Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21294 del 14/10/2011

Cassazione civile sez. III, 14/10/2011, (ud. 28/09/2011, dep. 14/10/2011), n.21294

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17730/2009 proposto da:

S.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZALE DON MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato

MARTUCCELLI Carlo, che lo rappresenta e difende giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

G.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA N. PAGANINI 1, presso lo studio dell’avvocato CLARIZIA

Renato, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

LLOYD’S OF LONDON (OMISSIS) Rappresentanza Generale per l’Italia

in persona del Procuratore Avv. C.S., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 278, presso lo studio

dell’avvocato FERRARO MARCO, che la rappresenta e difende unitamente

all’avvocato ROBERTO BAGNARDI giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3206/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/07/2008, R.G.N. 3645/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/09/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito l’Avvocato CARLO MARTUCCELLI;

udito l’Avvocato STEFANO GIOVE per delega;

udito l’Avv. RENATO CLARIZIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. S.S. propone ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati con memoria, avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 23 luglio 2008, che confermava quella di primo grado, la quale, a sua volta, aveva respinto, per intervenuta prescrizione, la domanda di risarcimento dei danni patiti a seguito dell’erroneo diniego, frapposto dal notaio G., alla stipula dell’atto di compravendita di un immobile. La Corte territoriale, in particolare, riteneva corretta la statuizione dei primi giudici, secondo cui la decorrenza della prescrizione nella specie non coincideva con il momento in cui era stata riconosciuta – con sentenza del Tribunale di Roma – l’esclusiva responsabilità dell’odierno ricorrente per la mancata stipula del contratto, in quanto il S. era già a conoscenza della pretesa lesione del suo diritto sulla base sia del contratto preliminare da lui sottosicritto, sia della notifica della citazione nella causa risarcitoria contro di lui proposta dalla venditrice. Gli intimati resistono con rispettivi controricorsi, in cui chiedono respingersi l’impugnazione. Il G. ha depositato anche memoria.

2.1. Il ricorrente deduce nel primo motivo violazione e falsa applicazione di norme di legge (artt. 2935 e 2962 c.c.) e formula i seguenti quesiti di diritto: “L’impedimento di diritto utile all’arresto del decorso della prescrizione si realizza per il fallito per il tempo della durata della procedura concorsuale a proprio carico? Medesimo impedimento sussiste in presenza di un giudizio dal cui esito sorge il diritto alla pretesa risarcitoria? L’impedimento del decorso della prescrizione non consente il verificarsi del compimento della stessa?”.

2.2. Col secondo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 1227 c.c. e formula il seguente quesito: “E’ legittimo invocare la norma di cui all’art. 1227 c.c., a carico di un soggetto che, non conoscendo una specifica normativa, peraltro in materia specialistica, omette di andare alla ricerca di altro professionista quando il proprio consiglia una determinata condotta?”.

2.3. Col terzo motivo, il ricorrente deduce “omesso esame di punto decisivo della controversia”, per non avere la sentenza impugnata preso in considerazione le prove da lui offerte sul comportamento del notaio utili a dimostrare l’insistenza, di questi a negare la possibilità di stipula della compravendita anche in presenza delle diverse opinioni espresse dai professionisti che assistevano la parte opposta.

3. I motivi si rivelano inammissibili per inidoneità dei quesiti formulati in relazione a ciascuno di essi (non tralasciando che il terzo avrebbe dovuto essere corredato da un “momento di sintesi”, essendo rubricato come violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5). Essi sono privi dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie nel testo di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essendo stata l’impugnata sentenza pubblicata successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in vigore del medesimo.

3.1. Il quesito, come noto, non può consistere in una domanda che si risolva in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura cosi come illustrata, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni illustrate nel motivo e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere al quesito con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. A titolo indicativo, si può delineare uno schema secondo il quale sinteticamente si domanda alla corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata (Cass. S.U., ord. n 2653/08). E ciò quand’anche le ragioni dell’errore e della soluzione che si assume corretta siano invece – come prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 4, adeguatamente indicate nell’illustrazione del motivo, non potendo la norma di cui all’art. 366 bis c.p.c., interpretarsi nel senso che il quesito di diritto possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (Cass, 20 giugno 2008 n 16941). Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede, pertanto, che, con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed averne indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa risolto, formulato in modo tale da circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (v. Cass., 17/7/2008 n. 19769; 26/3/2007, n. 7258). Occorre, insomma che la Corte, leggendo il solo quesito, possa comprendere l’errore di diritto che si assume compiuto dal giudice nel caso concreto e quale, secondo il ricorrente, sarebbe stata la regola da applicare.

3.2.1. Non si rivelano, pertanto, idonei i quesiti formulati, dato che non contengono alcun riferimento alla pretesa azionata dalla controparte, nè espongono chiaramente le regole di diritto che si assumono erroneamente applicate e, quanto a quelle di cui s’invoca l’applicazione, si esauriscono in enunciazioni di carattere generale ed astratto che, in quanto prive di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, non consentono di dare risposte utili a definire la causa (Cass. S.U. 11.3.2008 n. 6420). Del resto, il quesito di diritto non può risolversi – come nell’ipotesi – in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta, ovvero in cui la risposta non consente di risolvere il caso sub audace (Cass. S.U. 2/12/2008 n. 28536).

3.2.2. La censura di cui al secondo motivo è inammissibile anche perchè impropriamente formulata sotto il profilo della violazione dell’art. 345 c.p.c., dovendosi riaffermare che l’interpretazione della domanda – nell’ipotesi, dell’atto di appello – è compito istituzionalmente demandato al giudice del merito, e, risolvendosi in un accertamento di fatto è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata (Cass. 27789/05; 19513/05; 15643/03; 11667/03;

10979/03; 11010/00), dato che anche l’interpretazione operata dal giudice di appello riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione (Cass. 1777947 e 2467/06), avuto riguardo all’intero contesto dell’atto, tenuto conto del senso letterale e del contenuto sostanziale della pretesa in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (Cass. n. 22893/08). Pertanto, nella specie, la censura – ove ne fossero ricorsi i presupposti – avrebbe dovuto formularsi sotto il profilo della violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (non, come è avvenuto, come violazione dell’art. 345 c.p.c.), risultando, peraltro, congrua e corretta la motivazione della sentenza impugnata (p. 12 e 13) che ha rigettato l’analoga eccezione proposta in appello dall’odierno ricorrente e che ha escluso che le medesime circostanze oggi dedotte avessero comportato una modifica dei fatti costitutivi della pretesa azionata, nè rappresentato l’introduzione di un nuovo tema d’indagine.

3.3. Quante al terzo motivo, con cui si deduce vizio di motivazione, a completamento della relativa esposizione, esso avrebbe dovuto indefettibilmente contenere la sintetica e riassuntiva indicazione:

a) del fatto controverso; b) degli elementi di prova la cui valutazione avrebbe dovuto condurre a diversa decisione; c) degli argomenti logici per i quali tale diversa valutazione sarebbe stata necessaria (Cass. 17/7/2008 n. 19769, in motivazione). Orbene, nel caso con riferimento alle predette censure con le quali vengono denunziati vizi di motivazione, il ricorrente formula dei “quesiti” che non contengono dei momento di sintesi, così esprimendosi secondo un modello difforme da quello normativamente delineato nei termini sopra esposti, sostanziandosi invero in meramente generiche ed apodittiche asserzioni non rispettose del disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Le censure non recano, invero, la “chiara indicazione” del “fatto controverso” e delle “ragioni” che rendono inidonea la motivazione a sorreggere la decisione, l’art. 366 bis c.p.c., che come da questa Corte precisato richiede un quid pluris rispetto alla mera illustrazione del motivo, imponendo un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile (v. Cass. 18/7/2007 n. 16002). L’individuazione dei denunziati vizi di motivazione (in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio) risulta perciò impropriamente rimessa all’attività esegetica del motivo da parte di questa Corte.

4. Pertanto, il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in favore del G. in Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per onorario, nonchè in favore della compagnia assicuratrice in Euro 3.200,00 di cui Euro 3.000 per onorario, oltre, per ciascuno dei resistenti, spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2011

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