Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21301 del 09/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 09/08/2019, (ud. 04/06/2019, dep. 09/08/2019), n.21301

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8585-2017 proposto da:

D.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L.

MANTEGAZZA 24, presso lo studio dell’avvocato CARLO GARDIN,

rappresentato e difeso dall’avvocato CATALDO BALDUCCI;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO

25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1855/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 30/09/2016 R.G.N. 2106/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/06/2019 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO CARMELO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Lecce, con sentenza resa pubblica il 30/9/2016, dichiarava inammissibile la domanda proposta da D.V. nei confronti di Poste Italiane s.p.a. intesa a conseguire il risarcimento del danno biologico risentito per effetto del comportamento discriminatorio, repressivo e persecutorio posto in essere dalla società datoriale in violazione dei precetti sanciti dall’art. 2087 c.c. e D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 3, così riformando la sentenza n. 2235/2013 emessa dal Tribunale di Brindisi che aveva accolto la domanda a tale titolo formulata dal lavoratore, condannando la parte datoriale al pagamento della somma di Euro 10.000,00.

Nel pervenire a tale convincimento la Corte di merito argomentava, in via di premessa ed in estrema sintesi, che il diritto era stato in origine azionato dal lavoratore nei confronti di Poste Italiane s.p.a. mediante ricorso dichiarato inammissibile dall’adito Tribunale di Brindisi, con sentenza (n. 354/2008) che non era stata sul punto oggetto di impugnazione.

A fondamento del decisum si era osservato in quella pronunzia, che il giudizio di inammissibilità del ricorso era conseguito alla incongrua formulazione dell’atto introduttivo di quel giudizio, in cui il danno biologico era stato chiesto tout court, e non in forma di danno differenziale come richiesto dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13; si era ritenuto che la domanda fosse stata formulata in termini generici, in mancanza di allegazione e prova dell’esistenza di un residuo danno biologico non risarcito dall’Istituto.

La Corte distrettuale, nel procedere ad interpretazione della summenzionata pronuncia, deduceva tuttavia che la statuizione di inammissibilità della sentenza non poteva essere intesa come decisione, in rito, ma andava qualificata in termini di rigetto nel merito; il giudicante aveva infatti dato atto della circostanza che il ricorso introduttivo recava una sufficiente esposizione dei fatti – comuni a quelli allegati ed in seguito provati – posti a fondamento delle ulteriori domande di ristoro del danno alla professionalità, che avevano rinvenuto successivamente positivo riscontro, di guisa che non appariva ragionevole ritenere che il Tribunale avesse inteso dichiarare la nullità della domanda, nè dare atto dell’assenza di una condizione di proponibilità o di vizi processuali nella sua introduzione, con pronuncia in rito, ma che avesse emesso una sentenza di rigetto del ricorso nel merito.

Pertanto, marcata l’identità di petitum e di causa petendi fra il pregresso giudizio e quello azionato nella presente sede, in coerenza con le esposte premesse in diritto, la Corte distrettuale dichiarava inammissibile la domanda proposta col ricorso introduttivo del giudizio.

La cassazione di tale decisione è domandata da D.V. sulla base di unico motivo cui resiste con controricorso la società Poste Italiane.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con unico motivo si denuncia violazione dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si deduce che la pronuncia impugnata non sia coerente con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità alla cui stregua la sentenza dichiarativa della inammissibilità della domanda ha natura meramente processuale e come tale, non è idonea alla formazione del giudicato.

La pronuncia in rito dà luogo solo ad un giudicato formale con la conseguenza che essa produce effetto limitato al solo rapporto processuale nel cui ambito è emanata non è idonea a produrre gli effetti del giudicato in senso sostanziale.

2. Il motivo non è fondato.

Occorre premettere che l’istituto del giudicato, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del “ne bis in idem”, è volto ad assicurare il canone della certezza, in cui si “risolve la funzione primaria del processo, che è quella di stabilire “la regola del caso concreto”, eliminando – mediante la stabilità della decisione – l’incertezza riguardo all’applicazione di una norma di diritto ad una specifica fattispecie: sicchè proprio perchè assolve a questa fondamentale esigenza dell’ordinamento, il giudicato non è patrimonio esclusivo dei diritti delle parti, ma risponde ad un preciso interesse pubblico” (Cass. SS.UU. 16/6/2006 n. 13916).

Sulla scia dei principi enunciati, si sono espresse ancora le Sezioni unite in base al rilievo, ritenuto determinante, secondo cui “il giudicato va assimilato agli “elementi normativi”, cosicchè la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici, essendo sindacabili sotto il profilo della violazione di legge gli eventuali errori interpretativi” (vedi Cass. S.U. 28/11/2007 n. 24664).

Nell’ottica descritta, è stato specificato che la sua interpretazione deve effettuarsi alla stregua dell’esegesi delle norme, non già degli atti e dei negozi giuridici, e la sua portata va definita dal giudice sulla base di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, potendosi far riferimento, in funzione interpretativa, alla domanda della parte solo in via residuale qualora, all’esito dell’esame degli elementi dispositivi ed argomentativi di diretta emanazione giudiziale, persista un’obiettiva incertezza sul contenuto della statuizione (ex plurimis, Cass. 13/10/2017 n. 24162Cass. 10/12/2015 n. 24952).

3. In particolare, con riferimento al rito del lavoro, questa Corte ha affermato il principio, che va qui ribadito, secondo cui, allorquando la motivazione della sentenza si limiti alla mera esplicitazione di statuizioni già sostanzialmente argomentabili dalla struttura logico – semantica del dispositivo, non può invocarsi il principio della non integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza (principio che presuppone l’effettiva carenza nell’uno di statuizioni rinvenibili formalmente solo nell’altra), bensì bisogna fare riferimento all’altro principio per il quale la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione, le cui enunciazioni, se dirette univocamente all’esame di una questione dedotta in causa, incidono sul momento precettivo e vanno considerate come integrative del contenuto formale del dispositivo, con la conseguenza che il giudicato risulta simmetricamente esteso (vedi ex aliis, Cass. 5/4/2004 n. 6635, Cass. 21/6/2016 n. 12841).

Pertanto il dispositivo può essere interpretato non solo autonomamente nel suo interno contenuto e nell’ambito del rapporto fra le relative statuizioni bensì con l’ausilio della motivazione. Ed invero, la rilevanza “esterna” del dispositivo, non esclude che, come ogni atto di tal natura, sia suscettibile di interpretazione attraverso atti ad esso collegati; e a ciò non è di ostacolo la struttura del processo del lavoro, che prevede la separazione temporale fra lettura del dispositivo e deposito della motivazione. Questa separazione non consente di dare ingresso (con una difforme motivazione) ad una successiva volontà del giudicante, diversa ed in contrasto con la preesistente, ma non esclude, tuttavia, di dare ingresso a successivi strumenti di lettura della preesistente manifestazione, ed in tal modo leggere il precedente atto anche attraverso quello successivo (vedi in motivazione, Cass. cit. n. 6635/2004).

In ragione dei principi esposti, considerato che nello specifico non sussiste una relazione di incompatibilità fra la parte motiva e quella dispositiva della sentenza passata in giudicato, compete, quindi, a questa Corte, mediante esame della sentenza ritualmente versata in atti in forma integrale, non più soggetta ad impugnazione, verificare se la stessa costituisca giudicato esterno rilevante rispetto al presente giudizio, sì da riverberare i suoi effetti ex art. 2909 c.c..

Si tratta in particolare di stabilire se il Tribunale di Brindisi, nella sentenza n. 354/2008 di cui si è fatta menzione in espositiva, abbia adottato una decisione in rito, tale da non consumare l’azione, e così da consentire all’originaria attrice di promuovere un nuovo giudizio uguale al precedente, avuto riguardo agli elementi di identificazione della domanda (giacchè la pronuncia “in rito” dà luogo soltanto al giudicato formale, con la conseguenza che essa produce effetto limitato al solo rapporto processuale nel cui ambito è emanata e, pertanto, non è idonea a produrre gli effetti del giudicato in senso sostanziale: p. es. Cass. 16/12/2014 n. 26377), ovvero abbia statuito sul merito della controversia, rigettando, al di là della formula utilizzata in dispositivo, la domanda spiegata dal lavoratore, così da precludere la sua riproposizione in forza del combinato disposto dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c..

4. Orbene, dal tenore della pronuncia richiamata è evincibile come il Tribunale non abbia inteso dichiarare la nullità del ricorso introduttivo per l’assenza di condizioni dell’azione o per ulteriori ostacoli procedurali alla emanazione di una pronuncia nel merito, nè in ragione della carenza di elementi idonei ad identificare la domanda nei suoi elementi costitutivi.

Sotto tale profilo, è bene, infatti rammentare che secondo i dicta di questa Corte, ai quali va data continuità, per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda stessa, non è sufficiente l’omessa indicazione formale dei detti elementi, ma è invece necessario che ne sia impossibile la individuazione attraverso l’esame complessivo dell’atto, potendo a tal fine farsi utile riferimento anche al contenuto dei mezzi istruttori dedotti (vedi per tutte, Cass. 3/4/2003 n. 5220, Cass. 16/5/2002 n. 7137).

Nello specifico, va invece rimarcato come nella parte motiva della sentenza n. 354/2008, il giudicante abbia dato atto della adeguata esposizione in sede di ricorso introduttivo, dei fatti conseguenti a condotte vessatorie poste in essere dalla parte datoriale, fatti che avevano consentito di pervenire all’accoglimento delle ulteriori domande di risarcimento del danno alla professionalità e del danno esistenziale formulate dal lavoratore, osservando, tuttavia come quegli stessi rilievi, con riferimento alla domanda di risarcimento del danno biologico da mobbing, non fossero corredati dalla l’indicazione della misura della responsabilità ascrivibile al datore di lavoro, considerato l’esonero sancito dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 a tal fine reputando insufficiente il mero richiamo disposto da parte ricorrente, all’art. 2087 c.c..

Detti elementi, non consentono di qualificare la domanda proposta in quel giudizio, secondo la tesi accreditata da parte ricorrente, nei termini di una pronuncia in rito, bensì di una sentenza di rigetto nel merito.

In tal senso gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale – che nell’esegesi della sentenza coperta dal giudicato si è attenuta ai principi sopra enunciati – si sottrae alla formulata censura.

5. Alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Il governo delle spese del presente giudizio di legittimità segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

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