Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21269 del 05/10/2020

Cassazione civile sez. II, 05/10/2020, (ud. 01/07/2020, dep. 05/10/2020), n.21269

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26771/2016 proposto da:

C.F., elettivamente domiciliato in Roma, via

Costantino Morin 1, presso lo studio dell’avv. Luisa Marrazzo,

rappresentato e difesa, in virtù di mandato in calce al ricorso,

dall’avv. Carmela Perri;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BIANCHI, elettivamente domiciliato in Roma, via Germanico

21, presso lo studio dell’avv. Monica Fiore, rappresentato e difeso,

in virtù di mandato in calce al controricorso, dall’avv. Carmelo

Fiore;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 207/2016 della Corte d’appello di Catanzaro,

depositata il 12/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

01/07/2020 dal consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Cosenza, con sentenza del 18 dicembre 2008, accoglieva la domanda proposta da C.F. nei confronti del Comune di Bianchi, riconoscendo che il C. aveva acquistato per usucapione una porzione del fondo (OMISSIS) in (OMISSIS). Impugnata la sentenza dal Comune soccombente, la Corte d’appello di Catanzaro rigettava la domanda, riconoscendo che l’esito dell’istruzione, condotta mediante dichiarazioni dei testimoni introdotti dalle parti in causa, non aveva fatto emergere una situazione certa in ordine al possesso del fondo nel trentennio precedente la proposizione della stessa domanda. La corte di merito riconosceva che l’incertezza era resa ancora più marcata in considerazione delle risultanze della relazione tecnica, prodotta dal Comune in appello, eseguita per conto del Commissario per la liquidazione degli usi civici in Calabria. Da tale relazione, la cui produzione la corte d’appello riconosceva ammissibile, risultava che nel 1991 il fondo, già da qualche anno, non era oggetto di possesso da parte di alcuno, versando in stato di abbandono. Per la cassazione della sentenza C. propone ricorso, affidato a otto motivi. Resiste con controricorso il Comune di Bianchi. Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 perchè la Corte territoriale ha ritenuto ammissibile la produzione di un nuovo documento in appello, che poteva essere allegato in primo grado, valutandolo decisivo”.

Il documento cui si riferisce la censura è la relazione di consulenza tecnica d’ufficio, eseguita nel 1991, dal perito agrario Ch.Ma. per conto del Commissario per la liquidazione degli usi civici in Calabria.

Si sostiene che non è indispensabile la prova che avrebbe potuto essere prodotta in primo grado, poichè già in quel momento se ne poteva apprezzare la decisività.

Il motivo è infondato. Le Sezioni Unite di questa Corte, in materia, hanno stabilito il seguente principio: “Prova nuova indispensabile di cui al testo dell’art. 345 c.p.c., comma 3, previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito in L. n. 134 del 2012, è quella di per sè idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado” (Cass., S.U., 10790/2017; conf. 24164/2017; n. 24129/2018).

La corte d’appello ha ammesso la prova sulla base di una corretta accezione di indispensabilità, che è ravvisabile anche in relazione a prove che la parte avrebbe potuto produrre in primo grado.

2. Il secondo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 2697 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poichè la Corte territoriale: a) ha attribuito ad un elaborato peritale, redatto in seno a un diverso giudizio, valore di prova legale anzichè di presunzione semplice, che soggiaceva ai limiti temporali posti a pena di decadenza e, quindi, al rispetto delle preclusioni istruttorie; b) ha desunto argomenti decisivi da una consulenza formata in un diverso giudizio, travisandone il contenuto; c) ha omesso ai sensi dell’art. 2729 c.c. di svolgere le opportune e doverose verifiche circa la corretta redazione della stessa consulenza; d) non ha fornito, trattandosi di prova atipica, idonea motivazione della sua valorizzazione”.

Il motivo, coordinato al precedente, è infondato.

La corte d’appello ha utilizzato la relazione non quale prova legale, ma quale prova atipica nel quadro complessivo degli elementi acquisiti nel giudizio, in conformità al principio secondo cui, in mancanza nell’ordinamento processuale vigente di una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, il giudice di merito può porre a base del proprio convincimento, anche prove atipiche, purchè idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico – riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità se congruamente motivato – con le altre risultanze del processo (Cass. n. 18025/2019; n. 25067/2018; n. 4666/2003; n. 12763/2000).

Invero la corre di merito, dapprima, ha autonomamente valutato le deposizioni testimoniali fornite dall’attore. In base a tale valutazione ha riconosciuto che da tali deposizioni emergesse una quadro “abbastanza, confuso, incerto e contraddittorio circa la disponibilità dei terreni per cui è causa, evincendosi al più il passato, ossia per l’epoca in cui il C., divenuto adulto era emigrato in Lombardia, una situazione di possesso da parte della zia C.M.S., ovvero della stessa insieme alla madre (…).”Ha poi riconosciuto che la situazione diveniva “ancora più oscura e ambivalente” se si esaminavano le deposizioni dei testimoni indicati dal Comune di Bianchi.

In tale quadro di incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, la corte d’appello ha ritenuto di utilizzare, ai fini del proprio convincimento su quale fosse la situazione oggettiva dei fondi nel 1991 e negli anni immediatamente precedenti. la perizia prodotta in appello dal Comune convenuto, ritenendola attendibile e idonea a superare la situazione di incertezza (Cass., S.U., n. 10790/2017 cit.).

Il motivo è poi ulteriormente infondato, laddove, riprendendo la censura di cui al motivo precedente, si pretende, in via assoluta, di inibire l’ingresso in appello di prove atipiche in considerazione della mancata produzione in primo grado e del conseguente maturarsi delle preclusioni. Nel concorso dei presupposti previsti dall’art. 345 c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, non è precluso al giudice d’appello di dare ingresso anche a prove atipiche (cfr. Cass.17612/2013).

Il motivo prosegue con la critica, ripresa con la memoria, del contenuto del documento che la corte d’appello ha ritenuto indispensabile. Si rimprovera alla corte d’appello di non essersi accorta delle molteplici anomalie ravvisabili nella redazione della consulenza, in ragione dell’esiguo tempo impiegato dal tecnico in rapporto alla notevole estensione del terreno, nonchè per la superficialità delle valutazioni del tecnico stesso.

La censura è inammissibile, perchè si sollecita dalla Corte di legittimità una valutazione della prova diversa rispetto a quella operata dal giudice di merito. Lo stesso dicasi per le critiche dirette contro la positiva valutazione di attendibilità delle risultanze della consulenza.

3. Il terzo motivo “denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,116 c.p.c., art. 252 c.p.c., comma 2, e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma, 1, n. 3, per avere la corte di merito posto la sopracitata consulenza a caposaldo della decisione e ritenuto, in assenza di osservazioni, di parte avversa, attraverso una snaturata lettura, inattendibili le dichiarazioni dei testi di parte attrice”.

Il motivo è infondato. E’ principio fin troppo noto e acquisito che “in tema di procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio. il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento. E’ pertanto, insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice” (Cass. n. 2019/21187; n. 13054/2014).

Consegue che l’apprezzamento della attendibilità dei testimoni è prerogativa del giudice di merito e non può formare oggetto di ricorso per cassazione la determinazione del giudice di non prestare fede ad uno o più testimoni, quando di tale determinazione egli abbia dato congrua e logica spiegazione (Cass. n. 1730/1051).

In palese contrasto con tale principio, la censura di cui al motivo in esame si dirige contro la valutazione delle dichiarazioni testimoniali operata dalla corte d’appello, in primo luogo contro quella relativa alla deposizione di V.C., ritenuta scarsamente attendibile “per il chiaro interesse nella vicenda, trattandosi di soggetto che il C. ha associato nella coltivazione del fondo” (pag. 7 sentenza). Con riguardo a tale valutazione il ricorrente sostiene che non ricorreva alcuna ipotesi di incapacità. La censura non coglie la ratio decidendi, perchè la corte d’appello ha ritenuto il teste non incapace, ma, appunto, di “modesta attendibilità”. Il riconoscimento della capacità a testimoniare di un soggetto non toglie al giudice di merito il potere, solo ad esso riservato, di valutarne d’ufficio l’attendibilità. La valutazione di attendibilità, a differenza della incapacità, non implica l’esistenza di una specifica obiezione di parte (cfr. Cass. n. 11377/2006; n. 1022/2012).

In quanto al resto il motivo si esaurisce nel proporre una diversa lettura delle deposizioni testimoniali, che è per definizione inammissibile in questa sede.

4. Il quarto motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1142 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti perchè la Corte d’appello, pur sminuendo le dichiarazioni dei testi di parte attrice, accerta il progresso possesso e quello attuale, nega però la maturazione del diritto all’acquisto dei beni, completamente ignorando le risultanti istruttorie.”

Il motivo è infondato. Con esso si intende accreditare una lettura delle deposizioni testimoniali confacente con la tesi del ricorrente, che sostiene di essere subentrato nel possesso del fondo esercitato dalla propria famiglia, possesso incominciato dal nonno, proseguito dalla zia e dalla mamma e infine concentratosi solo su di lui. Nell’ambito di tali considerazioni, estranee al novero delle censure proponibili in cassazione, si introduce la denuncia della violazione della presunzione di possesso intermedio, stabilita dall’art. 1142 c.c. Si sostiene che la corte d’appello avrebbe disconosciuto tale presunzione, pur avendo accertato per il passato il compossesso della madre, ripreso dal ricorrente in epoca recente.

Come anticipato, la censura implica una ricostruzione del fatto che non coincide con quella che risulta dalla sentenza impugnata. La corte d’appello, invero, nell’esame della deposizione del teste V.C., allude a un’attività del ricorrente personale a cominciare dal 1998. Tuttavia, con riferimento al passato, ha posto l’accento sul possesso della zia dell’attuale ricorrente, concedendo, in via di pura ipotesi, il compossesso della mamma. Si capisce dalla sentenza che la corte d’appello è stata indotta a tale concessione ritenendo il compossesso a priori non utile alla difesa del ricorrente, che aveva proposta una domanda fondata sul possesso esclusivo e non sul compossesso. (Si sottolinea che tale interpretazione della domanda è condivisa dal ricorrente: infra).

Or bene, tutto ciò è poca cosa al fine di ravvisare nella sentenza impugnata un accertamento in fatto del compossesso anteriore della madre. La corte d’appello ha piuttosto riconosciuto, con riferimento all’unica situazione di possesso anteriore seriamente presa in considerazione (il possesso della zia), che non sussistevano, rispetto al ricorrente, le condizioni previste dall’art. 1146 c.c., in assenza della prova che il medesimo ricorrente fosse erede di C.M.S.. Non è poi senza significato che la corte d’appello abbia proseguito l’analisi, richiamando la perizia del tecnico Ch., sulla quale ha poi fondato il convincimento, incensurabile in questa sede, che sui terreni in questione “quanto meno da alcuni anni prima del 1991, non vi fosse alcuna situazione di possesso da parte di privati” (pag. 10 sentenza). Il che rende ancora più remota, nell’ambito della ricostruzione della corte d’appello, la supposta violazione dell’art. 1142 c.c., perchè emerge un accertamento in fatto idoneo in principio a superare la presunzione di possesso intermedio, che è, appunto, presunzione iuris tantum, che può essere vinta dalla dimostrazione che il possesso è mancato, per un tempo più o meno lungo, nel periodo intermedio (Cass. n. 1773/1975; n. 6591/1986). Il difetto della continuità del possesso, quale mancanza di una delle condizioni necessarie all’accoglimento della domanda, qualora risultante dagli atti, è rilevabile dal giudice d’ufficio (Cass. n. 17322/2010).

5. Il quinto motivo “denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,345 c.p.c. e artt. 1158,2697 c.c.. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Corte territoriale, travisandone il contenuto, ha irrazionalmente svalutato le dichiarazioni dei testi addotti da parte attrice e valorizzato, sulla base di atti tardivamente prodotti, quelli di parte convenuta per escludere l’ininterrotto possesso di C.F. utile ad usucapire”.

Il motivo è infondato, essendo oggetto di censura la valutazione delle dichiarazioni dei testi offerti dal Comune di Bianchi, le cui deposizioni, secondo tale valutazione, avrebbero reso più incerto e contraddittorio il quadro probatorio sulla situazione di possesso del fondo.

Ancora una volta si censura un apprezzamento del giudice di merito, del quale la corte d’appello ha dato adeguata e logica motivazione.

6. Il sesto motivo denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 1146 e 1158 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il giudice d’appello, ritenendo che i beni in questione non erano stati posseduti in via esclusiva da C.F. e dalla mamma, ma in compossesso con la zia negava il relativo diritto di proprietà per intervenuta usucapione”.

Si sottolinea che una situazione di compossesso non è preclusiva dell’acquisto per usucapione, potendo incidere solo sulla misura dell’acquisto, fermo restando che l’attuale ricorrente aveva sì dedotto di avere proseguito il possesso dei propri familiari, ma aveva poi chiesto l’accertamento dell’acquisto dell’usucapione esclusivamente in proprio favore.

Il motivo, che propone una serie di censure fondate su presupposti di fatto diversi (possesso proprio del ricorrente, compossesso della madre, possesso della famiglia a incominciare dal nonno), è complessivamente infondato.

a) La corte d’appello ha innanzitutto negato un possesso personale ventennale del ricorrente, esprimendo con ciò un apprezzamento in fatto, incensurabile in questa sede.

b) In ordine al compossesso della madre e alla possibile operatività dell’art. 1146 c.c. sono state già illustrate le insormontabili ragioni cui la tesi va incontro.

c) In quanto all’acquisto per usucapione già compiuto in favore del nonno, è lo stesso ricorrente che precisa di non avere proposto in giudizio la relativa domanda, che implicava una specifica istanza volta a fare accertare l’acquisto della proprietà in favore dell’ascendente, la trasmissione del diritto in favore degli eredi di lui e la ulteriore trasmissione ereditaria in favore degli ulteriori eredi (richieste tutte che non risultano proposte dall’attuale ricorrente).

7. Il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,342,345 c.p.c., nonchè art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte territoriale rilevato una sorta di compossesso preclusivo dell’acquisto per usucapione nonostante non fosse stato proposto appello in ordine al possesso esclusivo esercitato da C.F. già accertato dal giudice di primo grado, così violando il principio del tantum devolutum quantum appellatum e il giudicato interno formatosi sul relativo capo della sentenza gravata.

Il motivo è palesemente infondato. “La nozione di “parte della sentenza”, alla quale fa riferimento l’art. 329 c.p.c., comma 2, dettato in tema di acquiescenza implicita e cui si ricollega la formazione del giudicato interno, identifica soltanto le “statuizioni minime”, costituite dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibili di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia. Ne consegue che l’appello, motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi della suddetta statuizione minima suscettibile di giudicato, apre il riesame sull’intera questione che essa identifica, ed espande nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene coessenziali alla statuizione impugnata, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame” (Cass. n. 16583/2012; n. 2217/2916).

Chiarito come non fosse configurabile alcun giudicato sul possesso, è del tutto chiaro che, ancora una volta, il ricorrente si duole perchè il giudice d’appello ha sovvertito il giudizio di fatto espresso dal primo giudice, negando il possesso del ricorrente e argomentando, in via di mera ipotesi, su una situazione di compossesso della zia e della mamma.

L’argomento è stato già sviluppato, restando da aggiungere che la ratio decidendi della sentenza impugnata è da ravvisare, da un lato, nella negazione di un possesso utile esclusivo del ricorrente protratto per il tempo occorrente, dall’altro, nella mancata prova di un possesso di un dante causa rispetto al quale fosse configurabile la successione ex art. 1146 c.c. Non è vero quindi che la domanda sia stata rigettata solo perchè la corte di merito ha accertato una situazione di compossesso. Sono pertanto irrilevanti i richiami ai principi di giurisprudenza, operati nel ricorso, secondo i quali l’usucapione richiede il possesso e non il possesso esclusivo (Cass. n. 6470/1979; n. 6818/1988).

Si ribadisce ancora che, nel quadro fattuale quale emerge dalla decisione impugnata, qualsiasi tentativo di collegare la situazione possessoria del ricorrente a quella passata sarebbe teoricamente configurabile solo rispetto alla madre, il cui compossesso, però, è stato prospettato in via di pura ipotesi, sul presupposto che l’ipotetico riconoscimento del compossesso non giovasse alla tesi del ricorrente, che non aveva proposto una domanda coerente con esso. E’ stato già chiarito che da tale considerazione di principio non si può trarre argomento per trasformare la “concessione” in un accertamento compiuto del fatto. Con la ulteriore precisazione che al ricorrente non gioverebbe, di per sè, sostenere che egli è succeduto nel compossesso della madre, ma avrebbe dovuto superare l’accertamento in fatto sulla situazione del fondo negli anni 1991 e immediatamente precedenti.

8. Tale argomento costituisce oggetto dell’ultimo motivo, con il quale si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,116 c.p.c., art. 252 c.p.c., comma 2, artt. 1140,1158,1165,1167,2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, perchè la Corte d’appello, sulla preponderante considerazione la CTU a firma del Ch., con argomentazioni contrastanti, ha ritenuto interrotto il possesso e non fornita, da parte di C.F., la prova dell’esercizio per il tempo necessario ad usucapire, pure innanzi alla irrefragabile prova della sua continuità, che escludeva il medesimo possesso da parte del comune per un periodo sufficiente a riacquisirne la relativa proprietà”.

Il motivo è infondato. Ancora una volta si sostiene che la corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere l’acquisto del diritto del ricorrente in forza del suo personale possesso ultraventennale, fermo restando l’acquisto del diritto già in capo al nonno e alla mamma e alla zia. Si sovrappongono infatti situazione giuridicamente diverse: altra cosa è sostenere l’acquisto a titolo originario in forza di un possesso ventennale proprio, rispetto al quale la corte d’appello ha accertato il difetto dei presupposti; altra cosa è sostenere la configurabilità dell’acquisto in capo al C. in virtù dell’unione con il possesso della madre. E’ stato più volte rimarcato che, per il passato, la corte d’appello ha riconosciuto solo il possesso della zia, ammettendo solo in via di ipotesi il compossesso della madre. In quanto all’acquisto del diritto già compiuto in capo al nonno, con trasmissione del diritto stesso agli eredi, è stato già detto che non è questa la domanda proposta in lite. E’ in errore il ricorrente quando richiama, in riferimento a quanto la corte ha ritenuto di poter desumere dalla relazione tecnica, l’art. 1165 c.c.. evidenziando l’assenza di un atto utile e interrompere l’usucapione. La corte di merito, nel porre l’accento sullo stato di abbandono del fondo nel 1991 e anni precedenti, non intende alludere a un atto di interruzione del possesso per fatto del terzo o cause naturali, ma a una situazione di assenza di possesso in un dato periodo rilevante (cfr. Cass. n. 6349/1981; n. 77/1977). Il ricorrente richiama nella memoria i principi di giurisprudenza sulla possibilità della conservazione del possesso solo animo, ma il richiamo non gli giova, perchè, appunto, la corte di merito ha negato, in capo al ricorrente, l’esistenza di un possesso anteriore suscettibile di essere conservato, secondo quanto ampiamente sopra chiarito.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato con addebito di spese.

Ci sono le condizioni per dare atto della ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto”.

PQM

rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di cassazione, il 1 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2020

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