Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21260 del 05/10/2020

Cassazione civile sez. II, 05/10/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 05/10/2020), n.21260

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19385/2019 proposto da:

A.C., rappresentato e difeso dall’Avvocato GABRIELE

FARABECOLI, presso il cui studio a Roma, via Trionfale 5637,

elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei

Portoghesi 12, domicilia per legge;

– controricorrente –

nonchè

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE DI MILANO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2106/2019 della CORTE D’APPELLO DI MILANO,

depositata il 14/5/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 15/1/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Milano, con ordinanza del 19/3/2018, ha respinto il ricorso con il quale A.C., nato in (OMISSIS), ha impugnato il provvedimento della commissione territoriale che, in data 24/2/2017, gli ha negato il diritto alla protezione internazionale in qualità di rifugiato e quella sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 14 e 17, nonchè la protezione umanitaria di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il ricorrente ha proposto appello avverso l’indicata ordinanza.

Il ministero dell’interno ha resistito al gravame, del quale ha chiesto il rigetto.

La corte d’appello di Milano, con la sentenza in epigrafe, ha respinto l’appello.

A.C., con ricorso notificato in data 13/6/2019, ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza, dichiaratamente notificata il 14/5/2019.

Il ministero dell’interno ha resistito con controricorso notificato il 23/7/2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha riconosciuto, al fine di accordare la protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. b), cit., la sussistenza del rischio che l’appellante, in caso di rientro nel suo Paese d’origine, subisse tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante. La corte d’appello, in particolare, ha ritenuto che il crescente processo di democratizzazione si riflette anche sul sistema giudiziario e penitenziario.

1.2. Così facendo, tuttavia, ha osservato il ricorrente, la corte non ha considerato che, a norma dell’art. 14, lett. b), cit., costituisce “grave danno”, al fine di conseguire la protezione sussidiaria, “la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante”.

1.3. La pessima situazione del sistema carcerario del Gambia, ampiamente documentata da fonti internazionali, che la corte d’appello avrebbe dovuto consultare mediante l’esercizio del suo potere-dovere di procedere in via ufficiosa ad attività istruttoria ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, può, in effetti, ampiamente integrare, per la carenza di cibo, il sovraffollamento, l’abuso fisico e l’inadeguatezza delle condizioni sanitarie e dell’assistenza medica, quel che la norma definisce come tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante.

1.4. Scontare una pena detentiva in una prigione del Gambia, ha concluso il ricorrente, che è ricercato dalle autorità di quel Paese, costituisce, in definitiva, il danno grave di cui all’art. 14, lett. b), cit., che la sentenza impugnata ha, quindi, violato.

2.1. Il motivo è infondato. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h) e, in termini identici, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g), definiscono “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Il D.Lgs. n. 251 cit., art. 14, comma 1, a sua volta, dispone che il “danno grave” sussiste, tra l’altro, nell’ipotesi di “b)… tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine”. Nel caso di specie, la corte d’appello, con un accertamento in fatto che il ricorrente non ha censurato per omesso esame di uno o più fatti decisivi, ha evidentemente escluso la sussistenza di un siffatto danno: il giudice di merito, invero, dopo aver evidenziato che il richiedente aveva allegato di essersi allontanato dal Paese d’origine per sfuggire ad un’eventuale condanna per un reato comune e di essere, quindi, espatriato per il timore preventivo di essere incarcerato, per un verso, ha rilevato che, “secondo le sue stesse allegazioni”, l’istante “non sarebbe stato chiamato a discolparsi in alcun modo”, “non avrebbe cercato di chiarire la sua posizione” e “non risulta dimostrata l’apertura di un procedimento penale a suo carico, di cui il richiedente non ha avuto notizia, nonostante in Gambia siano rimasti familiari che l’avrebbero certamente informato al riguardo”, per altro verso, ha ritenuto che “la situazione attuale in Gambia sia radicalmente mutata a seguito delle ultime elezioni politiche del 2017, che hanno decretato la vittoria del partito di B.A., il quale ha inaugurato una stagione di pacificazione e di stabilità politica, con un crescente processo di democratizzazione (che consente di ritenere superato il periodo di crisi, ormai risalente a due anni or sono) che si riflette anche sul sistema giudiziario e penitenziario”, con la conseguenza che, poichè “il pericolo connesso alla persecuzione deve essere attuale”, la domanda doveva essere per ciò solo respinta. Non risulta, dunque, in fatto, che il ricorrente, al di là del generico timore di essere sottoposto al regime carcerario del suo Paese d’origine in caso d’arresto, corra il rischio effettivo di essere assoggettato, in tale eventualità, a tortura o ad altra forma di pena o trattamento inumano o degradante.

2.2. Nè rileva, a fronte dei fatti allegati dal richiedente così come incontestatamente esposti nella sentenza impugnata (l’istante “non sarebbe stato chiamato a discolparsi in alcun modo”, “non avrebbe cercato di chiarire la sua posizione” nè “risulta dimostrata l’apertura di un procedimento penale a suo carico, di cui il richiedente non ha avuto notizia”), il dedotto inadempimento da parte del giudice di merito al dovere di cooperazione istruttoria: in tema di protezione internazionale, infatti, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (Cass. n. 27503 del 2018). In sostanza, l’attenuazione del principio dispositivo, in cui la cooperazione istruttoria consiste, si colloca non sul versante dell’allegazione ma esclusivamente su quello della prova, dovendo, anzi, l’allegazione essere adeguatamente circostanziata: il richiedente, infatti, ha l’onere di presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la… domanda”, ivi compresi “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (D.Lgs. n. 251 cit., art. 3, commi 1 e 2), con la precisazione che l’osservanza degli oneri di allegazione si ripercuote sulla verifica della fondatezza della domanda medesima, sul piano probatorio, giacchè, in mancanza di altro sostegno, le dichiarazioni del richiedente sono considerati veritiere, tra l’altro, soltanto “se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi” (D.Lgs. n. 251 cit., art. 3, comma 5). Solo quando colui che richieda il riconoscimento della protezione internazionale abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorge, pertanto, il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, ed in quali limiti, nel Paese straniero di origine dell’istante si registrino i fenomeni tali da giustificare l’accoglimento della domanda (Cass. n. 17069 del 2018; Cass. n. 29358 del 2018, in motiv.). Il giudice, quindi, non può supplire, attraverso l’esercizio dei suoi poteri ufficiosi, alle deficienze probatorie del ricorrente sul quale grava, invece, l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto circa l’individualizzazione del rischio rispetto alla situazione del paese di provenienza. D’altra parte, una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e cioè di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente, essendo evidente che il giudice, mentre è tenuto a verificare anche d’ufficio se nel paese di provenienza sia obiettivamente sussistente una situazione talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente, non può, per il resto, essere chiamato – nè d’altronde avrebbe gli strumenti per farlo – a supplire a deficienze probatorie concernenti, come in precedenza esposto, la situazione personale del richiedente medesimo, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dal comma 5 del D.Lgs. n. 251 del 2007, già citato art. 3 (Cass. n. 29358 del 2018, in motiv.).

3.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita dell’appellante in caso di rientro nel suo Paese d’origine, in ragione della generale situazione socio-politica del suo Paese di provenienza, tale da fondare il riconoscimento in suo favore della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c) cit.. La corte, in particolare, ha ritenuto che la situazione nello Stato d’origine dell’istante non può essere considerata come un conflitto armato generatore di una violenza indiscriminata, tale da integrare una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona in relazione a tutti i soggetti abitanti nella regione, trattandosi, piuttosto, di timori che il richiedente riferisce alla sua situazione personale e non generalizzata.

3.2. Così facendo, tuttavia, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello non ha considerato che, a norma dell’art. 14, lett. c), cit., costituisce “danno grave”, quale requisito della protezione sussidiaria, “la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

3.3. Ed infatti, contrariamente a quanto affermato sul punto dalla sentenza, deve ritenersi che, proprio in base alle informazioni reperibili consultando le consuete fonti internazionali in materia, come i siti internet del Ministero degli esteri, di Amnesty International e di altre organizzazioni particolarmente accreditate, come Peace Reporter, l’attuale situazione del Gambia possa essere ritenuta di violenza indiscriminata, come riconosciuto dalla Corte di giustizia Europea, la quale ha ritenuto che la protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c), riguardante la minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale, non è subordinata alla condizione che il richiedente fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale.

3.4. D’altra parte, i margini di incertezza e di dubbio sulla veridicità della narrazione e sulla gravità della situazione oggettiva allegata dalla parte devono essere colmati dal giudice mediante l’esercizio del suo potere-dovere di procedere in via ufficiosa ad attività istruttoria ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e non già per rigettare la domanda per difetto di prova.

3.5. L’esame della sussistenza di una condizione di pericolo dovuta a violenza diffusa e non controllata nè controllabile dalle autorità statali, ha proseguito il ricorrente, non è stato svolto in modo adeguato, non essendo contestabile, in quanto riportata dalle fonti internazionali comunemente utilizzate in materia, la situazione di violenza indiscriminata che attualmente esiste in Gambia e l’impotenza delle autorità statuali a fronte di tale situazione. La situazione interna, nonostante la vittoria alle elezioni del 2016 di B.A., risulta ancora caratterizzata da una forte tensione e compromessa a tal punto da far ritenere che un civile, per la sua sola presenza sul territorio, potrebbe correre il serio e concreto rischio di subire un grave danno alla propria incolumità.

3.6. La sentenza impugnata, quindi, ha concluso il ricorrente, nella parte in cui ha negato al ricorrente la protezione sussidiaria, ha violato la norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8.

4.1. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha riconosciuto l’esistenza, in favore dell’appellante, di un buon livello di integrazione sociale e lavorativa, tale da fondare il riconoscimento in suo favore della protezione umanitaria di cui all’art. 5, comma 6, cit.. La corte, in particolare, ha ritenuto che aver frequentato corsi di addestramento professionale e di avere avuto un contratto di lavoro come lavapiatti, prorogato fino al 2020, non è sufficiente a delineare un quadro di apprezzabile integrazione sociale e lavorativa, che il rimpatrio potrebbe vanificare, trattandosi eventualmente solo di un meritorio tentativo in tal senso.

4.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, la corte non ha considerato che, ai fini della concessione della protezione umanitaria, ciò che rileva è la dimostrazione, a parte del ricorrente, di un positivo livello di integrazione in Italia e del suo buon inserimento nel tessuto socio-lavorativo del nostro Paese.

4.3. La sentenza impugnata, quindi, ha concluso il ricorrente, nella parte in cui ha negato al ricorrente il riconoscimento della protezione umanitaria, ha violato la norma del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

5.1. Con il quarto motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha assolto all’onere di cooperazione istruttoria, che nella materia in esame grava sull’autorità giudiziaria, nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale.

5.2. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, infatti, oltre a sancire un dovere di cooperazione del richiedente consistente nell’allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, pone a carco dell’autorità decidente un più incisivo obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente alla richiesta, soprattutto con riferimento alle condizioni generali del Paese d’origine, allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti. In particolare, deve ritenersi necessario l’approfondimento istruttorio officioso allorquando il richiedente descriva una situazione di rischio per la vita o l’incolumità fisica che derivi da sistemi di regole non scritte sub statuali, imposte con la violenza e la sopraffazione verso un genere, un gruppo sociale o religioso o semplicemente verso un soggetto o un gruppo familiare nemico, in presenza di tolleranza, tacita approvazione o incapacità a contenere o fronteggiare il fenomeno da parte delle autorità statuali: ciò proprio al fine di verificare il grado di diffusione ed impunità dei comportamenti violenti descritti e la risposta delle autorità statuali.

5.3. Nel caso in esame, invece, ha osservato il ricorrente, la corte d’appello non ha compiutamente assolto al dovere di cooperare nell’accertamento dei fatti rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale, limitandosi ad una valutazione sommaria e superficiale della situazione attuale in Gambia, la quale, al contrario, è caratterizzata, nell’area del Sahel, da una situazione di progressivo deterioramento, per l’attivismo di gruppi di matrice terroristica in tutta la regione e dall’accresciuto rischio di azioni ostili, in un quadro ben diverso da quello di pacificazione e stabilità politica sinteticamente descritto dalla sentenza impugnata.

6.1. Il secondo ed il quarto motivo, da esaminare congiuntamente per l’intima connessione dei temi trattai, sono infondati. In effetti, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, va accertata in conformità della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), secondo cui il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria: il grado di violenza indiscriminata deve aver, pertanto, raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019).

6.2. La sentenza impugnata, tuttavia, a seguito di un accertamento in fatto che non è stato oggetto di una specifica censura per il mancato esame di uno o più fatti decisivi, ha ritenuto l’insussistenza di tale eventualità. La corte d’appello, in particolare, alla luce delle “più recenti fonti COI (Country of Origin Information”)”, ed avvalendosi, quindi, dei poteri officiosi d’indagine e d’informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3), ha accertato che “la situazione nello Stato… non può… essere qualificata come conflitto armato generatore di una violenza indiscriminata, tale da integrare una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona in relazione a tutti i soggetti abitanti nella regione, come richiesto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14: i timori riportat(i) dalla richiedente, d’altronde, si riferiscono ad una sua situazione personale, e non già generalizzata”.

6.3. Nè rileva il rilievo del ricorrente al fatto che le informazioni sulla base delle quali il giudice di merito ha deciso sarebbero smentite da altre fonti internazionali, come i siti internet del Ministero degli esteri, di Amnesty International e di altre organizzazioni particolarmente accreditate, come Peace Reporter. Questa Corte, in effetti, ha più volte chiarito che, ai fini dell’accertamento della fondatezza o meno di una domanda di protezione internazionale proposta ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il giudice del merito è tenuto, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, a un dovere di cooperazione che gli impone di accertare la situazione reale del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi d’indagine e di acquisizione documentale, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente; e ciò, in particolare, quando lo straniero, che richieda il riconoscimento della protezione internazionale, abbia adempiuto all’onere di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, sorgendo, in tal caso, il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, e in quali limiti, nel Paese di origine dell’istante si registrino fenomeni di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, che espongano i civili a minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, ai sensi del D.Lgs. n. 251 cit., art. 14, lett. c), (Cass. n. 17069 del 2018). Peraltro, onde potersi affermare adempiuto l’onere di cooperazione, è essenziale che il giudice del merito rifugga peraltro da formule generiche e stereotipate, e specifichi, in particolare, sulla scorta di quali fonti abbia provveduto a svolgere l’accertamento richiesto dal momento che, senza una simile specificazione, sarebbe del tutto vano discettare di avvenuto concreto esercizio di un potere di indagine aggiornato. Il giudice di merito, in effetti, nel fare riferimento alle cd. fonti privilegiate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve indicare la fonte in concreto utilizzata nonchè il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione (Cass. n. 13449 del 2019). Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che essa indica le fonti in concreto utilizzate dal giudice di merito (e cioè le “più recenti fonti COI”) ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da dette fonti, consentendo in tal modo alla parte la duplice verifica della provenienza e della pertinenza dell’informazione. La Corte di Cassazione, d’altra parte, non può spingersi sino alla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice del merito laddove nel motivo di censura non vengano evidenziati, com’è accaduto nel caso di specie, precisi riscontri idonei ad evidenziare che le informazioni sulla cui base il giudice territoriale ha deciso siano state superate da altre e più aggiornate fonti qualificate. Solo laddove dalla censura emerga la precisa dimostrazione di quanto precede, infatti, potrebbe ritenersi violato il cd. dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice del merito, nella misura in cui venga cioè dimostrato che quest’ultimo abbia deciso sulla scorta di notizie ed informazioni tratte da fonti non più attuali. In caso contrario, la semplice e generica allegazione dell’esistenza di un quadro generale del Paese di origine del richiedente la protezione differente da quello ricostruito dal giudice di merito si risolve nell’implicita richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie e nella prospettazione di una diversa soluzione argomentativa, entrambe precluse in questa sede. In effetti, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito in tema di protezione internazionale non è sufficiente la mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice di merito, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal predetto giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali. A tale riguardo, la censura deve contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla Corte di cassazione l’effettiva verifica circa la predetta violazione del dovere di collaborazione istruttoria (Cass. n. 26728 del 2019). Nel caso di specie, al contrario, il ricorrente si è limitato a svolgere un generico riferimento ai siti internet del Ministero degli esteri, di Amnesty International e di altre organizzazioni particolarmente accreditate, come Peace Reporter, peraltro del tutto privo della riproduzione in ricorso del contenuto effettivo delle informazioni asseritamente desumibili dagli stessi (salvo che per un immotivato riferimento alla situazione del Sahel, non risultando neppure dedotto che il richiedente proveniva da tale area), per cui la censura risulta anche inammissibile per difetto della necessaria specificità.

7. Il terzo motivo è infondato. La corte d’appello, invero, ha ritenuto che non sussiste alcuna specifica situazione di vulnerabilità che possa giustificare la protezione invocata dal richiedente sul rilievo, per un verso, che la frequenza di alcuni corsi di addestramento professionale ed il lavoro come lavapiatti a partire dal 2018 non sono sufficienti a delineare un quadro di apprezzabile integrazione sociale e lavorativa, che il rimpatrio potrebbe vanificare, e, per altro verso, che il ricorrente ha mantenuto in Gambia il suo nucleo familiare d’origine, in tal modo escludendo che il suo rimpatrio costituisca uno sradicamento a favore di una terra in cui non avrebbe più legami. Si tratta, com’è evidente, di un accertamento in fatto che può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata: ciò che, nel caso di specie, non è accaduto, non avendo il ricorrente, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame sia stato omesso dal giudice di merito nonchè il “dato”, testuale o extratestuale, da cui gli stessi risultino esistenti, il “come” e il “quando” tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti ed, infine, la loro “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.).

8. Il ricorso, per l’infondatezza di tutti i motivi nei quali risulta articolato, dev’essere, quindi, rigettato.

9. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

10. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

la Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al ministero controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 2.100,00, oltre alle spese prenotate a debito; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2020

 

 

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