Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21266 del 09/08/2019

Cassazione civile sez. I, 09/08/2019, (ud. 21/06/2019, dep. 09/08/2019), n.21266

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria C. – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23248/2018 proposto da:

A.M., elettivamente domiciliato in Roma Via Cunfida 16,

presso lo studio dell’avvocato Visentin Maria che lo rappresenta e

difende come da procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2806/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 02/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/06/2019 dal cons. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Roma, pubblicata il 2 maggio 2018, con cui è stato respinto il gravame proposto da A.M. nei confronti dell’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., comma 5, del Tribunale di Roma. La nominata Corte ha negato che al ricorrente potesse essere riconosciuto lo status di rifugiato ed ha altresì escluso che lo stesso potesse essere ammesso alla protezione sussidiaria e a quella umanitaria.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su quattro motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Col primo motivo è lamentato l’omesso od erroneo esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione della condizione personale del richiedente. Viene evidenziato, in particolare, che il resoconto dell’istante risultava essere circostanziato e persuasivo, oltre che supportato da prove documentali relative ai procedimenti penali instaurati nei confronti del padre dello stesso ricorrente.

Il motivo è inammissibile.

La Corte di appello – occorre qui premettere – ha attribuito rilievo al fatto che, secondo quanto espressamente dichiarato da A.M. avanti al giudice di primo grado, lo stesso aveva lasciato il paese di origine per motivi di carattere economico, e cioè per cercare lavoro. Da ciò la Corte di merito ha desunto che motivi di impugnazione vertenti sulle domande di riconoscimento dello status di rifugiato, del diritto di asilo e del diritto alla protezione sussidiaria fossero “viziati da genericità ed astrazione rispetto alla concreta vicenda personale narrata”.

Ciò detto, il motivo in esame non coglie, nelle sue implicazioni giuridiche, la detta ratio decidendi: poichè, infatti, le motivazioni di carattere economico nulla hanno a che vedere con le ragioni di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza al gruppo sociale o opinione politica su cui si basa il riconoscimento dello status di rifugiato, e neppure sulla presenza del rischio effettivo di subire il grave danno che giustifica l’accesso alla protezione sussidiaria, per come descritto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 le domande formulate dall’istante, e riferite a tali forme di tutela, non potevano trovare accoglimento.

2. – Il secondo motivo oppone la mancata concessione della protezione sussidiaria, cui il ricorrente assume di aver diritto in ragione delle attuali condizioni socio politiche del paese di origine e, quindi, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14. Viene spiegato che la sussistenza di una grave condizione di pericolo per la sicurezza individuale all’interno del Bangladesh giustificava l’accoglimento della domanda avente ad oggetto detta forma di protezione.

Anche tale motivo è inammissibile.

La censura, nella sua articolazione, sembra far riferimento all’ipotesi di protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Ora, è senz’altro vero che la detta fattispecie prescinde da una personalizzazione del rischio. Come ha avuto modo di precisare la Corte di giustizia, nell’interpretare l’art. 15, lett. c), della direttiva del Consiglio n. 2004/83/CE (di cui la richiamata norma nazionale costituisce recepimento), l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova di essere specifico oggetto di minaccia a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale. Ciò implica che la protezione sussidiaria, nel caso in esame, vada accordata per il sol fatto che il richiedente provenga da territorio interessato dalla menzionata situazione di violenza indiscriminata: situazione in cui il ivello del conflitto armato in corso è tale che l’interessato, rientranco in quel paese o in quella regione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (Corte giust. 17 febbraio 2009, C-465/07, Elgafaji, richiamata da Corte giust. 30 gennaio 2014, C 285/12, Diak,tè; per la giurisprudenza nazionale cfr. pure, di recente: Cass. 13 maggio 2018, n. 13858; Cass. 23 ottobre 2017, n. 25083; Cass. 21 luglio 2017, n. 18130).

Nondimeno, la sentenza impugnata non fa menzione della prospettazione, da parte del richiedente, di una tale situazione di violenza generalizzata in presenza di conflitto armato; e nemmeno il ricorrente chiarisce di aver formulato precise deduzioni al riguardo nel corso del giudizio di merito (risultando tal fine non sufficiente il generico richiamo ai motivi di appello contenuto a pag. 3 del ricorso, ove non è nemmeno chiarito quali forme di protezione fossero state specificamente invocate dal ricorrente). Non si comprende, pertanto, la ragione per la quale la Corte di merito avrebbe dovuto occuparsi della situazione del Bangladesh, giacchè la proposizione del ricorso al tribunale nella materia della protezione internazionale dello straniero non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. 28 settembre 2015, n. 19197; in senso conforme: Cass. 29 ottobre 2018, n. 27336). Peraltro, anche a ipotizzare che in appello il ricorrente avesse lamentato il mancato riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c), l’assenza di statuizione sul punto da parte della Corte di merito avrebbe dovuto essere censurata in questa sede facendo valere I’error in procedendo dell’omessa pronuncia: ciò che non è avvenuto.

3. – Col terzo mezzo il ricorrente lamenta che il Tribunale e la Corte di appello abbiano errato nel non riconoscergli la protezione umanitaria, a norma del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6; lo stesso istante si duole, poi, della violazione del D.Lgs. cit., art. 19 che vieta l’espulsione dello straniero che possa essere perseguitato nel suo paese d’origine o che vi possa correre gravi rischi. Viene in sintesi dedotto che il rimpatrio della richiedente provocherebbe la violazione dei diritti fondamentali dello stesso, ponendolo in una situazione di estrema difficoltà economica e sociale e imponendogli condizioni di vita del tutto inadeguate.

Il motivo è infondato.

La Corte di merito ha rilevato che l’originaria condizione di povertà del richiedente non integrava, di per sè, una ragione idonea a giustificare la permanenza dello stesso in Italia. Tale affermazione appare pienamente corretta: come questa Corte ha di recente osservato, la protezione umanitaria, nel regime vigente ratione temporis, tutela situazioni di vulnerabilità, anche con riferimento a motivi di salute, da riferirsi ai presupposti di legge ed in conformità ad idonee allegazioni da parte del richiedente: ne deriva che non è ipotizzabile nè un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, nè quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di “estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico (Cass. 7 febbraio 2019, n. 3681).

4. – Il quarto motivo censura la sentenza impugnata per “violazione del principio di non refoulement”. Osserva l’istante che la pronuncia è impugnata aveva mancato di considerare la sua situazione personale, così da contravvenire al principio sopra richiamato.

Il motivo è palesemente infondato.

Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 vieta certamente, al comma 1, l’espulsione che sottoponga lo straniero al rischio delle persecuzioni per i motivi (di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) richiamati dall’istante, a pag. 18 del ricorso per cassazione; e analogo contenuto presenta l’art. 33 della Convenzione di Ginevra, pure evocato nell’atto di impugnazione. Tuttavia, a parte il fatto che nel presente giudizio non si controverte della legittimità di un decreto di espulsione, quanto, piuttosto, della spettanza, al richiedente, delle forme di protezione di cui si è fin qui trattato, l’esistenza di atti persecutori, come si è visto, non risulta essere stata accertata nè, a monte, allegata. Per il che le deduzioni svolte dal ricorrente appaiono non concludenti.

5. – Nulla è ovviamente da liquidare per spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della la Sezione Civile, il 21 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

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