Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21290 del 09/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 09/08/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 09/08/2019), n.21290

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11957-2014 proposto da:

I.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BRESCIA 29,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO ZACHEO, rappresentato e

difeso dall’avvocato FERNANDO CARACUTA;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1775/2013 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 06/05/2013; r.g.n. 2481/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/04/2019 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale, inammissibilità, in subordine rigetto incidentale;

udito l’Avvocato FERNANDO CARACUTA;

udito l’Avvocato MARIO MICELI per delega verbale Avvocato ROBERTO

PESSI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Lecce, con sentenza resa pubblica il 6/5/2013 confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva respinto la domanda proposta da I.C. nei confronti di Poste Italiane s.p.a., volta a conseguire l’accertamento della illegittima apposizione del termine al contratto stipulato fra le parti in relazione al periodo7/2-31/5/2001, la conversione in contratto a tempo indeterminato e la condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate dal di della messa in mora.

Il giudice del gravame a fondamento del decisum, escluso che si potesse configurare nella specie una ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto, rilevava in sintesi che il contratto intercorso fra le parti si collocava nell’ambito del sistema di legge che aveva delegato le oo.ss. a individuare nuove ipotesi di assunzione a termine con la contrattazione collettiva, e si era espresso nella previsione di cui all’Accordo in data 18/1/2001, applicabile alla fattispecie ratione temporis.

Avverso questa decisione I.C. ha interposto ricorso per cassazione sostenuto da unico motivo.

La s.p.a. Poste Italiane ha resistito con controricorso, spiegando ricorso incidentale.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Questa Corte, sesta sezione civile, in esito a riconvocazione, vista l’istanza di rinvio pregiudiziale alla U.E. proposto dal ricorrente in sede di memoria illustrativa, ha disposto la rimessione della causa alla pubblica udienza, cui è seguito il deposito di ulteriori memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con unico motivo il ricorrente principale denuncia violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, della L.n. 230 del 1962, art. 1, lett. b) nonchè dell’art. 8 c.c.n.l. 1994 e dell’art. 25 c.c.n.l. 2001.

Premesso che l’assunzione a termine era stata giustificata da esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione di cui all’art. 25 c.c.n.l. 2001, prevista dalle parti collettive nell’esercizio della facoltà derogatoria di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 1, lett. b) deduce l’illegittimità di tale causale per non avere il contratto individuale specificato come la sussistenza di tali esigenze straordinarie e contingenti si riverberasse sulla unità di destinazione del lavoratore e sulle mansioni di adibizione. Lamenta inoltre che la società aveva violato il prescritto rapporto percentuale fra lavoratori a termine e lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato.

2. La società Poste Italiane con il ricorso incidentale prospetta violazione dell’art. 1372 c.c., commi 1 e 2, nonchè nullità del procedimento ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4. Deduce che il rapporto avrebbe dovuto essere ritenuto risolto per mutuo consenso, costituendo il lasso di tempo trascorso tra cessazione del rapporto ed offerta della prestazione (circa quattro anni) indice di disinteresse a sostenere la nullità del termine, di modo che erroneamente il giudice avrebbe affermato che l’inerzia non costituisce comportamento idoneo a rappresentare la carenza di interesse al ripristino del rapporto.

3. Il ricorso principale è infondato.

Con riferimento ai contratti conclusi ai sensi dell’art. 25 del c.c.n.l. del 2001 (nel regime anteriore al D.Lgs. n. 338 del 2001) più volte questa Corte Suprema (v., fra le altre, Cass. 26/9/2007 n. 20162, Cass. 1/10/2007 n. 20608 ed, in motivazione, Cass. 10/8/2015 n. 16677) decidendo in casi analoghi, ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva dichiarato illegittimo il termine apposto ad un contratto stipulato in base alla previsione della norma contrattuale sopra citata.

Si è osservato, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. n. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2/3/2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, quella di cui al citato art. 25, comma 2 c.c.n.l. 11 gennaio 2001.

In specie, quale conseguenza della suddetta delega in bianco conferita dal citato art. 23, questa Corte ha precisato che i sindacati, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge, possono legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere oggettivo ed anche alla stregua di esigenze riscontrabili a livello nazionale o locale – per ragioni di tipo meramente “soggettivo”, costituendo l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato idonea garanzia per i lavoratori e per un’efficace salvaguardia dei loro diritti.

Peraltro, nel quadro delineato, è stato precisato che non era necessario che il contratto individuale contenesse specificazioni ulteriori rispetto a quelle menzionate nella norma collettiva ma solo il riscontro che le assunzioni in questione erano ricollegabili alle esigenze aziendali considerate nella norma collettiva. (v. fra le altre Cass. 14/3/2008 n. 6988).

In base a tale orientamento, cui si intende dare continuità, la censura attinente alla genericità della causale contrattuale, deve essere respinta.

4. Quanto alla doglianza avanzata con riferimento alla violazione della cd. clausola di contingentamento, non può sottacersi che la questione non risulta in alcun modo scrutinata dalla Corte territoriale.

In proposito va rammentato che, secondo l’insegnamento di questa Corte, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata nè indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (vedi ex multis Cass. 22/04/2016 n. 8206, Cass. 28/7/2008 n. 20518).

Parte ricorrente si è sottratta a tale onere non avendo allegato, prima ancora che dimostrato, con riferimento alle proprie difese spiegate nel giudizio di merito, che la domanda di accertamento della nullità del termine era stata fondata anche sul mancato rispetto della clausola di contingentamento.

Il ricorso principale va, dunque, integralmente respinto.

5. Nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c. il ricorrente ha chiesto, in via subordinata alla reiezione del ricorso principale, venga sollevata istanza pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267, comma 3 del Trattato per il funzionamento dell’Unione Europea TFUE nei seguenti termini:

“Se le clausole 5 nn. 1, 2 e 8 nn. 1 e 3 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato stipulato il 18 marzo 1999 figurante nell’allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, la clausola 4, n. 1 dello stesso accordo quadro e il principio di uguaglianza e non discriminazione del diritto dell’unione Europea, devono essere interpretati nel senso che tali disposizioni ostano all’adozione, da parte di uno stato membro per favorire un organismo nazionale pubblico (sentenza Carratù della Corte di Giustizia del 12 dicembre 2013 in causa C-361/12) in posizione dominante del mercato nazionale postale in quanto gestore dello stesso servizio postale universale, di una normativa nazionale – quale la L. n. 56 del 1987, art. 23, comma 1 applicabile alla fattispecie di causa “ratione temporis” ad un contratto di lavoro a tempo determinato stipulato dopo l’entrata in vigore della direttiva 1999/70/CE ma prima del suo recepimento interno con il D.Lgs. n. 368 del 2001 – come interpretata dalla giurisprudenza consolidata della cassazione dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001 (in particolare Cassazione SS.UU. n. 4588/2006) che differenzia i contratti di lavoro stipulati con Poste Italiane s.p.a. con il solo ricorso alle clausole generali previste dagli accordi collettivi derogatori delle ipotesi causali di apposizione del termine di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2 – limitando i poteri del giudice nazionale perchè non gli consente di verificare la sussistenza delle condizioni di fatto che giustificano le esigenze temporanee di un unico organismo pubblico di apporre il termine al rapporto di lavoro – rispetto ai contratti con datori di lavoro privati e pubblici, escludendo i lavoratori assunti in base alle previsioni astratte della contrattazione collettiva dalla tutela rappresentata dalla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e non consentendo, nel processo, l’applicazione delle misure equivalenti fondate su ragioni oggettive di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2 nè altra misura preventiva o successiva antiabusiva, precarizzando senza limiti i rapporti di lavoro dei lavoratori assunti da Poste Italiane s.p.a. con le clausole generali determinate dalla contrattazione collettiva senza nessuna giustificazione o ragione oggettiva”.

Si deduce che, rispetto alla giurisprudenza di legittimità sulla cd. delega in bianco agli accordi collettivi derogatori delle ipotesi causali di cui alla L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2 si configurerebbe una situazione di inadempimento alla clausola 5 dell’accordo quadro, per avere lo Stato Italiano sottratto una ristretta categoria di lavoratori di un organismo statale quale Poste Italiane, all’applicazione della norma equivalente di tutela antiabusiva degli altri lavoratori privati e pubblici assunti con contratto a tempo determinato, dopo l’entrata in vigore nel luglio 1999 della direttiva 1999/70/CE.

6. Giova premettere che l’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 citato (già art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità Europea), viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza di detta Corte (cfr., tra molte, Cass. 26.3.2012 n. 4776); similmente, il rinvio pregiudiziale, quantunque obbligatorio per i giudici di ultima istanza, presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle norme interne che lo disciplinano (cfr. Cass. Sez. Un. 2.4.2007 n. 8095).

Invero è noto (v. Cass. Sez. Un., 10.9.2013, n. 20701) che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità: infatti, esso ha la funzione prioritaria di chiarire dubbi in ordine all’interpretazione di norme di norme di diritto dell’Unione anche in rapporto alla compatibilità con esse della normativa interna; sicchè il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perchè proveniente da istanza di parte (tra le altre, v. Cass. 7.6.2018 n. 14832, Cass. 24.3.2014, n. 6862; Cass. 21.6.2011, n. 13603), laddove ritenga motivatamente che non sussistano dubbi di sorta.

D’altro canto è incontrastato l’enunciato, più volte ribadito da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui la Corte di Giustizia Europea, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica Europea, non opera come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale (cfr.Cass. Sez. Un. 18.12.2017, n. 30301; in precedenza: Cass. Sez. Un., nn. 16886/2013, 2403/14, 2242/15, 23460/15, 23461/15, 10501/16 e 14043/16).

Pertanto, il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle Comunità Europee la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un “acte claire” che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale (tra le altre: Cass., Sez. Un., 24.5.2007, n. 12067; Cass., 22.10.2007, n. 22103; Cass. 26.3.2012, n. 4776; Cass. 29.11.2013, n. 26924).

7. Alla stregua di quanto esposto va disattesa la richiesta di rinvio alla Corte di Giustizia, “non esistendo alcun diritto della parte all’automatico rinvio pregiudiziale ogni qualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del diniego siano espresse (Corte EDU, caso Ullens de Schooten & Rezabek vs. Belgio) ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata come precisato anche dalla Corte di Strasburgo (Corte EDU, caso Wind Telecomunicazioni vs. Italia, p.36)” (in termini: Cass. Sez. Un. 8.7.2016, n. 14042 ed in motivazione Cass. 7.6.2018 n. 14832).

Nello specifico il contratto era stato stipulato inter partes e si era svolto in epoca anteriore (7/2-31/5/2001) al recepimento interno della direttiva 1999/70/CE ex D.Lgs. 24 novembre 2001, n. 368, sicchè il rapporto è regolato dalla disciplina precedente che la dottrina in prevalenza ritiene più rigorosa nel controllo delle assunzioni a termine rispetto al sistema introdotto con la normativa del 2001.

Anche a voler ritenere che lo stato membro sia tenuto nella pendenza del termine per il recepimento di una direttiva ad osservarne i principi, la normativa di cui alla L. n. 56 del 1987 offriva, infatti, norme ad hoc di indubbia efficacia per il perseguimento degli obiettivi e dei principi di cui alla direttiva sovranazionale, come la delega alle OOSS per la definizione dei casi di legittima apposizione del termine o la clausola di contingentamento.

8. Sotto altro versante, l’assenza di contrasti della L. n. 56 del 1987, art. 23, comma 1 con i principi enunciati dalla normativa sopravvenuta, può indirettamente inferirsi anche da ulteriori principi affermati da questa Corte con riferimento alla disciplina transitoria di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11, comma 2 che, nel sancire il mantenimento di efficacia delle clausole dei contratti collettivi di lavoro stipulate ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23, vigenti alla data di entrata in vigore del medesimo D.Lgs., fino alla data di scadenza dei CCNL, è stata ritenuta non contrastante con la direttiva 1999/70/CE (vedi in motivazione Cass. 13/7/2015 n. 14581).

Come la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare (sentenza n. 214 del 2009), invero, la L. Delega n. 422 del 2000, art. 2, comma 1, lett. b), consentiva al Governo di apportare modifiche o integrazioni alle discipline vigenti nei singoli settori interessati dalla normativa da attuare e ciò al fine di evitare disarmonie tra le norme introdotte in sede di attuazione delle direttive comunitarie e, appunto, quelle già vigenti. In base a tale principio direttivo generale, il Governo era autorizzato a riprodurre, nel D.Lgs. di attuazione della direttiva 1999/70/CE, precetti già contenuti nella previgente disciplina del settore interessato dalla direttiva medesima in tema di contratto di lavoro a tempo determinato.

Infatti, inserendo in un unico testo normativo sia le innovazioni introdotte al fine di attuare la direttiva comunitaria, sia le disposizioni previgenti che, attenendo alla medesima fattispecie contrattuale, erano alle prime intimamente connesse, si sarebbe garantita la piena coerenza della nuova disciplina anche sotto il profilo sistematico, in conformità con’ quanto richiesto dal citato art. 2, comma 1, lett. b) legge di delega.

La disciplina transitoria, non ritenuta espressione di eccesso di delega in quanto si limitava a disporre per un limitato e breve arco temporale (rispettoso dell’originaria già prevista scadenza del CCNL) la persistente vigenza della contrattazione collettiva, proprio al fine di favorire la piena attuazione della nuova disciplina, non determinava alcuna diminuzione della tutela già garantita ai lavoratori dal precedente regime, nè contrastava con la clausola n. 8.3 dell’accordo – quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la quale l’applicazione dell’accordo non avrebbe potuto costituire

un motivo per ridurre il livello generale di tutela già goduto dai lavoratori.

Si è quindi ritenuto che la disciplina transitoria di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11, comma 2, nel sancire il mantenimento di efficacia delle clausole dei contratti collettivi di lavoro stipulate ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23,vigenti alla data di entrata in vigore del medesimo D.Lgs., fino alla data di scadenza dei CCNL (art. 25 del CCNL del 2001), risponde ai criteri direttivi della L. Delega n. 422 del 2000 per l’attuazione delle disposizioni comunitarie, alla quale concorre, nè, proprio in ragione del mero mantenimento di efficacia di quanto pattuito in sede di contrattazione collettiva, può dar luogo ad abuso di posizione dominante come dedotto da parte ricorrente.

9. Il chiesto rinvio pregiudiziale prospetta peraltro una sorta di trattamento di favore a vantaggio delle Poste spa, ente pubblico secondo alcune decisioni della Corte di giustizia (con conseguente abuso di posizione dominante), in relazione all’interpretazione offerta del sistema da parte della Corte di cassazione, che va esclusa, sia perchè la norma di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23 è norma di carattere generale, certamente non applicabile alle sole Poste, sia perchè la stessa interpretazione della Corte di cassazione ha valenza generale applicandosi a tutte le aziende di una certa dimensione e quindi non alle sole Poste.

Da ultimo, è certamente una tesi opinabile che l’eventuale abuso di posizione dominante di cui parla l’istanza (esclusa per quanto sopra ricordato) possa comportare nullità dei contratti a termine stipulati, ma semmai sembrerebbe poter configurare una diversa responsabilità dello ò Stato.

10. In definitiva, al lume delle considerazioni sinora esposte, devono ritenersi non ricorrenti le condizioni per l’accoglimento dell’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea formulata da I.C.. Il ricorso principale va pertanto rigettato, restando assorbito il ricorso incidentale.

Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza, liquidate come da dispositivo.

Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale.

Condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

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