Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21287 del 09/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 09/08/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 09/08/2019), n.21287

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8918-2014 proposto da:

AZIENDA USL ROMA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASAL BERNOCCHI N.

73 PRESSO ASL, presso lo studio dell’avvocato FABIO FERRARA, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.D., D.S.E., D.S.M., nella

qualità di eredi di D.S.R., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA DEGLI SCIALOJA 6, presso lo studio dell’avvocato TEODORO

KATTE KLITSCHE DE LA GRANGE, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 7617/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/10/2013; R.G.N. 7944/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/04/2019 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIOVANNI BERTONI per delega verbale Avvocato FABIO

FERRARA;

udito l’Avvocato KATTE KLITSCHE DE LA GRANGE TEODORO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Roma aveva rigettato il ricorso proposto da C.D. e dagli altri eredi di D.S.R. con il quale i predetti avevano chiesto, sia iure proprio che iure hereditatis, la condanna dell’Azienda USL RM/(OMISSIS) al risarcimento dei danni collegati al decesso del proprio congiunto, sul presupposto che la morte fosse stata causata dall’esposizione al fumo passivo.

2. La Corte d’appello capitolina, con sentenza del 15.10.2013, premesso che era passato in giudicato il capo della pronuncia di primo grado relativo alla declaratoria di incompetenza per materia in ordine alla domanda di risarcimento dei danni avanzata iure proprio dai ricorrenti, quanto alla domanda di danni proposta iure successionis, osservava che la L. n. 584 del 1975, art. 1 vietava il fumo nelle corsie d’ospedale e nei locali chiusi adibiti a pubblica riunione e che il D.Lgs. n. 626 del 1994, all’art. 65, prevedeva divieto di fumo nei luoghi esposti ad agenti cancerogeni come la segreteria del CPO dove lavorava il de cuius, contigua al centro di radiologia.

3. Veniva evidenziato che l’art. 2087 c.c. obbligava il datore di lavoro ad attuare tutte le misure di sicurezza idonee a tutelare la salute dei lavoratori, indipendentemente dall’esistenza di norme esplicite che prescrivessero determinate condotte, sicchè l’ASL avrebbe dovuto porre in essere misure atte ad impedire o ridurre il danno, come l’utilizzazione di locali idonei o di areatori, e che alla stessa competeva la relativa dimostrazione, essendo irrilevante che il lavoratore non avesse protestato o chiesto controlli o provvedimenti. Peraltro, come evidenziato dalla Corte, anche la sentenza emessa in relazione alla domanda di causa di servizio ed equo indennizzo aveva accertato che il locale ove lavorava il D.S. era insalubre e che ciò ne aveva cagionato la morte, avvenuta nel 2002, dopo due anni dall’insorgenza della patologia, non solo a causa del fumo passivo, ma anche per le ridotte dimensioni dell’ufficio dove il predetto lavorava insieme ad altri due dipendenti, entrambi fumatori, ufficio che conteneva due macchine fotocopiatrici che aggravavano le condizioni di insalubrità dell’ambiente.

4. Con riguardo al risarcimento del danno, la Corte rilevava che le valutazioni del perito, officiato in primo grado, che non avevano formato oggetto in appello di specifici rilievi, deponevano per una malattia consolidata già al momento della diagnosi della neoplasia tumorale, commisurata ad una percentuale di invalidità del 100%, e che quanto al risarcimento del correlativo danno, trasmissibile agli eredi, sulla base delle tabelle del danno biologico di Milano, lo stesso dava titolo ad un importo pari ad Euro 200.000, comprensivo del danno morale (Euro 76.000 per l’inabilità temporanea, con riferimento ad un danno che, se pure temporaneo, era massimo nella sua entità ed intensità, cui andava aggiunto il danno morale, connotato non solo per la malattia per ben due anni, ma anche dalla consapevolezza di dovere lasciare due figlie minori).

5. Di tale decisione domanda la cassazione l’Azienda USL Roma D, affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resistono, con controricorso, gli eredi di D.S.R., che hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, l’Azienda USL ROMA (OMISSIS) denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 584 del 1975, del D.Lgs. n. 626 del 1994, nonchè degli artt. 2087 e 1218 c.c., osservando che le conoscenze scientifiche, al tempo dei fatti di causa, non erano tali da mettere in guardia i fumatori sui danni alla salute connessi al cd. “fumo passivo” e che il datore adottava tutte le misure di prevenzione, diligenza e prudenza e le dovute cautele secondo le norme tecniche e di esperienza vigenti all’epoca, che non ponevano alcuna restrizione imperativa e tassativa in materia di fumo. La ricorrente assume che i divieti imposti dalla normativa del 1975 erano riferiti a luoghi contemplati in un elenco tassativo, nell’ambito dei quali erano previste le corsie degli ospedali, senza che fosse applicabile un’estensione normativa della disposizione, essendo peraltro la previsione collegata a possibile rischio incendi ed ad una cognizione del nesso causale tra fumo passivo e insorgenza di patologie professionali che escludeva le patologie tumorali. Solo con L. 16 gennaio 2003, n. 3 era stato sancito il divieto assoluto di fumo nei locali chiusi, ad eccezione di quelli privati o di quelli riservati ai fumatori. Anche della nocività dei macchinari radiologici non si aveva una cognizione appropriata in termini di idoneità cancerogena ed il D.Lgs. n. 626 del 1994, al titolo VII, rubricato Protezione da agenti cancerogeni mutageni, prevedeva, all’art. 64, l’utilizzo di agenti cancerogeni nelle lavorazioni in misura non superiore alle necessità delle lavorazioni e limitava al minimo possibile il numero dei lavoratori esposti o che potessero essere esposti ad agenti cancerogeni, isolando le lavorazioni in aree predeterminate provviste di adeguati segnali di avvertimento e sicurezza, compresi quelli di divieto di fumo. La ricorrente richiama il principio della prevedibilità e della regolarità causale, rapportato allo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca ed alla concreta possibilità di avere cognizione del nesso causale tra un determinato fattore e l’insorgere della patologia professionale, ed assume che l’azienda si sia attenuta alla normativa in materia vigente all’epoca dei fatti, che non poneva un espresso divieto di fumo, diversamente da quanto previsto dalla normativa successiva.

2. Con il secondo motivo, l’azienda sanitaria si duole della violazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 52, 53 e 135 nonchè del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 contestando la decisione in relazione all’applicabilità della disciplina del D.P.R. n. 1124 del 1965, sul rilievo che la data del ricovero del 3.5.2000 sia ininfluente ai fini considerati, dovendo aversi riguardo alla data della denuncia presentata dal D.S. il 13.10.2000, con relativo certificato medico della malattia professionale, che accertava la consapevolezza della manifestazione della stessa, in base a ciò sostenendo che la richiesta di risarcimento dei danni per malattia professionale non poteva più essere presentata al datore di lavoro in quanto, come disposto dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, comma 2, i danni conseguenti a malattie professionali denunciate successivamente alla data di entrata in vigore del D.M. di cui al comma 3 vengono indennizzati direttamente dall’INAIL nell’ambito del sistema di indennizzo e sostegno sociale. L’Azienda sanitaria locale richiama il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 52, comma 2 e art. 53,comma 5, a conforto dell’assunto che la denuncia sull’esistenza della malattia è a carico del lavoratore e che alla data della stessa, ai sensi dell’art. 135, comma 2, occorre avere riguardo ai fini della individuazione della normativa applicabile per l’indennizzo del danno biologico,

3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139sostenendo che non sia configurabile un danno da inabilità permanente in senso medico legale e che il danno tanatologico o da morte costituisca pregiudizio non suscettibile di risarcimento, diversamente dal danno maturato in capo alla vittima, trasmissibile agli eredi, ove la morte della stessa non sia seguita immediatamente alle lesioni, ma tra l’infortunio e la morte sia intercorso un apprezzabile lasso temporale; osserva che tale pregiudizio può essere oggetto di ristoro solo ove venga fornita la prova del decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra il verificarsi dell’evento lesivo e la morte ed assume che nel caso di specie tale prova non sia stata fornita. Critica, poi, il criterio di quantificazione tabellare utilizzato, che ha a riferimento le tabelle per l’invalidità permanente.

4. Quanto al primo motivo, deve osservarsi che, in presenza di eventi lesivi verificatisi in pregiudizio del lavoratore e causalmente ricollegabili alla nocività dell’ambiente di lavoro, viene in rilievo l’art. 2087 c.c., che, come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonchè tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato. Tale responsabilità datoriale non è configurabile solo nell’ipotesi in cui il nesso causale tra l’uso di una sostanza e la patologia professionale non fosse configurabile allo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca, sicchè non poteva essere prospettata l’adozione di adeguate misure precauzionali (cfr. Cass. 10.2.2011 n. 3227, 5066/2018, 12/2018). E’ stato invero al riguardo osservato da questa Corte che “la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., non è limitata alla violazione di norme d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa, nell’attuale sistema italiano, supportato a livello costituzionale, alla cura del lavoratore attraverso l’adozione, da parte del datore di lavoro, nel rispetto del suo diritto di libertà d’impresa, di tutte quelle misure e delle cautele che, in funzione della diffusione e della conoscibilità, pur valutata in concreto, delle conoscenze, si rivelino idonee, secondo l'”id quod plerumque accidit”, a tutelare l’integrità psicofisica di colui che mette a disposizione della controparte la propria energia vitale (cfr. in tali termini, Cass. 14.1.2005 n. 644, con richiamo a Cass. 23 maggio 2003, n. 8204; 29 dicembre 1998, n. 12863; aprile 1995, n. 4078).

5. Nel caso considerato, non può dubitarsi della correttezza delle argomentazioni spese dalla Corte del merito con riferimento ad una situazione di accertata azione del fumo passivo in ambiente inidoneo allo svolgimento di attività lavorativa senza rischi per la salute dei lavoratori, al di là della introduzione di specifiche norme contenenti divieti di fumo in ambienti diversi da quelli indicati nella normativa del 1975 e del 1994, posto che doveva ritenersi pacifica, specie da parte di una struttura sanitaria, la conoscenza dei rischi del fumo e dei raggi degli apparecchi esistenti nel locale?adibito ad esami radiologici.

6. E’ stato, infine, evidenziato come, “in tema di accertamento della sussistenza di una malattia professionale non tabellata e del relativo nesso di causalità (nella specie, esposizione al fumo passivo) – posto che la prova, gravante sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere ravvisata in presenza di un notevole grado di probabilità – il giudice può giungere al giudizio di ragionevole probabilità sulla base della consulenza tecnica d’ufficio che ritenga compatibile la malattia non tabellata con la “noxa” professionale utilizzando, a tale scopo, anche dati epidemiologici, per suffragare una qualificata probabilità desunta anche da altri elementi. In tal caso, il dato epidemiologico (che di per sè attiene ad una diversa finalità) può assumere un significato causale, tant’è che la mancata utilizzazione di tale dato da parte del giudice, nonostante la richiesta della difesa corroborata da precise deduzioni del consulente tecnico di parte, è denunciabile per cassazione” (cfr. Cass. 3227/2011 cit.).

7. Tali principi hanno una evidente validità in relazione al caso esaminato, che verte sulle conseguenze in tema di danno biologico temporaneo derivato al D.S. per effetto della esposizione al fumo dei colleghi di lavoro, non impedita, con efficace predisposizione di misure preventive da parte del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c..

8. Con riferimento al secondo motivo, avuto riguardo a quanto disposto al D.Lgs. n. 1124 del 1965, art. 52, comma 2, in tema e termini di denuncia da parte dell’assicurato della malattia professionale, dall’art. 53, comma 5, con riguardo al successivo dovere di trasmissione della stessa da parte del datore all’istituto assicuratore e dall’art. 135 del citato testo normativo quanto ad individuazione della data di verificazione della malattia professionale (completa astensione dal lavoro, ovvero presentazione della denunzia corredata di certificato medico), vero è che oggetto della nuova disciplina, secondo il tenore testuale della L. n. 38 del 2000, art. 13, comma 2, è il trattamento dei danni conseguenti, per quanto interessa, a malattie professionali denunciate cautelativamente a decorrere dal 9 agosto 2000, data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui alla L. n. 38 del 2000, art. 13, comma 5 emanato il 12 luglio 2000 (cfr. Cass. 5.5.2005 n. 9353, Cass. 9956/2011), tuttavia, con riferimento al danno biologico temporaneo di cui si discute nel presente giudizio, la censura è contraddetta da quanto affermato da questa Corte secondo cui “In tema di responsabilità del datore di lavoro per il danno da inadempimento l’indennizzo erogato dall’INAIL ai sensi del D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 non copre il danno biologico da inabilità temporanea, atteso che, sulla base di tale norma, in combinato disposto con il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 66, comma 1, n. 2, il danno biologico risarcibile è solo quello relativo all’inabilità permanente” (cfr. Cass. 2.3.2018 n. 4972).

9. Correttamente, pertanto, il danno in questione è stato ritenuto a carico del datore, tenuto al pagamento dello stesso, iure successionis, in favore degli eredi del danneggiato deceduto.

10. In relazione al terzo motivo, va, infine, osservato che il giudice del gravame, con motivazione incensurabile in questa sede, perchè fondata su un accertamento in fatto sostenuto da coerenti e argomentate proposizioni, ha rilevato l’esistenza di un apprezzabile intervallo tra l’insorgenza della patologia diagnosticata ed il decesso, tale da dar luogo ad un danno biologico da invalidità temporaneo di massima entità, trasmissibile agli eredi. Ciò è in linea con quanto ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui “Nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato per quel periodo di tempo, ed il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi “iure hereditatis”; in questo caso, l’ammontare del danno biologico terminale sarà commisurato soltanto all’inabilità temporanea, e tuttavia la sua liquidazione dovrà tenere conto, nell’adeguare l’ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte” (cfr. Cass. 28.4.2006 n. 9959, Cass. 8.7.2014 n. 15491, Cass. 31.10.2014 n. 23183). In tali sensi il giudice del gravame ha motivato e, per il resto, le critiche della ricorrente sul criterio di quantificazione sono genericamente formulate e come tali sono da ritenere inammissibili.

11. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo, con attribuzione al difensore dichiaratosene distrattario.

12. Sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%, con attribuzione all’avv. Teodoro Katte Klitsche de la Grange.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

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