dei dipendenti “contrattualizzati”, quale attività di
gestione del rapporto di lavoro che il datore di lavoro pone in essere ai sensi dell’art.
2106 c.c. e, cioè, come si esprime l’art. 4, comma 2, “con la capacità e i poteri del
privato datore di lavoro”.

5

scelta interpretativa che intenda scindere il disposto dell’art. 412 quater da quello

Di conseguenza, la sanzione disciplinare è irrogata mediante negozio giuridico, con
il quale viene esercitato il diritto potestativo di incidere sulla sfera giuridica del
dipendente, diritto conferito all’amministrazione dalle regole del rapporto (come
determinate dal contratto o dalla legge).

dicembre 1993 n. 546), attribuisce poi al dipendente il potere di impugnare la
sanzione disciplinare o facendo ricorso alle procedure a tal fine stabilite dal contratto
collettivo owero, in difetto di tale disciplina convenzionale, dinanzi ad un organo
denominato “collegio arbitrale di disciplina” e radicato presso l’amministrazione
datrice di lavoro. Il collegio emette la sua decisione entro novanta giorni
dall’impugnazione e l’Amministrazione è tenuta a conformarsi. Durante tale periodo
“la sanzione resta sospesa”.
Con l’art. 59 bis d.lgs. n. 29 del 1993 – inserito dall’art. 28 d.lgs. 31 marzo 1998 n.
80 – si è poi introdotta la possibilità del ricorso alle procedure di conciliazione ed
arbitrato appositamente istituite dai contratti collettivi nazionali e si è altresì
riconosciuta, in assenza di tale istituzione, l’impugnabilità da parte del lavoratore
delle sanzioni disciplinari davanti al collegio di conciliazione di cui all’art. 69-bis del
d.lgs. n. 29 del 1993 (aggiunto dall’art. 32 del d.lgs. n. 80 del 1998) “con le modalità
e con gli effetti di cui all’art. 7, commi 6 e 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300”.
Orbene, per le numerose ragioni sopra esposte, all’arbitrato disciplinato dall’art. 59
d.lgs. n. 29/1993 va riconosciuta la natura di arbitrato rituale.
A diverse conclusioni deve, di contro, pervenirsi in relazione all’arbitrato regolato dal
successivo art. 59 bis, dovendosi riconoscere allo stesso la natura di arbitrato
irrituale. Come si evince, infatti, dal contenuto dell’art. 412 ter alla contrattazione
collettiva è stato demandato in materia di disciplina di arbitrato irrituale quanto con
riferimento all’arbitrato rituale viene stabilito con legge. Per di più a dimostrazione
della natura irrituale dell’arbitrato ex art. 59 bis milita il richiamo operato da questa
norma all’art. 7, commi 6 e 7, della legge 20 maggio 1970 diretto a regolare – con

6

Il comma 7 dello stesso articolo 59 (nel testo sostituito dall’art. 27 del d.lgs. 23

riguardo alle sanzioni disciplinari comminate ai lavoratori privati – una procedura,
dalla dottrina e dalla giurisprudenza, qualificata come di arbitrato irrituale, in linea
con un sistema di risoluzione della controversie che trova largo seguito nel settore
giuslavoristico (cfr. al riguardo anche art. 7 I. 11 luglio 1966 n. 604; art. 5 I. 11 maggio

1251 cit.).
Corollario della argomentazioni sinora svolte è che essendo irrituale l’arbitrato cui si
riferiscono gli artt. 412 ter e quater c.p.c. dette norme vanno applicate a quegli
arbitrati aventi natura negoziale (in quanto regolati da accordi o contratti collettivi) e
non, invece, agli arbitrati che, come quello di cui all’art. 59 d.lgs. n. 29/1993, hanno
come si è avuto occasione più volte di ribadire natura rituale e per i quali
l’impugnativa per nullità del lodo è assoggettata alle regole generali di cui di cui agli
artt. 827 e ss. c.p.c.
E nella fattispecie in esame – come emerge dagli atti del giudizio – si vede proprio
in un caso di lodo arbitrale disciplinato alla stregua della disciplina legale dettata
dall’art. 59 del d.lgs. n. 29 del 1993.
Pertanto, il convincimento della Corte territoriale in ordine alla natura rituale del lodo
oggetto di causa è basato sulla corretta riconduzione dello stesso alla disciplina di
cui all’art. 59 del d.lgs n. 29/1993 vigente “ratione temporis” all’epoca in cui iniziava
il procedimento disciplinare, il cui provvedimento conclusivo veniva
successivamente sottoposto all’esame del collegio arbitrale. Né ha pregio la tesi,
sostenuta col ricorso, per la quale occorreva far riferimento all’epoca
dell’emanazione del provvedimento espulsivo per poter stabilire la normativa
procedimentale applicabile, osservandosi, al contrario, che correttamente la Corte
d’appello ha individuato il momento iniziale del procedimento disciplinare come
quello che consentiva di radicare la normativa applicabile “ratione temporis” al caso
di specie. Tale interpretazione è esente da rilievi di carattere logico-giuridico in
quanto fonda su un dato cronologico incontrovertibile il momento di riferimento della

1990 n. 108) (in tali sensi vedi in motivazione: Cass., Sez. Un., 5 dicembre 2000 n.

normativa applicabile, vale a dire l’inizio del procedimento disciplinare, la cui
trattazione sotto la vigenza di una normativa certa sin dal suo sorgere garantiva una
uniforme applicazione della relativa procedura per la sua intera durata e forniva al
lavoratore la certezza di poter far valere sin da allora secondo quelle regole le sue

arbitrale in questione non era da annoverare tra quelli irrituali previsti dai contratti
collettivi, trattandosi di arbitrato rituale riconducibile alla disciplina di cui all’art. 59,
del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, trovavano applicazione, ai fini dell’impugnazione,
le norme di cui agli artt. 827 e segg. cod. proc. civ.
2. Col secondo motivo, proposto per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,
827, 828 e 829 c.p.c., nonché per difetto di motivazione in ordine ad un punto
decisivo della controversia, il ricorrente si duole del fatto che l’appello era stato
ritenuto ammissibile nonostante l’Amministrazione appellante non avesse indicato i
motivi specifici di censura posti a base della richiesta di dichiarazione di nullità del
lodo. Aggiunge il ricorrente che la rilevata inosservanza del termine perentorio per
l’avvio del procedimento disciplinare non era stata la sola ragione che aveva
comportato l’annullamento del licenziamento, in quanto era stato ritenuto violato
anche il principio dell’affidamento riposto dal lavoratore nelle trattative precedenti al
giudizio, trattative che avevano lasciato intendere che l’amministrazione era
propensa ad adottare solo misure conservative del rapporto di lavoro, senza che
una tale motivazione fosse stata esaminata dai giudici d’appello.
Il motivo è, anzitutto, inammissibile nella parte iniziale, in quanto il ricorrente non
illustra, in omaggio al principio di autosufficienza che presiede al giudizio di
legittimità, i motivi dedotti dalla controparte che a suo giudizio sarebbero stati privi,
in relazione al caso in esame, del carattere della specificità ai fini dell’ammissibilità
dell’impugnazione, li motivo è, invece, infondato nella restante parte in quanto la
natura dirimente della decisione del collegio arbitrale sulla ritenuta intempestività
della contestazione è stata giustamente esaminata in via pregiudiziale dai giudici

8

ragioni nella sede competente. Quindi, una volta accertato che il procedimento

d’appello, i quali hanno, altresì, valutato il merito della questione attinente al
supposto affidamento sulle trattative precedenti al giudizio, giudicandola infondata.
Infatti, con motivazione congrua ed esente da rilievi di carattere logico-giuridico, i
giudici d’appello hanno evidenziato che la sospensione dal servizio convenuta

del c.c.n.l. di riferimento, bensì una semplice misura cautelare adottata in pendenza
del procedimento penale ai sensi dell’art. 27 del c.c.n.l., per cui non era invocabile
il principio dell’affidamento, né quello della consumazione del potere disciplinare.
3. Col terzo motivo, dedotto per violazione e falsa applicazione dell’art. 66 del c.c.n.l.
del compatto Agenzie Fiscali del 2002/2005, dell’art. 49 del D.Lgs n. 165/2001 e
dell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, nonché per difetto di
motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, il ricorrente censura
la decisione sul punto della ritenuta mancanza del carattere della perentorietà del
termine di giorni venti previsto dalla contrattazione collettiva per la contestazione
dell’addebito disciplinare, dolendosi, altresì, del fatto che i giudici d’appello non
avevano tenuto conto della circostanza per la quale in calce al provvedimento di
licenziamento l’amministrazione procedente aveva indicato come normativa di
riferimento quella di cui al c.c.n.I del 2002/2005 che qualificava il termine in
questione come perentorio, così fugando ogni residuo dubbio sulla equivoca
disposizione dell’art. 24 del precedente contratto collettivo.
Il motivo è infondato.
Anzitutto è inconferente, ai fini della valutazione della perentorietà del termine di cui
trattasi, il richiamo operato alla contrattazione collettiva successiva a quella ritenuta
“ratione temporis” applicabile dai giudici d’appello, i quali, come si è già spiegato,
nel corretto esercizio del loro potere di individuazione della normativa applicabile,
hanno ricondotto la disciplina del caso in esame a quella dell’epoca di vigenza del
contratto collettivo del luglio del 1995 allorquando aveva inizio il procedimento
disciplinare oggetto di causa, a nulla potendo rilevare la circostanza della mera

9
Afv-

nell’accordo conciliativo non costituiva una sanzione disciplinare ai sensi dell’art. 66

elencazione nell’atto di recesso dei contratti collettivi succedutisi dal 1995 alla data
del licenziamento.
Inoltre, la sentenza impugnata è, in diritto, conforme alla giurisprudenza di questa
Corte (Cass. Sez. lav. n. 8850/2013, Cass. Sez. lav. 9 marzo 2009, n.5637) che, in

che il termine di venti giorni per la contestazione dell’addebito, previsto dall’art. 24,
comma 2, del contratto collettivo del comparto Ministeri del 16 maggio 1995, non è
perentorio, sicchè la sua inosservanza non comporta un vizio della sanzione finale,
atteso che in un assetto disciplinare contrattualizzato gli effetti decadenziali non
possono verificarsi in mancanza di una loro espressa previsione normativa o
contrattuale, mentre la natura contrattuale dei termini induce a valutarne
l’inosservanza nella prospettiva del corretto adempimento di obblighi contrattuali, la
cui mancanza è rilevante per gli effetti e nei limiti previsti dall’accordo delle parti e
dai principi generali in materia di adempimento. Né, in senso contrario, rileva
l’aggiunta, operata con l’art. 12 del c.c.n.l. del comparto Ministeri 2002 — 2005, di un
nuovo comma 10 all’art. 24 del c.c.n.l. del 1995, con il quale è stata attribuita natura
perentoria anche al termine iniziale del procedimento disciplinare, dovendosi
ritenere, attesa la mancanza di ogni riferimento all’avvenuta insorgenza di
controversie di carattere generale sull’interpretazione della norma collettiva, che la
nuova disposizione non costituisca norma pattizia di interpretazione autentica, di
portata sostitutiva della clausola controversa con efficacia retroattiva, ma integri una
modifica, come tale operante soltanto in riferimento alle vicende successive
all’entrata in vigore del c.c.n.l. con il quale è stata pattuita. (Cfr. anche Cass. Sez.
lav. 2 ottobre 2007, n. 20654, che, sempre in tema di procedimento disciplinare nei
confronti di dipendente pubblico, ha ritenuto che il termine di venti giorni tra
conoscenza del fatto e contestazione dell’addebito previsto dall’art. 24 del contratto
collettivo del comparto ministeri ha natura ordinatoria, avendo le parti indicato un

10

fri)

tema di sanzioni disciplinari nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, ha affermato

processo di tempestività consentendone tuttavia un’elastica dilatazione per
accertamenti necessari al fine di una compiuta conoscenza del fatto).
4. Col quarto motivo, attraverso il quale si denunzia la violazione e falsa
applicazione degli artt. 66 e 67 del c.c.n.l. del comparto delle Agenzie Fiscali del

il difetto di motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, ci si
lamenta del fatto che la Corte d’appello non avrebbe considerato l’eccezione tramite
la quale si era dedotto che la sanzione espulsiva si sarebbe potuta applicare solo in
caso di condanna a pena reclusiva superiore ai tre anni. Quindi, secondo il
ricorrente, la Corte non avrebbe dovuto limitarsi a considerare la fattispecie
delittuosa ma avrebbe dovuto estendere l’indagine a tutti gli altri elementi della
fattispecie concreta al fine di individuare la sanzione proporzionata all’entità
dell’illecito contestato.
Il motivo è infondato. Invero, la norma di cui all’art. 3, comma 1, della legge 27 marzo
2001, n.97 (concernente le norme sul rapporto tra procedimento penale e
procedimento disciplinare e sugli effetti del giudicato penale nei confronti dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche), richiamata dalla fonte contrattuale
regolante la fattispecie in esame, non contiene alcun riferimento alla ricorrenza del
requisito della pena detentiva superiore a tre anni che, invece, il ricorrente tenta
infondatamente di accreditare come condizione per l’applicazione della sanzione
espulsiva, tant’è vero che la stessa norma si limita ad indicare i reati per i quali la
contrattazione collettiva stabilisce il licenziamento. Né ha pregio la doglianza
concernente l’asserita mancanza di valutazione degli altri elementi del caso di
specie ai fini della verifica del rispetto del principio di proporzionalità della sanzione,
atteso che la Corte ha evidenziato i vari passaggi della vicenda penale che
condussero alla pronuncia irrevocabile di condanna per la quale la contrattazione
collettiva prevedeva il licenziamento ed ha spiegato che non poteva essere invocato
il principio dell’affidamento riposto sull’aspettativa di una pena di tipo conservativo.

11

p>

2002/2005, dell’art. 97 della Costituzione e della legge n. 97 del 27/3/2001, nonchè

Tale affidamento, che sarebbe scaturito dall’adozione del provvedimento cautelare
di sospensione, non poteva sussistere secondo i giudici d’appello in quanto le
trattative che lo avevano preceduto avevano riguardato esclusivamente la fase del
tentativo obbligatorio di conciliazione, fase durante la quale la pubblica

in attesa dell’esito del giudizio penale.
Pertanto, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno
liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del giudizio nella misura
di € 4000,00 per compensi professionali e di € 50,00 per esborsi, oltre accessori di
legge.
Così deciso in Roma il 5 giugno 2013
Il Consigliere estensore

amministrazione procedente aveva solo in via cautelativa disposto la sospensione

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA