Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21251 del 05/10/2020

Cassazione civile sez. II, 05/10/2020, (ud. 21/07/2020, dep. 05/10/2020), n.21251

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – est. Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22388/2019 proposto da:

K.T., rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMO

GILARDONI, giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

e contro

PROCURA GENERALE PRESSO CORTE DI CASSAZIONE;

– intimata –

avverso il decreto di rigetto n. 3066/2019 del TRIBUNALE di BRESCIA,

depositato il 04/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/07/2020 dal Presidente Dott. FELICE MANNA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

K.T., cittadino (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Brescia avverso la decisione della locale Commissione territoriale, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda deduceva varie vicende inerenti alla guerra civile ivoriana degli anni 2010-2011.

Il Tribunale con decreto del 4.6.2019 rigettava la domanda. In particolare, e per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, respinta la domanda di protezione internazionale, riteneva non sussistenti le condizioni della protezione umanitaria (applicabile ratione temporis), per difetto di situazioni di vulnerabilità soggettiva e per l’insufficienza della sola fattiva volontà d’inserimento socio-lavorativo in Italia.

Avverso tale pronuncia il richiedente propone ricorso, affidato a due motivi. Vi resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – In via preliminare il ricorrente chiede che sia sollevata questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, così come modificato dalla L. n. 46 del 2017, art. 6, comma 1, n. 3 septies, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1; art. 24 Cost., commi 1 e 2; art. 111 Cost., commi 1, 2 e 7, “nella parte in cui stabilisce che il procedimento è definito, con decreto non reclamabile, entro 60 giorni dalla presentazione del ricorso”, in quanto detta normativa elimina il doppio grado di giudizio, nonostante la materia riguardi i diritti fondamentali della persona, ed esclude ogni possibilità di correggere errori relativi all’accertamento dei fatti, per il quale, in base alla Direttiva 32/2013 UE, sul giudice di merito grava uno specifico obbligo di cooperazione istruttoria.

1.1. – L’eccezione è manifestamente infondata.

Questa Corte Suprema ha già più volte affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 13, per violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che il procedimento per l’ottenimento della protezione internazionale è definito con decreto non reclamabile, in quanto è necessario soddisfare esigenze di celerità, non esiste copertura costituzionale del principio del doppio grado ed il procedimento giurisdizionale è preceduto da una fase amministrativa che si svolge davanti alle commissioni territoriali deputate ad acquisire, attraverso il colloquio con l’istante, l’elemento istruttorio centrale ai fini della valutazione della domanda di protezione (v. nn. 27700/18 e 28119/18, cui adde, non massimate ed ex pluribus, nn. 15785/20. 14347/20 e 13592/20).

2. – Con l’unico motivo d’impugnazione parte ricorrente denuncia, in relazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, in quanto – si sostiene – il Tribunale non ha considerato che la condizione di vulnerabilità presuppone un bilanciamento tra il grado di inserimento sociale raggiunto e la condizione di provenienza, avuto riguardo al diritto di condurre una vita dignitosa. Tale indagine, prosegue il motivo, non è stata compiuta, sebbene fosse documentato il rapporto di lavoro ed il percorso d’inserimento sociale.

2.1. – Il motivo è infondato.

La vulnerabilità, da cui dipende la protezione umanitaria, non “presuppone- a monte, ma semmai legittima a valle il giudizio di comparazione di cui parte ricorrente lamenta, senza fondamento, l’omissione.

Ed infatti, in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine: n. 4455/18).

A tal fine, il giudice è chiamato a verificare l’esistenza di seri motivi che impongano di offrire tutela a situazioni di vulnerabilità individuale, anche esercitando i poteri istruttori ufficiosi a lui conferiti, ma è necessario che il richiedente indichi i fatti costitutivi del diritto azionato e cioè fornisca elementi idonei a far desumere che il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (v. n. 13573/20).

Fatti costitutivi che, a loro volta, devono essere irrelati o alle situazioni di vulnerabilità di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. h-bis), o ad un effettivo e già attuato radicamento del richiedente nella realtà socio-economica del Paese d’accoglienza, per il quale non è sufficiente il solo svolgimento di attività lavorativa.

Situazioni tutte di cui, nella fattispecie. il Tribunale ha rilevato la mancata specifica allegazione, non scalfita dal motivo in esame, che si limita ad enunciare in maniera apodittica di aver documentato “il rapporto di lavoro ed il percorso di inserimento sociale” del richiedente.

3. – In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17.

4. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo.

5. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito. Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2020

 

 

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