Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21246 del 20/10/2016

Cassazione civile sez. III, 20/10/2016, (ud. 07/07/2016, dep. 20/10/2016), n.21246

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7517/2016 proposto da:

C.G., in proprio ed in qualità di esercente la

potestà parentale dei figli C.C. e

C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BENACO 5, presso lo

studio dell’avvocato MARIA CHIARA MORABITO, rappresentato e difeso

dagli avvocati MASSIMO BELELLI, FLAVIO BELELLI giusta procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

e contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente pro

tempore, domiciliata ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che da cui è rappresentata e

difesa per legge;

– resistente –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il

24/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/07/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito l’Avvocato MASSIMO BELELLI;

udito l’Avvocato dello Stato BARBARA TIDORIE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Ancona, con decreto pubblicato in data 24.7.2015, ha rigettato il reclamo proposto da C.G., in proprio e n.q. di esercente la potestà genitoriale sui minori C. e D., B.G. e B.P. avverso il provvedimento del Tribunale di Ancona, in data 17.2.2015, che aveva dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento danni ex L. n. 117 del 1988.

La Corte territoriale, premessa la inapplicabilità “ratione temporis” delle modifiche alla L. n. 117 del 1988, introdotte dalla L. 27 febbraio 2015, n. 18, ha ritenuto che la contestazione della “colpa grave” mossa dai reclamanti ai magistrati della Procura della Repubblica di Forlì in ordine alla errata qualificazione giuridica -come reato di “minacce gravi”, anzichè come reato di “atti persecutori” ex art. 612 bis c.p. – dei fatti portati a conoscenza della AG con la querela presentata, nei confronti di D.F.G., da B.S., successivamente uccisa dall’indagato, non potesse trovare accesso al giudizio risarcitorio di merito, incorrendo nella preclusione posta dalla clausola di salvaguardia L. n. 117 del 1988, ex art. 2, comma 2, che sottraeva all’azione di responsabilità “l’attività di interpretazione delle norme di diritto” e “quella di valutazione del fatto e delle prove”.

Il Giudice di appello rilevava che anche l’altra contestazione, rivolta ai magistrati della Procura, di aver omesso del tutto di esaminare la querela e gli atti ad essa allegati (documenti dai quali -secondo i reclamanti- emergeva in modo inequivoco la condotta di “stalking” posta in essere dal querelato), veniva ad incontrare i limiti di insindacabilità dell’attività di apprezzamento dei dati probatori, non essendo ravvisabile – nè essendo stato dedotto – nella fattispecie un errore sulla incontrovertibile esistenza od inesistenza di un fatto che, soltanto, avrebbe potuto integrare la responsabilità per “colpa grave” L. n. 117 del 1988, ex art. 2, comma 3, lett. b) e c), ed inoltre aggiungeva che doveva ritenersi coerente con gli elementi istruttori acquisiti al procedimento penale la qualificazione del reato secondo la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 c.p., comma 2, atteso che la B. si era riavvicinata sentimentalmente al D.F. nei giorni immediatamente antecedenti la presentazione della querela, mentre i documenti allegati a quest’ultima fornivano indicazioni sulla pericolosità del soggetto, ma non anche elementi univoci tali da consentire una diversa qualificazione giuridica della fattispecie concreta sussumendola nella ipotesi prevista dall’art. 612 bis c.p..

Il decreto è stato impugnato per cassazione, con un unico motivo, per violazione del diritto comunitario, deducendo i ricorrenti la incompatibilità della L. n. 117 del 1988, artt. 2 e 3: con l’art. 41 comma 3, art. 47 della Carta fondamentale del diritto della Unione Europea; con l’art. 19, comma 2 del TUE; con il principio di responsabilità degli Stati membri per i danni causati ai singoli dalla violazione ad essi imputabile del diritto comunitario, anche ad opera di uno dei propri organi giurisdizionali.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri non ha svolto difese, intervenendo alla udienza di discussione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso viene dedotta la violazione dell’art. 41, comma 3, art. 47 della Carta fondamentale del diritto della Unione Europea; dell’art. 19, comma 2 del TUE; del principio di responsabilità degli Stati membri per i danni causati ai singoli dalla violazione ad essi imputabile del diritto comunitario, anche ad opera di uno dei propri organi giurisdizionali, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

2. Sostengono i ricorrenti che, sebbene alla nuova L. 27 febbraio 2015, n. 18, non dovesse riconoscersi efficacia retroattiva (come statuito da questa Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 25216 del 15/12/2015), tuttavia le previgenti disposizioni della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 2 (clausola di salvaguardia) e comma 3, lett. a), b) e c), dovevano ritenersi incompatibili con l’ordinamento comunitario ed in particolare con il principio di responsabilità dello Stato membro per i danni cagionati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili, in quanto principio inerente al sistema del Trattato (cfr. Corte di Giustizia CE, sentenze 19 novembre 1991, Francovich e a.; 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93 Brasserie du Pecheur e Factortame), esteso dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia CE in data 30.9.2003 in causa C-224/01 Kobler; in data 13.6.2006 in causa C-173/03 Traghetti del Mediterraneo; ed in data 24.11.2011 in causa C-379/10 Commissione/Repubblica italiana, anche ai danni cagionati nell’esercizio dell’attività giurisdizionale ed indipendentemente dalla natura di organo giurisdizionale di ultimo grado dell’Ufficio giudiziario resosi responsabile, con la conseguenza che la Corte di appello, decidendo il rigetto del reclamo (e confermando la inammissibilità dell’azione risarcitoria proposta ex L. n. 117 del 1988) sulla base di dette disposizioni della legge statale, era incorsa in “violazione manifesta” del diritto comunitario.

3. Occorre preliminarmente osservare che i ricorrenti, nella esposizione del motivo di ricorso, vengono spesso a sovrappone, criticando il decreto impugnato, i temi evidentemente distinti – della incompatibilità delle norme nazionali con l’ordinamento comunitario (con conseguente obbligo di interpretazione conforme, ovvero, in caso ciò non sia possibile, di disapplicazione della norma statale qualora contrastante con norme comunitarie direttamente applicabili nell’ordinamento interno, o ancora in difetto di tale condizione, con la rimessione della questione di legittimità costituzionale della norma statale incompatibile per violazione del Trattato in relazione agli artt. 11 e 117 Cost.), diretta ad inficiare la validità del decreto impugnato per cassazione, ed invece il tema della eventuale responsabilità dello Stato membro per i danni derivati dalla violazione del diritto comunitario commessa dai propri organi amministrativi o giudiziari (che implica un autonomo giudizio di accertamento della condotta violativa, secondo i parametri di valutazione della responsabilità indicati dalla stessa Corte di Giustizia CE, ed in caso di accertamento della responsabilità la conseguente pronuncia di condanna dello Stato al risarcimento del danno).

4. Orbene la questione che viene sottoposta all’esame della Corte, deve essere correttamente delimitata alla verifica di “compatibilità” delle norme della L. n. 117 del 1988, con le norme dell’ordinamento comunitario e la interpretazione vincolante che delle stesse ha fornito la Corte di Giustizia (tale è, infatti, la questione che viene sollevata con la denuncia del vizio di violazione di norme e di principi di diritto comunitario dedotta con il motivo di impugnazione), esulando pertanto dal sindacato di legittimità qualsiasi accertamento in fatto – da demandare ad autonomo giudizio di merito concernente eventuali azioni risarcitorie da proporsi nei confronti dello Stato membro – relativo al diverso titolo di illecito per “manifesta violazione del diritto (comunitario) vigente” da parte degli organi giurisdizionali di merito intervenuti nella fase preliminare del giudizio avente ad oggetto la responsabilità civile dei magistrati, come disciplinata dalla L. n. 117 del 1988, art. 5, applicabile “ratione temporis” (cd. “filtro” di ammissibilità, istituto abbandonato dalla novella della L. n. 18 del 2015, ma da ritenersi, peraltro, pienamente conforme ai principi di diritto espressi dalla Corte di Giustizia, nelle sentenze sopra richiamate, come rilevato anche nel precedente di questa Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 41 del 03/01/2014 che, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale – Corte cost. n. 497/2000 -, ha evidenziato come il “filtro” costituisca attuazione di quegli stessi requisiti costituzionali di indipendenza ed imparzialità dell’organo giudiziario che sono posti in funzione della garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini e che nelle sentenze della Corte di Giustizia “i principi di autonomia e di indipendenza del giudice (e la loro valenza costituzionale) non sono messi affatto in discussione, venendo, tuttavia, collocati su un piano differente rispetto a quello su cui si poggia la responsabilità dello Stato per l’illecito comunitario, che non attiene a quella personale del giudice”, potendo ulteriormente aggiungersi che la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea individua espressamente, all’art. 47, comma 2, come precondizione essenziale per garantire la effettività della tutela dei diritti, che la causa sia esaminata “da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge”).

5. Definito in tal modo l’ambito oggettivo del sindacato di legittimità richiesto alla Corte, deve premettersi che le pronunce della Corte di Giustizia, sopra richiamate, hanno interessato – e non poteva essere diversamente, atteso che in caso contrario le questioni pregiudiziali sarebbero incorse nella dichiarazione di irricevibilità: cfr. Corte di giustizia UE, sentenza 16.6.2015, in causa C-62/14, Gauweiler ed altri, punto 25, secondo cui “Il rifiuto della Corte di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora risulti in modo manifesto che l’interpretazione o l’esame di validità richiesto relativamente ad una norma dell’Unione non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto della controversia nel procedimento principale, oppure qualora il problema sia di natura ipotetica, o anche quando la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni che le vengono sottoposte (v., in tal senso, sentenza Melloni, C-399/71, EU:C:2013:107, punto 29 e la giurisprudenza ivi citata)…”) la responsabilità civile dello Stato per danni derivanti da esercizio di attività giurisdizionale, in conseguenza di violazioni di diritti riconosciuti ai singoli dall’ordinamento comunitario (id est: per danni ingiusti conseguenti alla violazione di norme comunitarie attributive di tali diritti): nel caso di specie, al contrario, la questione della incompatibilità comunitaria della norma statale viene sollevata, non in relazione alla lesione, imputabile ad esercizio della funzione giudiziaria, di un diritto riconosciuto ai ricorrenti che trova fonte nell’ordinamento comunitario, ma per disapplicare norme di legge statale (L. n. 117 del 1988, artt. 2 e 3) conformative del diritto al risarcimento del danno determinato da commesso nell’esercizio della funzione giurisdizionale, e che trova quindi la propria fonte in una norma dell’ordinamento interno.

6. Da un breve excursus della giurisprudenza comunitaria in materia di esclusioni e limitazioni di responsabilità dello Stato membro per danni derivanti da violazioni del diritto comunitario commesse da organi giurisdizionali, con particolare riferimento alle disposizioni della legge n. 117/1988, emerge in modo inequivoco che la questione di compatibilità delle norme statali con le norme ed i principi comunitari, assume rilevanza e deve essere risolta, alla stregua delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia, esclusivamente in funzione della tutela risarcitoria di diritti accordati dall’ordinamento comunitario.

7. I principi di diritto enunciati dalla sentenza in data 13.6.2006 in causa C-173/03 Traghetti del Mediterraneo s.p.a. secondo cui:

a) la attività interpretativa delle norme di diritto è la essenza stessa della funzione giurisdizionale (34: “il giudice posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti”), e la attività di valutazione dei fatti e delle prove è altresì essenziale alla funzione giurisdizionale (38: “l’applicazione di dette norme al caso di specie spesso dipenderà dalla valutazione….sui fatti…. così come sul valore e sulla pertinenza degli elementi di prova prodotti… “): pertanto negare la responsabilità dello Stato per tale attività significa escludere “tout court” la responsabilità dello Stato per violazione delle norme comunitarie da parte dei suoi organi giurisdizionali (ipotesi che si verifica, nel primo caso, quando 1-“il giudice dà ad una norma di diritto sostanziale o processuale comunitario una portata manifestamente erronea in particolare alla luce della giurisprudenza della Corte”; 2-il giudice “interpreta il diritto nazionale in modo da condurre in pratica alla violazione del diritto comunitario” -35-; e nel secondo caso quando vi è manifesta violazione delle norme comunitarie determinata da 1-“applicazione di specifiche norme relative all’onere della prova, al valore di tali prove, o all’ammissibilità dei mezzi di prova” ovvero da 2-“applicazione di norme che richiedono una qualificazione giuridica dei fatti” -39-);

b) una generale limitazione di responsabilità “al dolo ed alla colpa grave”, se pure astrattamente giustificabile in considerazione della specifica rilevanza pubblica degli interessi connessi all’esercizio della funzione giurisdizionale, risulterebbe tuttavia ostativa all’ordinamento comunitario -46- “ove una tale limitazione conducesse ad escludere la responsabilità dello Stato membro” anche nei “casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta” del diritto comunitario (al proposito la sentenza in data 30.9.2003 in causa C-224/01 Kobler, ha affermato che, proprio in funzione della necessità di assicurare la “specificità della funzione giurisdizionale e le esigenze di certezza del diritto”, la responsabilità dello Stato per danni causati da un organo giurisdizionale, deve essere ravvisata soltanto nel “caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto (ndr. comunitario) vigente” – 53-, condizione che deve essere accertata alla stregua di specifici elementi sintomatici quali: 1- grado di chiarezza e precisione della norma (ndr. comunitaria) violata; 2-carattere intenzionale della violazione; 3 – scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto; 4 – posizione adottata eventualmente da una istituzione comunitaria; 5 – inosservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale -anche da parte dell’organo non di ultima istanza -; mentre deve ritenersi presuntivamente accertata, detta responsabilità, in caso di “ignoranza manifesta della giurisprudenza della Corte di Giustizia” -56-);

sono vincolanti per il Giudice dello Stato membro, nelle cause volte a far valere la responsabilità “comunitaria” dello Stato membro, nei limiti in cui l’esercizio della funzione giudiziaria da cui è derivato il danno, abbia riguardato giudizi aventi ad oggetto la tutela di interessi di natura sostanziale disciplinati dal diritto comunitario ed il giudice sia, pertanto, incorso in una “manifesta violazione” di norme dell’ordinamento comunitario, in particolare: a) non abbia tenuto conto, nel individuare la “regula juris” del rapporto controverso, della esistenza o della portata prescrittiva (eventualmente individuata dalla Corte di Giustizia UE) di una norma comunitaria volta a disciplinare la fattispecie; b) abbia interpretato od applicato norme statali, incompatibili con norme o principi dell’ordinamento comunitario (omettendo di ricercare una interpretazione conforme o di effettuare il rinvio pregiudiziale avanti la Corte di Giustizia) volte a regolare la materia controversa, in entrambi i casi opponendo un diniego di tutela a posizioni giuridiche di vantaggio riconosciute ai singoli cittadini da fonti normative comunitarie.

8. Soltanto nell’ambito dei settori devoluti all’intervento normativo degli organi dell’Unione può, infatti, operare il rapporto di integrazione tra le fonti normative di ordinamenti – statale e comunitario – che permangono separati (secondo il principio di prevalenza dell’ordinamento sovranazionale, che poggia sul “sicuro fondamento” dell’art. 11 Cost., e dunque con riferimento – esclusivamente – alle sole materie per le quali lo Stato ha acconsentito alla limitazione di sovranità, cedendo agli organi comunitari la potestà legislativa: cfr. Corte cost. sentenza 24.6.2010 n. 227, paragr. 7), ed entro i limiti indicati va, quindi, ricondotto anche l’accertamento della infrazione delle norme del Trattato, dichiarata dalla Corte di Giustizia con sentenza in data 24.11.2011 in causa C-379/10 Commissione c/ Repubblica Italiana, che ha sì ritenuto incompatibili le esclusioni e limitazioni di responsabilità stabilite dalla L. n. 117 del 1988, artt. 2 e 3, con il principio comunitario volto a riconoscere l’effettivo ristoro dei danni conseguiti alla “manifesta violazione” delle norme comunitarie da parte degli organi giudiziari dello Stato membro, ma pur sempre in relazione a manifeste violazioni, da parte dei Giudici nazionali, di principi o norme dell’ordinamento comunitario che avrebbero dovuto essere applicati nella controversia decisa.

9. Le considerazioni svolte risultano dirimenti ai fini della pronuncia di legittimità richiesta a questa Corte.

10. Le esclusioni e limitazioni di responsabilità previste dalle norme della L. n. 117 del 1988, assumevano infatti rilievo, ai fini della verifica di incompatibilità comunitaria, in entrambi i giudizi relativi al rinvio pregiudiziale ex art. 234 TCE (ora art. 267 TFUE), in quanto si ponevano in contrasto con il “principio generale della tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione”, che deve trovare piena garanzia negli Stati membri, indipendentemente dalle modalità e forme procedurali (la cui regolamentazione è estranea alla competenza normativa della UE) attraverso le quali ciascuno Stato provvede a disciplinare l’organizzazione giudiziaria e l’esercizio della tutela giurisdizionale (consolidata è la giurisprudenza sul punto della Corte di giustizia, secondo cui la disciplina della tutela dei diritti comunitari non deve risultare meno favorevole rispetto a quella prevista in relazione ad analoghi ricorsi o domande aventi ad oggetto diritti di natura interna – principio di equivalenza -, ed in ogni caso non deve atteggiarsi in modo tale da rendere praticamente impossibile od eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione – principio di effettività -: cfr. inter alias, Corte giustizia, sentenza in data 16.7.2009, causa C-12/08, Mono Car Styling, punto 48; sentenza in data 15.4.2008, causa C-268/06 Impact, punti 44-48; sentenza in data 18.3.2010, cause riunite C-317, 318, 319 e 320/08, Alassini, punti 47-49): le norme statali in questione venivano infatti ad impedire (in contrasto con il predetto principio generale) l’effettivo risarcimento dei danni derivati dalla violazione di diritti di natura sostanziale, attribuiti ai singoli dal diritto dell’Unione, che non aveva ricevuto la dovuta tutela avanti il Giudice dello Stato membro, avendo questi omesso di applicare, alla fattispecie controversa, la normativa comunitaria, o comunque avendo omesso di “interpretare in modo conforme” all’ordinamento comunitario o di “disapplicare” la normativa nazionale incompatibile, o ancora avendo omesso di richiedere alla Corte di giustizia la risoluzione dei dubbi interpretativi circa la portata prescrittiva delle norme comunitarie che disciplinavano la materia oggetto della controversia (dalla sentenza Kobler emerge che nel giudizio a quo l’attore aveva inteso far valere il diritto di libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità previsto dall’art. 48 TCE e le norme del regolamento CEE n. 1612/68, per opporsi alla applicazione della norma nazionale che limitava il riconoscimento della indennità speciale per anzianità allo svolgimento dell’insegnamento universitario presso università dello Stato di residenza, e non anche presso università di altri Stati membri; dalla sentenza Traghetti del Mediterraneo emerge che il giudizio a quo aveva ad oggetto la responsabilità “comunitaria” dello Stato membro, che però era stata fatta valere per danni subiti nel precedente giudizio di merito in cui era stata azionata la tutela contro atti di concorrenza sleale, configurandosi la violazione delle norme del Trattato sul divieto di aiuti di Stato applicabili alla fattispecie. La sentenza Commissione Europea c/Repubblica italiana concerne la infrazione dello Stato membro all’obbligo di conformarsi al diritto UE, e specificamente- al principio generale di tutela risarcitoria effettiva per danni arrecati dallo Stato dall’inadempimento agli obblighi imposti dal Trattato: il procedimento ex art. 258 TFUE è previsto a tutela del diritto oggettivo comunitario e, pertanto, prescinde da un giudizio a quo pendente o definito avanti un Giudice nazionale).

11. Tanto premesso osserva il Collegio che il ricorso per cassazione è volto a contestare il decreto emesso in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 739 c.p.c. (che ha confermato il giudizio di inammissibilità dell’azione risarcitoria, statuendo: A) la esclusione della responsabilità dello Stato per l’attività concernente le valutazioni di merito attinenti agli elementi probatori e la qualificazione giuridica della fattispecie illecita, in quanto attività ricadenti nella “clausola di salvaguardia” di cui alla L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 2, e B) la insussistenza di un errore di natura revocatoria, richiesto dal comma 3, lett. b) e c), ovvero di una condotta qualificabile come “negligenza inescusabile” secondo la previsione della L. n. 117 del 1988, medesimo art. 2, comma 3, lett. a)) esclusivamente in punto di incompatibilità comunitaria di tali norme con i principi generali affermati nelle richiamate pronunce del Giudice di Lussemburgo (la L. n. 117 del 1988, art. 2, commi 2 e 3, – secondo i ricorrenti – avrebbe dovuto essere disapplicato dalla Corte d’appello, in quanto incompatibile con i principi espressi nella sentenza “Traghetti Mediterraneo” del 2006, “anche in considerazione della coesistenza nel caso in esame dei tre requisiti” – richiamati anche nella sentenza di questa Corte n. 252 16/2015 trascritta parzialmente nel ricorso a pag. 10 paragr. D – che la Corte di Giustizia ha individuato quali condizioni per l’affermazione della responsabilità dello Stato per danni derivanti dalla violazione del diritto dell’Unione), omettendo del tutto di considerare che difettava, nel caso di specie, quell’indispensabile collegamento tra la fattispecie oggetto del procedimento penale e l’applicazione ad essa del diritto dell’Unione asseritamente violato dall’organo giurisdizionale.

12. L’accertamento del fatto-reato e la sua qualificazione giuridica – secondo la norma incriminatrice nella quale è stato sussunto dai magistrati della Procura ovvero secondo la diversa norma incriminatrice indicata dai ricorrenti – non implicava, infatti, la applicazione, diretta e neppure indiretta, del diritto dell’Unione, posto che l’ordinamento comunitario non interviene a regolare il diritto penale sostanziale degli Stati membri, nè definendo in via legislativa i fatti-reato, nè disciplinando i criteri di accertamento probatorio di tali fatti nel giudizio (in seguito alla legge n. 130/2008di ratifica del Trattato di Lisbona, in vigore dall’1.12.2009, la competenza dell’Unione è stata estesa alla materia della cooperazione giudiziaria in materia penale, limitatamente agli interventi previsti dall’art. 82, paragr. 1, e -con riferimento a materie penali aventi dimensione trasnazionale ed a sfere di criminalità particolarmente gravi – dall’art. 82 paragr. 2 e dall’art. 83 TFUE: trattasi di ipotesi totalmente estranee alla fattispecie penale oggetto delle indagini condotte dai magistrati della Procura).

13. Il conseguente accertamento della pretesa risarcitoria nei confronti dello Stato ex L. n. 117 del 1988, si esauriva, pertanto, nella verifica della responsabilità civile per i danni -allegati dai ricorrenti- derivanti da condotte “non iure” e “contra ius”, tenute dai magistrati nell’esercizio della funzione giudiziaria, interamente disciplinate dal diritto interno e dunque, regolate “ratione temporis” dalla legge statale n. 117/1988 nella disciplina anteriore alla riforma introdotta dalla L. n. 18 del 2015: non venendo in questione, a causa della condotta contestata ai magistrati nel procedimento penale, la lesione di diritti attribuiti alla vittima od agli attuali ricorrenti direttamente dall’ordinamento dell’Unione, nè venendo in questione -nel procedimento penale – la violazione di norme di diritto comunitario ovvero di norme nazionali volte a dare attuazione al diritto dell’Unione o ancora di norme nazionali volte a derogare – nei limiti consentiti dal perseguimento di interessi generali – a discipline comunitarie applicabili alla fattispecie oggetto del procedimento giudiziario, deve ritenersi priva di fondamento la censura rivolta, con il motivo di ricorso per cassazione, al Giudice del reclamo per non aver disapplicato le norme della L. n. 117 del 1988, in quanto incompatibili secondo le pronunce della Corte di giustizia – con l’ordinamento dell’Unione.

14. Nè a diversa conclusione può pervenirsi in relazione alla contestazione, da parte dei ricorrenti, del vizio di violazione del principio generale di tutela giurisdizionale effettiva, sancito dall’art. 47, paragr. I della Carta dei diritti fondamentali (o Carta di Nizza), proclamata il 7.12.2000 ed adottata a Strasburgo il 12.12.2007.

15. Le norme della Carta – che “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”: art. 6, paragr. I TUE – “non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati” – art. 6, paragr. 1, TUE -, e la stessa Carta prevede, all’art. 51, paragr. 1, che le sue disposizioni trovano applicazione a tutti gli Stati membri “esclusivamente nella attuazione del diritto dell’Unione” e nell’ambito delle competenze attribuite all’Unione come definite nei trattati. Sul punto la giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui la verifica pregiudiziale di compatibilità di una normativa nazionale con i principi della Carta non può essere compiuta laddove la materia disciplinata dalla normativa nazionale non rientri nell’ambito del diritto dell’Unione, è assolutamente univoca (cfr.: Corte giustizia sentenza in data 15.11.2011, causa C-256/11, Dereci; sentenza in data 14.12.2011, causa C-483 e 484/11, Boncea ed altri; ordinanza 12.7.2012, causa C-466/11, Currà ed altri; sentenza in data 26.2.2013, causa C-617/10, Akerberg-Fransson; sentenza in data 6.3.2014 causa C-206/13, Siragusa; ordinanza 15.4.2015, causa C- 497/14, Burzio).

16. Inconferente appare, invece, il richiamo contenuto nella censura all’art. 41 della Carta (rubricato “Diritto ad una buona amministrazione”) che al paragr. 1, stabilisce che “ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardino siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni, organi ed organismi dell’Unione”, sia in quanto il richiamo normativo non è esplicato nel ricorso, sia in quanto la disposizione è riferita esclusivamente agli organi dell’Unione e non agli Stati membri (cfr. Corte giustizia sentenza in data 21.12.2011, causa C-482/10, Cicala; sentenza in data 17.7.2014, cause riunite C-141 e 372/12, YS).

17. Pertanto, non essendo applicabile il diritto dell’Unione nel procedimento penale nel quale i magistrati della Procura della Repubblica hanno esercitato le funzioni giudiziarie, alcun addebito di violazione dell’ordinamento comunitario può essere mosso alla Corte d’appello per non aver deciso il reclamo previa disapplicazione delle norme della L. n. 117 del 1988, (dichiarate incompatibili dalla Corte di giustizia UE).

18. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. La peculiarità della questione contraddistinta da plurimi interventi del Giudice di Lussemburgo e della giurisprudenza di legittimità, e dalla evoluzione del sistema normativo fino all’approdo della L. n. 18 del 2015, induce a dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 7 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2016

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