Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21304 del 05/10/2020

Cassazione civile sez. lav., 05/10/2020, (ud. 13/02/2020, dep. 05/10/2020), n.21304

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13507-2016 proposto da:

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia

ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– ricorrente –

contro

F.A., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato LAURA GIOVANNACCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 151/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 18/02/2016 R.G.N. 250/2015.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. con la sentenza impugnata la Corte di appello di Firenze confermava la pronuncia del Tribunale di Arezzo che aveva riconosciuto in favore di F.A., docente che aveva stipulato plurimi contratti a termine, le differenze retributive dovute sulla base della ricostruzione della carriera con il computo dell’anzianità maturata (gradoni) in virtù di detti contratti;

evidenziava la Corte territoriale che, nonostante il chiesto riconoscimento dell’anzianità pregressa non fosse ricompreso nell’originario petitum, tuttavia, a seguito della rinuncia della F. a far valere la domanda di conversione dei contratti (per l’intervenuta stabilizzazione nelle more), il Tribunale aveva dato ingresso a tale nuova domanda e sul punto il Ministero non aveva proposto alcun motivo di gravame;

riteneva che sussistesse la lamentata discriminazione a fronte della mancanza di ragioni oggettive per un trattamento differenziato;

escludeva che fosse maturata la prescrizione tra un contratto a termine e l’altro richiamando Cass., Sez. Un., n. 575/2003 e rilevando che il ricorso di primo grado era stato proposto quando l’ultimo contratto era ancora in corso;

2. avvero tale sentenza il MIUR ha proposto ricorso per cassazione con due motivi;

3. la controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

1. con il primo motivo di ricorso il Miur denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.c., dell’art. 2948c.c., n. 4, dell’art. 2955c.c., n. 2, dell’art. 2956 c.c., n. 1, nonchè degli artt. 2941 e 2942 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3);

censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che la prescrizione non corra in caso di rapporti a termine stipulati con la pubblica Amministrazione;

richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 143 del 1969) secondo cui il principio del metus datoriale non trova applicazione in relazione ai rapporti di pubblico impiego in ragione della sussistenza di efficaci rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione;

assume, in particolare, che i principi richiamati dalla Corte territoriale non sono applicabili ai rapporti di impiego pubblico, perchè il dipendente pubblico, a differenza di quello privato, non è mai esposto a ritorsioni o rappresaglie quando agisce in sede giudiziale per la tutela di propri diritti ed interessi;

rileva che la stipulazione di contratti a termine è normativamente prevista quale condizione per l’immissione in ruolo, mediante l’attribuzione di un punteggio progressivo nell’apposita graduatoria in ragione del numero e della durata degli incarichi svolti il che è significativo dell’assenza di qualsivoglia metus;

2. con il secondo motivo il MIUR denuncia violazione e falsa applicazione della direttiva del Consiglio 99/70/CE e dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato ivi allegato, del D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 485, 486 e 526, del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, artt. 6 e 10, del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 9, comma 18, come convertito con modif. dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, art. 1, comma 2, della L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 4, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 36 e 45, degli artt. 77, 79 e 106 del C.C.N.L. comparto scuola del 29 novembre 2007 (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3);

censura l’affermata violazione del principio di non discriminazione assumendo che: – i rapporti di lavoro a tempo determinato del settore scolastico sono assoggettati ad una normativa speciale di settore, sicchè agli stessi non si applica la disciplina generale dettata dal D.Lgs. n. 368 del 2001; – il principio di non discriminazione è correlato all’abuso del contratto a termine, che nella specie deve essere escluso in quanto il ricorso alla supplenza e alla stipula di contratti a termine del personale scolastico trova giustificazione in ragioni oggettive e non è maliziosamente finalizzato a consentire al datore di lavoro un risparmio di spesa; – non è ravvisabile l’insussistenza di ragioni oggettive atte a giustificare il diverso trattamento economico, poichè il ricorso a supplenze non deriva da una scelta discrezionale dell’amministrazione ma da esigenze obiettive di gestione del rapporto di lavoro nel particolare settore;

2. ragioni di ordine logico impongono l’esame prioritario del secondo motivo di ricorso;

tale motivo non è fondato, osservandosi, in conformità con Cass. n. 22558/2016; Cass. n. 27387/2016; Cass. n. 165/2017; Cass. n. 290/2017, (alle cui motivazioni ci si riporta integralmente in quanto del tutto condivise), che il Ministero ricorrente sovrappone e confonde il principio di non discriminazione, previsto dalla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (concluso il 18 marzo 1999 fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale – CES, CEEP e UNICE – e recepito dalla Direttiva 99/70/CE), con il divieto di abusare della reiterazione del contratto a termine, oggetto della disciplina dettata dalla clausola 5 dello stesso Accordo, laddove i due piani debbono, invece, essere tenuti distinti, essendo il primo principio teso a “migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione” e il divieto volto, invece, a “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”;

2.1. l’obbligo posto a carico degli Stati membri di assicurare al lavoratore a tempo determinato “condizioni di impiego” che non siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo indeterminato “comparabile”, sussiste, quindi, a prescindere dalla legittimità del termine apposto al contratto, giacchè detto obbligo è attuazione, nell’ambito della disciplina del rapporto a termine, del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione che costituiscono “norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela” (Corte di Giustizia 9.7.2015, causa C- 177/14, Regojo Dans, punto 32);

2.3. la clausola 4 dell’Accordo quadro è stata più volte oggetto di esame da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha affrontato tutte le questioni rilevanti nel presente giudizio rilevandone il carattere incondizionato idoneo alla disapplicazione di qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte di Giustizia 15.4.2008, causa C268/06, Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana) ed affermando la esclusione di ogni interpretazione restrittiva, non potendo la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137, n. 5, del Trattato (oggi 153 n. 5), “impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorchè proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42);

2.4. la CGUE ha evidenziato che le maggiorazioni retributive che derivano dalla anzianità di servizio del lavoratore costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata) e che a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, nè rilevando la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perchè la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C302/11 e C305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C393/11, Bertazzi);

2.5. l’interpretazione delle norme Eurounitarie è riservata alla Corte di Giustizia, le cui pronunce hanno carattere vincolante per il giudice nazionale – che può e deve applicarle anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa – e valore di ulteriore fonte del diritto della Unione Europea, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito dell’Unione (si veda in tal senso Cass. 8 febbraio 2016, n. 2468);

2.6. correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha richiamato le statuizioni della Corte di Lussemburgo per escludere la conformità al diritto Eurounitario delle clausole dei contratti collettivi nazionali per il compatto scuola, succedutisi nel tempo, in forza delle quali per il personale docente ed educativo non di ruolo era escluso il riconoscimento della anzianità di servizio, previsto per gli assunti a tempo indeterminato in base ad un sistema di progressione stipendiale secondo fasce di anzianità;

2.7. anche in questa sede il Ministero, pur affermando l’esistenza di condizioni oggettive a suo dire idonee a giustificare la diversità di trattamento, ha fatto leva su circostanze che prescindono dalle caratteristiche intrinseche delle mansioni e delle funzioni esercitate, le quali sole potrebbero legittimare la disparità, insistendo, infatti, sulla natura non di ruolo del rapporto di impiego e sulla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, ossia su ragioni oggettive che legittimano il ricorso al contratto a tempo determinato e che rilevano ai sensi della clausola 5 dell’Accordo Quadro, da non confondere, per quanto sopra si è già detto, con le ragioni richiamate nella clausola 4, che attengono, invece, alle condizioni di lavoro che contraddistinguono i due tipi di rapporto in comparazione, in ordine alle quali nulla ha dedotto il ricorrente;

3. è, invece, fondato il primo motivo di ricorso in relazione al quale il Collegio intende dare continuità all’orientamento già espresso da questa Corte (v. Cass. n. 8996/2018 e Cass. 20918/2019) in relazione a fattispecie sovrapponibili a quella oggetto di causa;

3.1. non è (più) in discussione la legittimità dei termini apposti ai singoli contratti, sicchè rileva il principio affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 575/2003 secondo cui “nel caso che tra le stesse parti si succedano due o più contratti di lavoro a termine, ciascuno dei quali legittimo ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi, di cui all’art. 2948 c.c., n. 4, art. 2955 c.c., n. 2, e art. 2956 c.c., n. 1, inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento, dovendo – ai fini della decorrenza della prescrizione – i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la tassatività della elencazione delle cause sospensive previste dagli artt. 2941 e 2942 c.c., e la conseguente impossibilità di estendere tali cause al di là delle fattispecie da quest’ultime norme espressamente previste”;

3.2. con la richiamata pronuncia le Sezioni Unite hanno osservato che il metus, ritenuto dal Giudice delle leggi motivo decisivo per addivenire alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, presuppone l’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato nel quale non sia prevista alcuna garanzia di continuità;

invece, nel contratto a termine legittimamente stipulato, poichè il lavoratore ha solo diritto a che il rapporto venga mantenuto in vita sino alla scadenza concordata e l’eventuale risoluzione ante tempus non fa venir meno alcuno dei diritti derivanti dal contratto, non è configurabile quel metus costituente ragione giustificatrice della regolamentazione della prescrizione nel rapporto a tempo indeterminato non assistito dal regime di stabilità reale (negli stessi termini Cass. n. 8996/2018 cit., Cass. n. 14827/2018; Cass. n. 22146/2014);

3.3. il principio, che deve essere qui ribadito, è assorbente ed esime il Collegio dall’affrontare le ulteriori questioni poste dal ricorso, che fa leva sulla natura del datore di lavoro per sostenere l’applicabilità anche all’impiego pubblico contrattualizzato di quanto affermato dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 143 del 1969, in relazione ai rapporti di impiego di diritto pubblico;

4. da tanto consegue che va accolto il primo motivo di ricorso e rigettato il secondo;

la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’appello di Firenze che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato al punto 3.1.;

5. al giudice del rinvio è demandato altresì il regolamento delle spese del giudizio di legittimità;

6. l’accoglimento del ricorso rende inapplicabile il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza Camerale, il 13 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2020

 

 

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