Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21267 del 09/08/2019

Cassazione civile sez. I, 09/08/2019, (ud. 21/06/2019, dep. 09/08/2019), n.21267

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria C. – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25159/2018 proposto da:

S.O., elettivamente domiciliato in Roma Via Barnaba Tortolini

30, presso lo studio dell’avvocato Ferrara Alessandro che lo

rappresenta e difende come da procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4202/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 19/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/06/2019 dal cons. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Roma, pubblicata il 19 giugno 2018, con cui è stato respinto il gravame proposto da S.O. nei confronti dell’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., comma 5 resa dal Tribunale della capitale.

La nominata Corte ha rilevato che il ricorrente non proveniva dalla regione dell’Ucraina ove fosse presente una situazione tale da far presumere che, in caso di rientro, lo stesso potesse andare incontro a una situazione di minaccia grave e ha altresì evidenziato come dagli anni 2014 e 2015 fosse operante, nel paese, una tregua che aveva comportato la diminuzione degli scontri e una tendenziale normalizzazione della situazione: ha pertanto escluso che potesse ivi ravvisarsi il conflitto armato di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). Ha aggiunto che la chiamata alle armi del ricorrente in caso di ripresa del conflitto avrebbe comunque costituito “un dovere cui il cittadino non può sottrarsi”; il giudice distrettuale ha inoltre escluso che il regime sanzionatorio previsto in Ucraina per la diserzione potesse rilevare ai fini della protezione sussidiaria di cui al cit. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). La Corte di merito ha infine escluso il riconoscimento della protezione umanitaria escludendo che il richiedente versasse in uno stato di vulnerabilità e non avendo lo stesso neanche documentato l’eventuale percorso di recupero di inserimento sociale intrapreso.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su tre motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione o mancata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, lett. e), con cui è stato recepito l’art. 9, comma 2, lett. e) dir. 2004/83/CE e 2011/95/UE, del D.Lgs. cit., art. 3, comma 5, artt. 14 e 16 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3. Viene lamentato che la Corte di Roma abbia del tutto omesso di valutare, o comunque non abbia adeguatamente considerato, il rischio, in capo al ricorrente, di essere costretto, se arruolato, a prendere parte a crimini di guerra o contro l’umanità. Viene altresì lamentato che la Corte di appello abbia escluso la sussistenza delle condizioni previste per l’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 sulla base di argomentazioni apodittiche e non suffragate da riferimenti a dati oggettivi e confrontabili, violando, in tal modo, l’obbligo di cooperazione istruttoria che le incombeva.

Il motivo è inammissibile.

La fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, lett. e), relativa alla sottoposizione del richiedente ad “azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’art. 10, comma 2”, tra cui sono ricompresi, alla lett. a), i crimini di guerra, integra una forma di persecuzione. La Corte di appello ha tuttavia escluso che il gravame avesse investito il profilo attinente al mancato riconoscimento dello status d rifugiato (cfr. in particolare pag. 2 della sentenza, ove è rilevato che nel proporre appello S.O. aveva chiesto gli fosse riconosciuto il diritto alla protezione sussidiaria e, in subordine, a quella umanitaria). Ove pure l’odierno ricorrente avesse fatto valere, col proprio gravame, la forma di protezione di cui qui si dibatte, egli avrebbe dovuto censurare la sentenza per il vizio di omessa pronuncia: ora, il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi; e se è vero che non è indispensabile che il ricorrente, denunciando un error in procedendo, faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 è tuttavia necessario che il motivo rechi univoco riferimento alla nullità del procedimento o della decisione determinata dal vizio lamentato (cfr. Cass. Sez. U. 24 luglio 2013, n. 17931, proprio in tema di non corretta deduzione del vizio di omessa pronuncia). D’altro canto, la formulazione della doglianza in esame avrebbe imposto di assolvere all’onere, rimasto inadempiuto, di riportare, nella sua integralità, la censura in discorso, così da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non fossero “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. 20 agosto 2015, n. 17049).

Il ricorrente non ha del resto nemmeno dedotto, col ricorso per cassazione, di aver allegato, in prime cure, la circostanza, rilevante ai fini del cit. art. 7, comma 2, lett. e) di aver rifiutato di prestare il servizio militare in un conflitto in cui erano consumati crimini di guerra: ed è anzi significativo che, secondo quanto precisato dallo stesso istante (cfr. pag. 9 del ricorso), egli, in sede di audizione personale, avesse spiegato di non aver risposto alla chiamata alle armi in quanto, nella sostanza, contrario alla guerra. L’allegazione posta a fondamento della censura qui scrutinata non era quindi stata nemmeno formulata avanti al Tribunale: il che spiega come il giudice di prime cure non se ne sia specificamente interessato (cfr. sempre pag. 9 del ricorso). Nè, d’altro canto, la questione avrebbe potuto essere presa in esame d’ufficio dal giudice, giacchè la proposizione del ricorso al tribunale nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197; in senso conforme: Cass. 29 ottobre 2018, n. 27336). In assenza della nominata allegazione, dunque, il tema in esame non avrebbe potuto costituire materia devoluta al giudice di appello, il quale avrebbe dovuto comunque dichiarare inammissibile ex art. 345 c.p.c., comma 1, la domanda che si fosse fondata su di essa: con l’ulteriore conseguenza che la mancata pronuncia, da parte della Corte territoriale, sul merito di tale domanda non potrebbe essere denunciata a norma dell’art. 112 c.p.c.; infatti, l’omessa pronuncia, qualora cada su una domanda inammissibile, non costituisce vizio della sentenza e non rileva nemmeno come motivo di ricorso per cassazione, in quanto alla proposizione di una tale domanda non consegue l’obbligo del giudice di pronunciarsi nel merito (ad es.: Cass. 25 settembre 2018, n. 22784; Cass. 2 dicembre 2010, n. 24445).

Il motivo è irritualmente formulato anche nella parte in cui censura la sentenza della Corte di appello in tema di protezione sussidiaria. L’istante non chiarisce i termini con cui abbia fatto valere in giudizio la protezione per il danno grave di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14: si osserva, in proposito, che, in base a quanto precisato dal richiedente, il ricorso da lui proposto avanti al Tribunale di Roma (pagg. 5 ss.) era tutto incentrato sul tema della chiamata alle armi, di cui si è precedentemente trattato (e quindi sul rischio di un personale coinvolgimento dello stesso S., nel conflitto, non già in qualità di semplice cittadino, ma come militare); l’atto di appello (per come richiamato a pag. 11 s. del ricorso) non contiene puntuali riferimenti alla protezione sussidiaria (se non, ellitticamente, nelle conclusioni): il ricorso per cassazione spiega, semmai, che con l’atto di impugnazione dell’ordinanza di primo grado erano state svolte deduzioni in punto di protezione umanitaria, evidenziandosi la volontà del richiedente di inserirsi nel tessuto sociale italiano (pag. 11); lo stesso atto contiene, poi, un fugace richiamo agli obblighi di acquisizione istruttoria (sempre a pag. 11), ma sul punto non risulta espressa alcuna doglianza riferibile alle diverse ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

In tale quadro, la censura formulata con riguardo alla previsione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, appare priva della necessaria specificità, giacchè non chiarisce il tema su cui il giudice del gravame si sarebbe dovuto pronunciare in base alle deduzioni ritualmente svolte, in primo e in secondo grado. Non varrebbe opporre, del resto, il mancato uso dei poteri istruttori ufficiosi in presenza di situazioni non precisamente dedotte, giacchè l’attenuazione del principio dispositivo derivante dalla “cooperazione istruttoria”, cui il giudice del merito è tenuto, in tema di protezione internazionale, non riguarda certamente il versante dell’allegazione, che anzi deve essere adeguatamente circostanziata (cfr. Cass. 31 gennaio 2019, n. 3016).

D’altro canto, anche a ipotizzare che il ricorrente avesse lamentato, con l’appello, un erroneo apprezzamento del giudice di primo grado circa le condizioni per la protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), andrebbe osservato quanto segue. Nel ricorso per cassazione non è dedotto che il Tribunale abbia mancato di attingere a specifiche fonti per descrivere la situazione presente in Ucraina, onde non può escludersi che la Corte di merito abbia inteso richiamarsi ad acquisizioni probatorie del giudizio di primo grado, reputandole utili ai fini della decisione di cui era investita; nello stesso ricorso per cassazione non è del resto affermato che, in base a quanto dedotto dall’odierno istante nel proprio atto di appello, tali ipotetiche fonti non fossero rappresentative dell’evolversi della situazione in quel paese (e cioè che la situazione di esso fosse nel frattempo gravemente mutata in senso peggiorativo). Vero è che l’istante menziona, a pag. 23 del proprio ricorso per cassazione, un report di Amnesty International riferito agli anni 2015 – 2016: ma ciò non basta a far ritenere che con l’appello fosse stata allegato (non semplicemente documentato) un effettivo mutamento della situazione accertata dal giudice di primo grado; peraltro, il documento riferisce di una situazione che “rimane instabile”, e non dell’insorgenza, nel paese, di una condizione di violenza indiscriminata, come tale idonea a giustificare la protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c).

2. – Col secondo mezzo è prospettata la violazione e mancata applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 116 c.p.c., comma 1, nonchè dell’art. 2697 c.c.. Il ricorrente rileva che il giudice di appello non aveva preso in considerazione la documentazione, formatasi successivamente all’introduzione giudizio di secondo grado e rilevante ai fini della decisione che attestava l’avvenuta conclusione, da parte sua, di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; è spiegato che tale circostanza, ove apprezzata, avrebbe potuto determinare un diverso convincimento del giudice di merito in ordine alla domanda di riconoscimento della protezione per motivi di carattere umanitario: ciò in ragione della documentazione, in tal modo fornita, dell’integrazione del richiedente asilo nel paese di accoglienza.

Il motivo è inammissibile.

La condizione di vulnerabilità atta a giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere sempre correlata a elementi legati alla vicenda personale del richiedente, apprezzata nella sua individualità e concretezza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455). La Corte di appello ha escluso che in capo al richiedente fosse rinvenibile una qualche situazione di vulnerabilità e tale affermazione non è stata efficacemente censurata. Quanto al tema dell’integrazione, va osservato, a prescindere da ogni ulteriore rilievo, che l’inserimento sociale è stato negato sulla base di un giudizio di fatto non sindacabile nella presente sede.

3. – Il terzo motivo oppone la violazione o mancata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 nonchè la mancata applicazione degli artt. 29 ss. Cost. e dell’art. 8 CEDU. E’ censurato il provvedimento impugnato nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto implicitamente irrilevanti i documentati legami familiari del ricorrente; quest’ultimo osserva, infatti, che in Italia risiedeva sua moglie, titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, e suo figlio: sicchè il mancato riconoscimento del diritto alla permanenza nel nostro paese determinava – a suo avviso – una palese violazione del diritto all’unità familiare.

Anche tale motivo è inammissibile.

A mente del rilievo per cui il diritto all’unità familiare, previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28, art. 8 della CEDU e artt. 3, 7, 9 e 10 della Convenzione di New York, ratificata con la L. n. 176 del 1991, non ha carattere assoluto nel nostro ordinamento, atteso che il legislatore, nel contemperamento dell’interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi dalle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri, può prevedere delle limitazioni (Cass. 10 settembre 2015, n. 17942), va osservato che il ricorrente non spiega se e come la questione posta con la censura in esame sia stata fatta valere in appello.

4. – Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

5. – Non vi sono spese processuali su cui pronunciare.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della la Sezione Civile, il 21 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

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