Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21254 del 05/10/2020

Cassazione civile sez. II, 05/10/2020, (ud. 23/07/2020, dep. 05/10/2020), n.21254

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19716/2019 proposto da:

H.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI GROTTAROSSA

50 A, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO MORI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

contro

COMMISSIONE TERRITORIALE per il RICONOSCIMENTO della PROTEZIONE

INTERNAZIONALE di CASERTA, in persona del legale rappresentante pro

tempore;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, depositato il 14/05/2019,

n. cronol. 4185/2019 relativo al procedimento R.G.n. 10641/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/07/2020 dal Presidente e Relatore Dott. FELICE MANNA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

H.D., cittadino del (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Napoli avverso la decisione della Commissione territoriale di Caserta, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda deduceva di essersi dovuto allontanare dal suo Paese a causa delle condizioni di forte disagio economico suo e della sua famiglia, e di non potervi rientrare per il timore di essere ucciso da malviventi, alcuni dei quali egli aveva riconosciuto, essendo stato casualmente testimone di una rapina. Aggiungeva che un suo fratello era stato sequestrato in Libia a scopo di estorsione e che, data la povertà della sua famiglia, egli tenuto a reperire il denaro necessario a far sposare le sorelle.

Con decreto del 14.5.2019 il Tribunale rigettava la domanda. Riteneva detto giudice che il racconto del richiedente fosse generico, incoerente e contraddittorio sia quanto alle dedotte condizioni di povertà della famiglia, sia riguardo alla pretesa persecuzione ad opera di malviventi.

Avverso detto decreto il richiedente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

Il Ministero dell’Interno resiste con controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Il primo motivo deduce, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3 e 7 e T.U. n. 286 del 1998, art. 43, comma 2. Si sostiene che il Tribunale avrebbe erroneamente ponderato gli elementi emersi e non adeguatamente valutato la condizione personale del richiedente, in relazione alla scomparsa del fratello di lui e al fatto che il ricorrente debba mantenere ben tre famiglie; che egli sarebbe vittima di “una forma di persecuzione fondata sulla violenza fisica”; che il Tribunale avrebbe declinato ogni tutela internazionale di situazioni non tipizzate e disapplicato il principio dell’onere attenuato della prova; e che non avrebbe cooperato nell’accertamento dei fatti, come richiesto dall’asimmetria della rispettiva posizione delle parti.

1.1. – Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

1.1.1. – Inammissibile allorchè censura l’apprezzamento dei fatti, notoriamente insindacabile innanzi a questa Corte di legittimità, anche sotto la lente dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la cui riformulazione, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S.U. n. 8053/14).

1.1.2. – La doglianza è infondata, invece, quanto all’asserito atipicità dei casi di riconoscimento dello status di rifugiato, atteso che proprio il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 (di cui senza costrutto logico-giuridico il motivo assume la derelizione) consente detta protezione nelle sole ipotesi di persecuzione di per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, sicchè è esclusa a tal fine l’ipotesi di una persecuzione derivante da una violenza fisica considerata in sè e per sè e non – come invece si ricava dall’art. 7, comma 2, lett. a) D.Lgs. cit. – quale forma della persecuzione di cui all’art. 1 A della Convenzione di Ginevra, richiamata dal comma 1 dello stesso art. 7 cit..

2. – Col secondo mezzo è allegata, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione del T.U. n. 286 del 1998, art. 43, comma 2 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. Nel denegare la protezione sussidiaria, escludendo che i fatti esposti fossero riconducibili alle ipotesi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, il Tribunale ha escluso a priori che fatti diversi da quelli descritti da detta norma possano integrarla, non considerando che anche una violenza domestica può ricondursi nell’ambito dei trattamenti inumani o degradanti.

2.1. – Il motivo è infondato.

Le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs n. 251 del 2007, art. 5, lett. b), (v. n. 9043/19; solo apparentemente difforme la n. 3758/18, perchè in realtà riferita ad un caso di persecuzione da parte di una setta religiosa, caso in cui occorreva verificare se le autorità del Paese di provenienza fossero in grado di offrire adeguata protezione al ricorrente).

3. – Il terzo motivo espone, ancora, la violazione o falsa applicazione del T.U. n. 286 del 1998, art. 43, comma 2, relativamente alla protezione umanitaria. Richiamato il carattere residuale della protezione umanitaria e affermata la possibilità di riconoscere i seri motivi di carattere umanitario anche nella sproporzione tra i contesti socio-politici del Paese d’accoglienza e di quello d’origine, parte ricorrente sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto riscontrare “in tali allegazioni di violenza attuate in ambito familiare, i motivi di carattere umanitario legittimanti il divieto di allontanamento dal territorio italiano, al fine di evitare qualsivoglia rischio di subire nuovamente tali condotte in caso di rimpatrio”. Deduce, altresì, che il Tribunale avrebbe dovuto applicare il T.U. n. 286 del 1998, art. 18-bis, che prevede una particolare forma di tutela per le vittime di violenza domestica, e che, ad ogni modo, l’inserimento socio-lavorativo del richiedente in Italia avrebbe giustificato la protezione richiesta.

3.1. – Il motivo è infondato.

Il giudizio di comparazione, che parte ricorrente lamenta essere mancato nel provvedimento del Tribunale nell’escludere la protezione umanitaria (applicabile ratione temporis alla fattispecie), presuppone pur sempre la vulnerabilità del richiedente. Questa ricorre in presenza di alcuna delle condizioni di cui al T.U. n. 286 del 1998, art. 19, ovvero nell’ipotesi della c.d. vulnerabilità di ritorno, quale risultato, cioè, di un raggiunto livello di integrazione nel Paese di accoglienza che, rapportato a quello che il richiedente ritroverebbe nel Paese d’origine, faccia prevedere a carico del richiedente la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. n. 4455/18). Solo in presenza di elementi di un’effettiva integrazione tale giudizio comparativo ha ragion d’essere, sicchè correttamente il giudice, avendo ritenuto che non emergesse nè radicamento nè vulnerabilità, non l’ha operato.

Nè ha attinenza alcuna alla fattispecie il richiamo alla protezione da violenza domestica. Quest’ultima, oggetto della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. n. 77 del 2013), è espressamente riferita alla donna, in quanto vittima di “violenza domestica”. Detta espressione designa, ai sensi dell’art. 3, lett. b) della Convenzione, “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Pertanto, considerata la regola ermeneutica di cui all’art. 31, punto 4, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (secondo cui “Si ritiene che un termine o un’espressione abbiano un significato particolare se verrà accertato che tale era l’intenzione delle parti”), è da escludere che le parti contraenti avessero inteso altro se non quanto palesato dall’espressione anzi detta, così come formulata nella Convenzione di Istanbul. Ed è, altresì, da escludere ogni interpretazione estensiva, essendo di regola inapplicabile nel diritto internazionale la c.d. interpretazione parrocchiale (cioè quella basata sui criteri di interpretazione previsti dal diritto interno).

4. – In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1 c.p.c., come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17.

5. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo.

6. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre alle spese prenotate e prenotande a debito.

Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2020

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