Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21268 del 13/09/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 13/09/2017, (ud. 07/06/2017, dep.13/09/2017),  n. 21268

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19800/2015 proposto da:

CE.P.A.I.D – CENTRO PROFESSIONALE ASSISTENZA ITALIANI DISAGIATI, SOC.

COOP. ONLUS, in persona del legale rappresentante pro tempore,

domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE

SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIA

LETIZIA PIPITONE, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.M.C.;

– intimata –

nonchè da:

M.M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

COSSERIA 2, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA BUCCELLATO

(studio legale associato Aiello Pastore Americo), rappresentata e

difesa dall’avvocato SALVATORE PARISI, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

CE.P.A.I.D – CENTRO PROFESSIONALE ASSISTENZA ITALIANI DISAGIATI, SOC.

COOP. ONLUS;

– intimata –

avverso la sentenza n. 108/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 13/02/2015 R.G.N. 1529/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2017 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e dell’incidentale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza 13 febbraio 2015, la Corte d’appello di Palermo condannava CE.P.A.I.D. – Centro Professionale Assistenza Italiani Disagiati coop. Onlus alla riassunzione di M.M.C. o, in mancanza, al pagamento in suo favore, a titolo risarcitorio, di un’indennità pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita e del trattamento retributivo spettantele secondo l’inquadramento al 2^ livello del CCNL UNEBA e le mansioni di psicologa dal 18 ottobre 2001 al 17 dicembre 2010, detratto quanto corrispostole medio tempore, oltre accessori di legge e contributi previdenziali dovuti per il superiore inquadramento: così parzialmente riformando la sentenza di primo grado, che, ferme le altre pronunce, aveva condannato la datrice a reintegrarla nel posto di lavoro e al pagamento delle relative differenze retributive dal deposito del ricorso all’effettiva reintegrazione.

A motivo della decisione, la Corte territoriale condivideva la qualificazione del Tribunale del rapporto intercorso tra le parti dal 18 ottobre 2001 al 17 dicembre 2010 come di subordinazione, soltanto ritenendo provato l’impiego da CE.P.A.I.D. a tale ultima data di un numero di dipendenti inferiore alle quindici unità: e pertanto applicando la tutela obbligatoria prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8. Con atto notificato il 9 luglio 2015, la società ricorreva per cassazione con due motivi, cui resisteva la lavoratrice con controricorso, contenente ricorso incidentale con due motivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2222 e 2094 c.c., per erronea individuazione degli elementi distintivi, tutti di natura sussidiaria, del rapporto di lavoro subordinato da quelli del lavoro autonomo, sulla base di una non corretta valutazione delle risultanze processuali.

2. Con il secondo, la società ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., per omessa considerazione della volontà delle parti nella qualificazione del rapporto di lavoro.

3. Con il primo motivo, la lavoratrice controricorrente a propria volta deduce, in via di ricorso incidentale, violazione o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 1 e art. 1362 c.c., commi 1 e 2, per erronea interpretazione della volontà datoriale manifestata nella nota del 17 novembre 2010, di comunicazione di mancato rinnovo di incarico professionale, alla stregua di definitiva interruzione del rapporto lavorativo e pertanto di licenziamento non giustificato, con la conseguenza della prosecuzione del rapporto medesimo in difetto di una valida comunicazione di recesso.

4. Con il secondo, ella deduce violazione o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, commi 1, 2 e 3 e art. 8, per mancata applicazione della tutela reintegratoria, indipendentemente dal requisito dimensionale dell’impresa datrice, per la carenza di forma scritta del licenziamento, non ricorrendo i prescritti requisiti di forma nella nota del 17 novembre 2010 suindicata.

5. Il primo motivo di ricorso principale, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2222 e 2094 c.c., per erronea individuazione degli elementi distintivi del rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo, è inammissibile.

5.1. Non sussistono, infatti, le violazioni di norme di legge denunciate, per carenza dei requisiti loro propri di verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva delle norme, nè di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, nè tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).

Tra l’altro, la Corte territoriale ha pure esattamente applicato i principi di diritto regolanti la materia (esposti ai due ultimi capoversi di pg. 3 della sentenza).

5.2. La censura in realtà si risolve in una sostanziale contestazione della valutazione probatoria della Corte territoriale e dell’accertamento in fatto dalla stessa operato, già insindacabile in sede di legittimità sotto il previgente testo dell’art. 306 c.p.c., comma 1, n. 5, ove congruamente motivato (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), come appunto nel caso di specie (per le ragioni illustrate dall’ultimo capoverso di pg. 4 all’ultimo di pg. 5 della sentenza); tanto meno essa è ammissibile nella vigenza, ratione temporis, del suo testo novellato, per i più rigorosi limiti dell’ambito di devoluzione all’omesso esame di un fatto decisivo e controverso, con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

6. Il secondo motivo, relativo a violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., per omessa considerazione della volontà delle parti nella qualificazione del rapporto di lavoro, è pure inammissibile.

6.1. E’ noto come preliminare alla qualificazione del contratto sia la ricerca della comune volontà delle parti, che costituisce un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata la qualificazione da quest’ultimo attribuita al contratto intercorso tra le parti: sicchè, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, ma debbono essere proposte sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 c.c. e segg., dell’insufficienza o contraddittorietà della motivazione e, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, devono essere accompagnate dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire in sede di legittimità la verifica dell’erronea applicazione della disciplina normativa (Cass. 25 ottobre 2006, n. 22889; Cass. 4 giugno 2010, n. 13587). Nè la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale può limitarsi a richiamare genericamente le regole stabilite dagli artt. 1362 c.c. e segg., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati e il punto e il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (Cass. 15 novembre 2013, n. 25728).

6.2. Ma il motivo è pure generico, in violazione del requisito di specificità, prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, sotto il profilo della non pertinente confutazione del ragionamento argomentativo della Corte territoriale (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 4 al terz’ultimo di pg. 5 della sentenza). Esso non ne coglie la rilevanza attribuita ai contratti tra le parti, qualificati come di collaborazione coordinata e continuativa e quindi di incarico libero professionale, non tanto in quantò documenti da interpretare ex se, quanto piuttosto quali elementi di fatto circostanziali da valutare come indici presuntivi, nel contesto di tutti gli elementi di fatto raccolti, ai fini di qualificazione (non già dell’atto, ma) del rapporto: tra l’altro, in applicazione coerente con i principi di diritto in materia, secondo cui, ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, occorre far riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro con il nomen iuris ad esso attribuito (Cass. 15 giugno 2009, n. 13858; Cass. 9 agosto 2013, n. 19114; Cass. 21 ottobre 2014, n. 22289).

7. Anche il primo motivo di ricorso incidentale, relativo a violazione o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 1 e art. 1362 c.c., commi 1 e 2, per erronea interpretazione della volontà datoriale nella nota del 17 novembre 2010, di comunicazione di mancato rinnovo di incarico professionale alla stregua di definitiva interruzione del rapporto lavorativo, è inammissibile.

7.1. Esso difetta di specificità, sotto il profilo della violazione del principio di autosufficienza del ricorso, per l’omissione della trascrizione integrale del documento e della specifica indicazione della sua sede di produzione (Cass. 3 gennaio 2014, n. 48; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915). E neppure esso specifica i canoni che si assumano in concreto violati, nè il punto e il modo in cui il giudice del merito se ne sia discostato, nella palese insufficienza del generico richiamo delle regole stabilite dagli artt. 1362 c.c. e segg..

7.2. Non senza, infine, sottolineare l’assoluta implausibilità, oltre che l’intima contraddittorietà, di un’interpretazione, da un lato fondata sul concreto svolgimento del rapporto lavorativo tra le parti, dall’altro, al fine qui d’interesse, sulla formalità del nomen iuris utilizzato, a contestazione della non corrispondenza della qualificazione di licenziamento con la “reale ed effettiva realtà negoziale intercorsa tra le parti (contratti di incarico professionale)” (così al penultimo capoverso di pg. 28 del controricorso).

8. Il secondo motivo, relativo a violazione o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, commi 1, 2 e 3 e art. 8, per mancata applicazione della tutela reintegratoria; è infondato.

8.1. In proposito, è sufficiente rilevare l’inesistenza di un licenziamento privo di forma scritta, essendovi stato un atto (la nota del 17 novembre 2010), coerente con la qualificazione formale del rapporto tra le parti, correttamente qualificato alla stregua di licenziamento: non applicandosi pertanto il principio, invocato dalla lavoratrice, di inapplicabilità della tutela reintegratoria, indipendentemente dal requisito dimensionale dell’impresa datrice, qualora il licenziamento sia privo di forma scritta, indubbiamente corretto (Cass. 8 giugno 2005, n. 11946; Cass. 10 settembre 2012, n. 15106), ma non pertinente nel caso di specie.

9. Dalle superiori argomentazioni discende coerente l’inammissibilità del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale, con la compensazione integrale delle spese del giudizio tra le parti.

PQM

 

LA CORTE

dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale; dichiara interamente compensate le spese di giudizio tra le parti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2017

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