Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21349 del 14/09/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 14/09/2017, (ud. 08/06/2016, dep.14/09/2017),  n. 21349

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3825-2015 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliato in Roma, via Tagliamento

n. 55, presso lo studio dell’Avvocato Nicola Di Pierro,

rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso,

dall’Avvocato Michele Magaddino;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi. N. 12, presso

l’Avvocatura generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per

legge;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 1163/2014 della Corte d’appello di

Caltanissetta, depositato il 10 settembre 2014.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza dell’8

giugno 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Che C.G., con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Caltanissetta, chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’indennizzo dovuto per la violazione della ragionevole durata di una procedura fallimentare iniziata con sentenza dell’8 novembre 1994, dichiarativa del fallimento della (OMISSIS) s.r.l., al cui passivo egli era stato ammesso per un credito di L. 59.678.009; procedura ancora pendente alla data della domanda;

che l’adita Corte d’appello rigettava la domanda sul rilievo che il fallimento era privo di attivo, pur se il curatore si era tempestivamente attivato per il recupero dei crediti dei quali era possibile prevedere il soddisfacimento;

che, rilevava la Corte, non potendosi addebitare alcun ritardo agli organi della procedura, la cui durata dipendeva da fattori esterni, non era ravvisabile alcun paterna per il protrarsi della procedura, atteso che il ricorrente avrebbe dovuto essere ben consapevole della impossibilità di recuperare il proprio credito chirografario, con conseguente insussistenza di un pregiudizio risarcibile;

che per la cassazione di questo decreto il C. ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo;

che il Ministero della giustizia ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;

che con l’unico motivo di ricorso il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1, dell’art. 6, par. I, della CEDU e dell’art. 12 preleggi, nonchè insufficiente motivazione, sostenendo che la Corte d’appello avrebbe del tutto vanificato il canone di ragionevole durata del processo, applicabile anche alle procedure fallimentari, non potendosi attribuire alcun rilievo al fatto che il fallimento fosse privo di attivo;

che il ricorso è fondato;

che, invero, non vi è dubbio che anche le procedure fallimentari, e non solo nel caso in cui si abbia riguardo alla posizione del fallito, ma anche nel caso in cui venga rilievo la posizione dei creditori insinuati al passivo, sono soggette al principio di ragionevole durata del processo; che questa Corte ha affermato il principio per cui “in tema di equa riparazione per la violazione del tetinine di durata ragionevole del processo, a norma della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, la durata delle procedure fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo, è di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni caso, per quelle notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, la particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc.), la proliferazione di giudizi connessi o la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può superare la durata complessiva di sette anni” (Cass. n. 8468 del 2012; Cass. n. 9254 del 2012);

che la Corte d’appello si è discostata da tale principio atteso che, pur in presenza di una procedura fallimentare protrattasi per circa diciotto anni alla data della domanda, ha escluso la sussistenza di un pregiudizio per il creditore sia per la non imputabilità di ritardi agli organi della procedura, sia per la inesistenza di un attivo realizzabile nel corso della procedura, essendosi questa protratta in attesa dell’esito di due procedure esecutive immobiliari, il cui esito sfavorevole era certamente prevedibile;

che, in particolare, la Corte d’appello ha ritenuto che il creditore avrebbe dovuto essere consapevole delle scarse possibilità di soddisfazione del proprio credito;

che, in tal modo, la Corte d’appello ha omesso di considerare che “in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: sicchè, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale “in re ipsa” – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione -, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente. Siffatta lettura della norma di legge interna – oltre che ricavabile dalla ratio giustificativa collegata alla sua introduzione, particolarmente emergente dai lavori preparatori (dove è sottolineata la finalità di apprestare in favore della vittima della violazione un rimedio giurisdizionale interno effettivo, capace di porre rimedio alle conseguenze della violazione stessa, analogamente alla tutela offerta nel quadro della istanza internazionale) – è imposta dall’esigenza di adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo (alla stregua della quale il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata dimostrata detta violazione dell’art. 6 della Convenzione, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via presuntiva), così evitandosi i dubbi di contrasto con la Costituzione italiana, la quale, con la specifica enunciazione contenuta nell’art. 111, tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona, sulla scia di quanto previsto dalla norma convenzionale” (Cass., S.U., n. 1338 del 2004);

che il ricorso deve essere quindi accolto, con conseguente cassazione del decreto impugnato e con rinvio alla Corte d’appello di Caltanissetta perchè, in diversa composizione, proceda a nuovo esame della domanda alla luce degli enunciati principi di diritto, nonchè alla regolamentazione delle spese del giudizio di Cassazione.

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6^ – 2^ Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2017

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