Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21262 del 13/09/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 13/09/2017, (ud. 23/05/2017, dep.13/09/2017),  n. 21262

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10053-2012 proposto da:

F.R.M., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dagli avvocati ALBERTO PARTEXANO E SERGIO ALBERTO BALZARTETTI

giusta delega in calce;

contro

P.R.G.; SCUOLA MEDIA. STATALE LUIGI MAJNO; MINISTERO

ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA C.F. (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 370/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 10/05/2011 R.C.N. 880/2007.

Fatto

RILEVATO

1. che con sentenza in data 10 maggio 2011 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza n. 3434/08 del Tribunale di Milano che aveva rigettato la domanda di accertamento di mobbing e di condanna al risarcimento del danno proposta da F.R. nei confronti di P.R., Scuola media statale Luigi Majno, MIUR;

2. che la F. aveva adito il Tribunale, come esposto nella sentenza di appello, deducendo di aver prestato servizio dal 1987 come direttore dei servizi generali ed amministrativi alle dipendenze della Scuola media Luigi Majno e di essere stata vittima sin dal 2001 di attività persecutoria da parte della preside della scuola P.M.R.;

3. che avverso la sentenza di appello F.R.M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a 11 motivi, di cui assume l’ammissibilità ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c.. Sia l’Amministrazione che P.R. sono rimaste intimate.

Diritto

CONSIDERATO

1. che in via preliminare, va rilevato che il ricorso risulta notificato all’Avvocatura distrettuale dello Stato di Milano, e non all’Avvocatura Generale dello Stato, tuttavia, come già affermato da questa Corte (Cass., n. 19306 del 2016), il rispetto del primario principio della ragionevole durata del processo in presenza di evidenti plurime ragioni di inammissibilità e di infondatezza del ricorso, impone, invero, di definire con immediatezza il ricorso stesso senza che si debba pervenire allo stesso esito definitorio dopo fissazione del termine per la rinnovazione della notifica del ricorso.

La concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass., SSUU, ord. n. 6826 del 2010; Cass., n. 2723 del 2010, n. 15106 del 2013);

2. che con il primo motivo di ricorso è dedotta contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, sul primo punto della sentenza di appello: la sentenza impugnata richiede la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio, non richiesto dall’orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione. Tuttavia parte ricorrente ne aveva offerto prova nelle fasi di merito.

La sentenza di appello ha ritenuto che parte ricorrente non abbia dato prova del c.d. dolo specifico e non abbia indicato presunzioni gravi, precise e concordanti della situazione di mobbing, affermando che i contrasti tra la dirigente dell’Istituto e la F. in ordine alle modalità di svolgimento delle prestazioni di lavoro, non sono all’evidenza indicativi di un intento vessatorio del dirigente nei confronti del lavoratore. Anzi trattasi di provvedimenti resi necessari dal generale mal funzionamento dell’ufficio, nonchè di doveroso e corretto esercizio del potere assegnato alla preside nella sua qualità di dirigente.

Tale statuizione della Corte d’Appello richiede il dolo specifico, l’intenzionalità, che, invece, non sarebbero richiesti dalla giurisprudenza di legittimità, venendo in rilievo una condotta contrattualmente ed oggettivamente lesiva ex art. 2087 c.c., nonchè l’art. 2103 c.c..

La ritenuta necessità della intenzionalità comportava una omessa o insufficiente motivazione. Qualora non fosse stata ritenuta necessaria, il mobbing sarebbe stato accertato;

3. che con il secondo motivo di ricorso è dedotto il vizio di contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5: la sentenza impugnata richiede, per la configurazione del mobbing, la c.d. unica ragione di vessare e perseguitare il dipendente.

Richiamando la giurisprudenza di legittimità (in particolare Cass., S.U., n. 12735 del 2008), la ricorrente censura la nozione di mobbing assunta dalla Corte d’Appello, che dà rilievo alla intenzionalità o finalizzazione intenzionale di nuocere alla vittima, così richiamando il requisito penalistico del dolo non necessario;

4. che con il terzo motivo di ricorso è dedotta insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., sul primo punto della sentenza di appello: la sentenza male interpreta la consolidata fenomenologia della fattispecie di mobbing. La ricorrente ricorda come sia stata elaborata la nozione di mobbing, nonchè la giurisprudenza di merito, di legittimità e costituzionale intervenuta in merito.

Afferma che, in ragione dell’art. 2087 c.c., la tutela che viene di sovente riconosciuta al lavoratore è quella risarcitoria, e che l’art. 2059 c.c. deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale è risarcibile anche nell’ipotesi in cui in sede civile la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge. Nella specie, afferma la ricorrente di essere stata oggetto di abuso di controlli sulla malattia del lavoratore, con aggravamento della malattia, per cui doveva esserle riconosciuto il risarcimento del danno;

5. che con il quarto motivo di ricorso è dedotta omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5: la sentenza impugnata viola i criteri in tema di ripartizione dell’onere probatorio, nell’ambito della responsabilità contrattuale. Violazione del T.U. n. 81 del 2008, art. 28 e succ. modifiche, da parte del datore di lavoro in relazione al valutare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori.

Espone la ricorrente che in presenza di comportamenti che rappresentano l’esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione del principio di protezione delle condizioni di lavoro nonchè della tutela della professionalità, la fattispecie di responsabilità va ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro.

Pertanto, grava sul lavoratore allegare l’inadempimento del datore di lavoro, mentre spetta al datore di lavoro dimostrare di avere posto in essere tutte le misure possibili ad evitare il danno, anche in ragione di quanto previsto dal D.Lgs. n. 81 del 2008, in particolare art. 2, lettera o), e art. 28.

Prospetta quindi la ricorrente che la qualificazione in termini di responsabilità contrattuale del fenomeno del mobbing non necessita l’allegazione dell’elemento psicologico. Sebbene profili di responsabilità extracontrattuale, in ragione dei principi di correttezza e buona fede, possano concorrere con l’art. 2087 c.c., il fenomeno del mobbing rimane assorbito da tale ultima disposizione;

6. che i suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono in parte inammissibili e in parte non sono fondati;

6.1. che l’omessa pronunzia da parte del giudice di merito integra un difetto di attività che deve essere fatto valere dinanzi alla Corte di cassazione attraverso la deduzione del relativo “error in procedendo” e della violazione dell’art. 112 c.p.c., non già con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, giacchè queste ultime censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente scorretto ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa (Cass., n. 329 del 2016).

Pertanto, i motivi di ricorso sono inammissibili laddove prospettano con il richiamo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la violazione dell’art. 112 c.p.c.;

6.2. che il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; in caso contrario, questo motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass., sentenza n. 9233 del 2006);

6.3. che occorre rilevare che, come già affermato da questa Corte, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 17698 del 2014).

Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c. e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass. 26 marzo 2010, n. 7382).

La necessità della sussistenza dell’elemento soggettivo e cioè dell’intento persecutorio, è stata riaffermata da Cass. n. 2142 del 2017 anche in relazione ad una fattispecie in cui veniva prospettata una situazione di inattività lavorativa, nonchè da Cass. 2147 del 2017.

Pertanto il mobbing, venendo in rilievo il principio del neminem ledere, sia pure nel più ampio contesto di cui all’art. 2087 c.c., la cui violazione deve essere fatta valere con autonoma azione, di cui nella specie non è allegata la tempestiva proposizione, non è riconducibile a mera colpa, occorrendo la prova di un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

La sentenza Cass., S.U., n. 8438 del 2004, afferma espressamente che il termine mobbing può essere generalmente riferito ad ogni ipotesi di pratiche vessatorie, poste in essere da uno o più soggetti diversi per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro, e solo con riguardo alla specifica fattispecie che gli era devoluta ha affermato che venivano in rilievo violazioni di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di impiego, facendo riferimento ad atti di gestione del rapporto di lavoro che, indipendentemente da una concreta correlazione con un disegno di persecuzione reiterata, trovavano un diretto referente normativo nella disciplina della regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la loro sanzione di illiceità;

6.4. che peraltro, nella specie la Corte d’Appello, nel confermare la statuizione del Tribunale, affermava, con motivazione congrua e facendo corretta applicazione dei suddetti principi, che non solo mancava la dimostrazione dell’intento vessatorio, ma anche di tutti gli altri elementi integranti la fattispecie.

Rilevava che dagli atti di causa si apprendeva che tra il 2001 e il 2002, all’interno della scuola Majno si erano verificati una serie di episodi relativi alla appellante, essendo stato posto all’attenzione generale dalla preside un problema di mal funzionamento dell’Ufficio amministrativo diretto dalla F., richiamata, a più riprese, ai propri doveri di gestione.

Dopo avere ricordato le violazioni che erano state contestate alla F. (tra cui mancato invio all’Ufficio scolastico provinciale del conto consuntivo per gli anni finanziari 1998-1999 e 2000; mancata denuncia nei tempi prescritti dell’infortunio occorso ad una professoressa), la Corte d’Appello affermava che si trattava di episodi che denunciavano la presenza di una non congrua gestione degli uffici amministrativi che avevano indotto la preside a chiedere un’ispezione per irregolarità da parte del Provveditorato agli studi, nonchè l’eventuale nomina di un Commissario ad acta per la verifica dei conti in luogo della F..

Quindi, statuiva il giudice di secondo grado, i contrasti tra la dirigente dell’Istituto e la F. in ordine alle modalità di svolgimento delle prestazioni di lavoro non erano indicativi di un intento vessatorio del dirigente, ma si trattava di provvedimenti resi necessari dal generale mal funzionamento dell’ufficio, nonchè del doveroso e corretto esercizio del potere assegnato al preside quale dirigente. Non sussisteva quindi demansionamento, non potendo lo stesso essere integrato dal richiamo al dovere di adempiere ai propri compiti con diligenza e attenzione;

7. che con il quinto motivo di ricorso è dedotta omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per la mancata e/o errata considerazione della dequalificazione subita. Violazione del Trattato di Lisbona (1 dicembre 2009) che recepisce la Carta di Nizza con lo stesso valore del Trattato sulla Unione e per il catalogo completo dei diritti umani.

E’ censurata la statuizione che riteneva non sussistere il demansionamento ed il relativo danno.

Ad avviso della ricorrente la prova del demansionamento ben può essere soddisfatta sula base di presunzioni, fatta eccezione per il danno biologico. La prova era stata offerta in primo grado e riproposta in appello.

La ricorrente quindi ripercorre giurisprudenza di legittimità sul danno e sulla garanzia delle prerogative del lavoratore professionista da parte della Carta di Nizza, recepita dal Trattato di Lisbona.

Assume quindi che la nomofilachia della Corte include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza;

8. che il motivo è inammissibile in quanto si sostanzia nella illustrazione di giurisprudenza di legittimità, anche in relazione al Trattato di Lisbona e alla Carta di Nizza, senza porre in evidenza la rilevanza della stessa in relazione alle specifiche vicende oggetto della fattispecie in esame, come dedotte dinanzi al giudice del merito, non essendo a ciò sufficiente la mera affermazione “Tutto ciò è stato svolto da questa difesa in primo grado, e riproposto in sede di appello” (senza alcuna specificazione relativa a quanto prospettato e allegato in detti gradi di giudizio), effettuata, nella esposizione del motivo di ricorso, dopo aver esposto che, secondo la giurisprudenza, la prova del demansionamento si può dare per presunzioni tranne che per il danno biologico, e prima della illustrazione (“inoltre, meritano si essere segnalate” pag. 23 del ricorso) della giurisprudenza di legittimità in tema di demansionamento e mobbing (pagg. 23 -25 del ricorso);

9. che con il sesto motivo di ricorso è dedotta omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione alla mancata ammissione di mezzi istruttori che ha comportato una errata motivazione e reso incongrua la decisione: il giudice di secondo grado non ha ammesso le prove per testi e per CTU dedotte ed articolate dalla ricorrente.

Assume la ricorrente che le prove offerte, ma non ammesse, benchè si fosse proceduto ad interrogatorio libero delle parti in primo grado, avrebbero portato all’accoglimento del ricorso risultando provato il mobbing e il dolo specifico, benchè non richiesto.

Ricorda, quindi, la giurisprudenza di legittimità sulla indispensabilità della prova e sulle modalità di deduzione con il ricorso per cassazione del vizio di motivazione sull’istanza di ammissione di mezzo istruttorio o valutazione di un documento o delle risultanze probatorie, occorrendo la trascrizione degli stessi nel motivo di ricorso;

10. che il motivo è inammissibile.

La ricorrente ha richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo la quale il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la Cassazione deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (ex multis, Cass., n. 17915 del 2010). Tuttavia, omette di operare tale trascrizione ragionata nell’ambito della trattazione del motivo di ricorso, non offrendo quindi argomenti circostanziati per la decisività della censura ai fini del vaglio di rilevanza della stessa, e si limita ad affermare (pag. 26) che nel ricorso per cassazione “sono espressamente ritrascritte le prove offerte ma non ammesse in primo grado”.

Occorre ricordare che il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento (Cass., n. 5654 del 2017).

Ora nel fatto del ricorso per cassazione in esame sono riportate, venendo riportato il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio, le conclusioni istruttorie formulate nel primo grado di giudizio (pag. 9 del ricorso), disattese dal Tribunale. Quindi (pag. 10 e pag. 11 del ricorso) sono riportate le conclusioni formulate in appello, che alla lettura coincidono con quelle formulate in primo grado, disattese dalla Corte d’Appello.

Tuttavia, nè nel fatto del ricorso per cassazione, nè nello svolgimento del presente motivo, la ricorrente, nel richiamare tali deduzioni istruttorie, esplicita le ragioni, a proprio avviso, di decisività della censura, nè riporta il motivo di appello che avrebbe censurato la statuizione del primo giudice di diniego della prova per la non concludenza delle richieste formulate (come riportata nello stesso ricorso per cassazione a pag. 10).

In mancanza di ciò, la censura si sostanzia nella richiesta alla Corte di un’inammissibile riesame nel merito;

11. che con il settimo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, per l’errata valutazione del materiale di causa, in riferimento alla relazione della prof. D.P.A. e alla documentazione di parte ricorrente.

La Corte d’Appello non prendeva in considerazione le successive relazioni ispettive del 27 novembre 2003 e del 17 marzo 2004 (indicate come allegato 2 depositato da controparte in data 7 maggio 2007), nelle quali l’ispettore D.P.A. concludeva in senso positivo per la F., ritenendo non più necessarie ulteriori visite in quanto valutava sufficiente quanto esaminato, per esprimere un giudizio positivo sulla gestione contabile dell’istituzione scolastica in questione.

La relazione dell’ispettore precisava che sia il direttore dei servizi amministrativi, sia il dirigente scolastico, sono responsabili della gestione amministrativo contabile pertanto denigrare l’attività della signora F. screditare anche il lavoro del dirigente o dei dirigenti avevano gestito l’istituzione scolastica sino al 1997. aveva la documentazione di parte ricorrente depositata direttamente della scuola, voleva dire scolastici che Uguale sorte con il ricorso introduttivo, in particolare la relazione medico legale del dr. de.Pr.Ma. del (OMISSIS), nonchè la refertazione psicodiagnostica del (OMISSIS), dott. Z.M.;

12. che il motivo è inammissibile.

Qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata nè indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass., n. 8206 del 2016).

Nella specie, nè in relazione alle suddette relazioni ispettive, che la ricorrente assume prodotte dall’Amministrazione, nè in relazione alla documentazione medica suddetta, la ricorrente deduce in modo circostanziato la sottoposizione di relative argomentazioni difensive al giudice del merito, con conseguente inammissibilità della censura.

Va, rilevato, inoltre, che la censura non riporta il contenuto di una precedente relazione ispettiva a cui pure fa riferimento, lasciando in dubbio se la stessa fosse di segno avverso, e non censura adeguatamente la motivazione della Corte d’Appello sopra riportata che ha ricondotto le richieste di ispezione al funzionale esercizio dei compiti del preside quale dirigente, al fine della verifica del funzionamento dell’Ufficio amministrativo;

13. che con l’ottavo motivo di ricorso è dedotta contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione alla mancata e scorretta valutazione della ricerca della verità materiale: errato esercizio del proprio potere officioso, da parte del giudice di appello;

14. che il motivo è inammissibile atteso che alla rubrica sopra riportata la ricorrente fa seguire la giurisprudenza di legittimità sui poteri officiosi nel rito del lavoro senza circostanziare la censura di contraddittorietà della motivazione con riguardo alla fattispecie concreta;

15. che con il nono motivo di ricorso è dedotto il vizio di insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione alla mancata e scorretta valutazione della ricerca della verità materiale: il giudice di prime cure ha rimesso in termini la parte convenuta, ordinando la produzione di documentazione che doveva venire depositata con la memoria difensiva dal Ministero. Mancato rilievo officioso della genericità delle difese avversarie contenute nella memoria ex art. 416 c.p.c. e del principio di non contestazione;

16. che il motivo è inammissibile atteso che con lo stesso ci si duole di quanto si prospetta accaduto nel primo grado di giudizio, senza che sia dedotto e allegato, riportando la relativa censura, la sottoposizione della questione in appello, con conseguente inammissibilità della censura per novità della stessa, trovando applicazione i principi, già sopra richiamati, di cui a Cass., n. 8206 del 2016, n. 7048 del 2016;

17. che con il decimo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in relazione alla violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, circa la mancata valutazione sui caratteri di gravità, precisione e concordanza delle presunzioni di cui all’art. 2729 c.c..

Assume la ricorrente che tutti gli elementi raccolti in proprio favore potevamo portare con un grado di certezza e non di mera probabilità ad una condanna per mobbing;

18. che il motivo è inammissibile, oltre che in ragione dei principi di cui a Cass. n. 329 del 2016, sopra richiamati, perchè del tutto generico e non circostanziato, e pertanto inidoneo a consentire alla Corte il vaglio di rilevanza della censura;

19. che con l’undicesimo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 1226 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al mancato riconoscimento dei danni richiesti.

Erroneamente, la Corte d’Appello avrebbe ritenuto che parte ricorrente aveva effettuato una confusa allegazione relativamente agli aspetti patrimoniali o non patrimoniali del pregiudizio preteso, che al contrario richiederebbe una deduzione analitica e specifica circa i beni pregiudicati (reddito, reputazione, professionalità, assetti relazionali), atteso che ciò non era corretto alla luce di quanto richiesto e provato in corso di causa e dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, anche in relazione al Trattato di Lisbona e alla Carta di Nizza;

20. che il motivo è inammissibile perchè del tutto generico e non circostanziato in relazione a quanto sarebbe stato provato in corso di causa, e pertanto inidoneo a consentire alla Corte il vaglio di rilevanza della censura.

L’esposizione della giurisprudenza di legittimità è effettuata senza il necessario riferimento alla fattispecie concreta, benchè la ricorrente incentri la censura sull’applicazione dei principi enunciati dalla Corte.

Peraltro, è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. n. 8758 del 2017);

21. che pertanto il ricorso deve essere rigettato. Nulla spese.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2017

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