Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21244 del 23/07/2021

Cassazione civile sez. I, 23/07/2021, (ud. 26/03/2021, dep. 23/07/2021), n.21244

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 4073/2017 proposto da:

P.R., e C.G., rappresentati e difesi,

giusta mandato con procura speciale rilasciata su separato foglio

allegato a ricorso per cassazione, dagli Avv.ti Maurizio Roat, e

Alessio Pica, difensori unitamente e disgiuntamente, e quest’ultimo

anche domiciliatario presso il suo studio in Roma, via Ancilla

Marighetto, n. 94;

– ricorrenti –

contro

L.R. e M. & C. s.n.c., nella persona degli

amministratori e legali rappresentanti pro tempore L.R. e

L.M., nonché L.R., F.L., e

L.M., tutti rappresentati e difesi dagli Avv.ti Alfredo

Ferrari, e Gabriele Pafundi, elettivamente domiciliati presso lo

studio di quest’ultimo in Roma, Viale Giulio Cesare, n. 14, Scala A,

Int. 4, giusta procura speciale a margine del controricorso.

– controricorrenti –

avverso la sentenza della n. 309/2016 della Corte di appello di

Trento, pubblicata in data 1 dicembre 2016, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

26/03/2021 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Trento, in sede di riassunzione con rinvio disposto dalla sentenza n. 15884/15 della Corte di Cassazione del 9 giugno 2015, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trento n. 742/08 dell’8 maggio 2008, ha rigettato la domanda di ripetizione di indebito proposta da P.R. e C.G. nei confronti della società L.R. e L.M. & C. s.n.c.; ha condannato i predetti a corrispondere alla società la residua somma di Euro 18.140,51, oltre interessi legali dal 4 febbraio 2004; ha compensato per la metà le spese di lite di tutti i gradi del giudizio, condannando P.R. e C.G. al pagamento della restante metà e ponendo le spese della consulenza tecnica d’ufficio a carico di ciascuno parte per la metà; ha condannato P.R. e C.G. alla restituzione alla società delle somme da questa corrisposte loro in esecuzione delle sentenze di primo e secondo grado, pari rispettivamente a Euro 19.226,25 con gli interessi legali dal 17 ottobre 2008; a Euro 38.452,50 con gli interessi legali dal 24 novembre 2008 e a Euro 23.341,78 con gli interessi legali dal 30 novembre 2010.

2. La Corte di appello ha individuato l’oggetto del giudizio di rinvio nell’accertamento della fondatezza delle censure mosse dalla società L.R. e Michele & C. s.n.c. e da L.R., F.L. e L.M., alla sentenza di primo grado là dove, da un lato, aveva ritenuto spettante ai consorti P. – C. l’intero utile relativo al 2003, e dall’altro aveva escluso, sulla base della sola documentazione contabile esaminata dal c.t.u., che i predetti avessero effettuato prelievi in conto utili nel periodo 2000- 2002.

3. I giudici di secondo grado hanno, poi, interpretato, in ragione del rinvio disposto dalla Corte di Cassazione per vizio di motivazione e del conseguente potere di valutare liberamente i fatti rilevanti ai fini della nuova decisione, la clausola n. 3 del contratto di cessione di quote (“in deroga a quanto previsto dall’art. 9 del contratto sociale, l’utile risultante dal bilancio di esercizio 2003 sarà interamente distribuito ai soci cedenti, senza applicazione di alcuna ritenuta per accantonamento al fondo di riserva”) nel senso che la stessa non attribuiva ai soci cedenti anche gli utili di pertinenza degli altri soci e che prevedeva l’attribuzione dell’intero utile di esercizio pertinente alla quota ceduta non depurata, in deroga all’art. 9 dei patti sociali (“entro tre mesi dall’approvazione del rendiconto e sulle risultanze si procederà alla ripartizione degli utili realmente conseguiti, dopo che il 20% degli utili stessi sia devoluto a costituire un fondo di riserva per sopperire ad eventuali perdite future”), della quota di accantonamento.

4. Quanto all’accertamento dei prelievi in conto utili da parte del P. per gli anni 2000-2002, la Corte territoriale, dopo avere precisato che non sussistevano dati documentali sui detti prelievi, ha evidenziato che la prova della percezione di prelievi da parte del P. dell’importo di Euro 1.500,00 mensili, per un importo complessivo annuo di 18.000,00 Euro, negli anni 2000, 2001 e 2002 (per un totale di 54.000,00 Euro) risultava dalle ammissioni rese dallo stesso P., il quale, nel lamentare prelievi della controparte superiori alla quota di utili di spettanza, aveva riconosciuto di avere prelevato la predetta somma.

5. P.R. e C.G., avverso la sentenza della Corte di appello di Trento, hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

6. L.R. e Michele & C. s.n.c., nella persona degli amministratori e legali rappresentanti pro tempore L.R. e L.M., nonché L.R., F.L. e L.M. hanno resistito con controricorso.

7. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Preliminarmente va rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione del canone di sinteticità di cui all’art. 366 c.p.c., nella specie non sussistente stante la formulazione di specifici motivi a partire dalla pagina 66 del ricorso per cassazione.

Ed invero, in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali, fissato dall’art. 3, comma 2 c.p.a. ma espressione di un principio generale del diritto processuale, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì da una sanzione testuale di inammissibilità (Cass., 21 marzo 2019, n. 8009), che tuttavia nella specie non ricorre, tenendo conto del complessivo contenuto del ricorso.

2. Con il primo motivo, che si articola in plurimi profili di censura, i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 345 c.p.c. e art. 2909 c.c., sui poteri di sindacato di merito del giudice di rinvio e sul giudicato sostanziale, perché la Corte di appello ha omesso di considerare le preclusioni e le decadenze già verificatesi nei precedenti gradi di merito, nel condannarli al pagamento della somma di Euro 18.140,51 a titolo di debito residuo verso la società, così accogliendo una domanda avanzata da controparte tardivamente e per la prima volta solamente nel primo giudizio di appello (R.G.N. 154/2009).

I ricorrenti, al riguardo, assumono che la società aveva avanzato con appello incidentale una domanda nuova, rispetto alla riconvenzionale avanzata in primo grado, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c., e che tale inammissibilità era stata tempestivamente eccepita nel giudizio di appello sub. n. 154/2009 R.G.. In particolare, rilevano che, con comparsa di costituzione e risposta del 26 settembre 2005, la società aveva chiesto, in via riconvenzionale, la condanna di essi ricorrenti al pagamento della somma di Euro 11.163,64 per la restituzione dei prelievi effettuati in eccedenza e per concorso alla perdita di esercizio; che tale domanda non era stata riproposta nei termini in sede di appello incidentale, con conseguente formazione del giudicato sostanziale, mentre in quella sede era stata proposta una domanda nuova fondata su una diversa causa petendi, quantificando detto debito tenendo conto dell’utile conseguito dalla società come accertato dal CTU in primo grado e della quota di spettanza dei singoli soci: in sintesi, mentre nel primo grado di giudizio la difesa avversaria aveva assunto quale presupposto della domanda restitutoria il fatto che il bilancio 2003 si era chiuso in perdita, in sede di appello incidentale la perdita di esercizio si era trasformata in utile e sulla base dell’utile conseguito era stato calcolato il debito. Evidenziano, infine, che l’eccezione di inammissibilità, ex art. 345 c.p.c., della domanda di restituzione della somma di Euro 18.140,51, rimasta assorbita nella pronuncia di rigetto dell’appello incidentale e di accoglimento dell’appello principale, era stata richiamata nel controricorso in sede di giudizio di cassazione; e che comunque la preclusione era rilevabile anche d’ufficio.

2.1 Ancora i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in materia di valutazione delle prove: violazione dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., in relazione alla valutazione della CTU contabile del Dott. Z.M.; violazione dell’art. 12 preleggi e degli artt. 1362 e 1363 c.c., in tema di canoni di ermeneutica contrattuale, perché la Corte di appello aveva disatteso la CTU contabile del Dott. Z.M. senza fornire adeguata giustificazione del suo diverso convincimento e, con eccesso di potere, aveva interpretato la clausola contrattuale non considerando il tenore letterale e l’interpretazione logico-sistematica della stessa, come aveva fatto il CTU Dott. Z.; la Corte, inoltre, aveva interpretato la clausola contrattuale di cui all’art. 3 in maniera contrastante ed incompatibile con la volontà contrattuale delle parti e non spiegando il “senso” e il “significato” della deroga all’art. 9 della Statuto.

2.1.1 Il primo profilo di censura è infondato.

2.1.2 Secondo la giurisprudenza di questa Corte, esorbita dai limiti di una consentita emendatio libelli il mutamento della causa petendi che consiste in una vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo, perché fondato su presupposti diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza (Cass., Sez.2, 12 dicembre 2018, n. 32146). In tal senso, la modificazione della domanda, consentita anche in appello dall’art. 345 c.p.c., può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, per ciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali (Cass., Sez. U., 15 giugno 2015, n. 12310; Sez. 2, 27 maggio 2010 n. 13003).

2.1.3 Nel caso in esame, risulta dalla stessa esposizione dei fatti del processo contenuta nel ricorso che, nel giudizio di primo grado, a fronte della domanda dei coniugi P.- C. di ripetizione della somma di Euro 55.739,48 da essi versata alla società per “restituzione eccedenza prelievi” (cfr. pag. 10 ricorso), la società propose domanda riconvenzionale di condanna dei predetti al versamento della maggior somma da essi dovuta oltre quella versata, maggior somma determinata dalla società stessa tenendo conto (cfr. pag. 16 ricorso) del totale dei prelievi in conto utile che assumeva effettuati dalle controparti (Euro 61.167,17) e della quota parte ad essi pertinente della perdita dell’esercizio 2003 (Euro 5.735,95). La differenza tra la somma totale che la società deduceva come dovuta (Euro 66.903,12) dalle controparti e quella da esse versata nel febbraio 2004 alla società (Euro 55.739,48) corrispondeva all’importo (Euro 11.163,64) preteso con la domanda riconvenzionale. Che si fondava dunque su due ragioni, da un lato la eccedenza dei prelievi in conto utili e dall’altro il concorso nella perdita dell’esercizio 2003. Il fatto che, nella formulazione dell’appello incidentale della società, la seconda ragione della domanda non sia stata ribadita non toglie che la prima sia rimasta basata sul medesimo presupposto sostanziale, cioè la eccedenza delle somme già percepite dai coniugi P.- C. rispetto a quanto loro spettante. Alla cui determinazione concorreva, da un lato, la questione controversa relativa alla interpretazione della clausola del contratto di cessione quote relativa ai limiti del diritto dei cedenti di partecipare agli utili dell’esercizio 2003 (come determinati dalla consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado e ritenuti dal Tribunale interamente di pertinenza dei cedenti), dall’altro la questione relativa all’accertamento delle somme prelevate dal P. in conto utili per gli anni dal 2000 al 2002. Questioni integranti per l’appunto il thema decidendum del giudizio di rinvio disposto da questa Corte con la sentenza n. 15844/2015 e sulle quali la Corte di merito si è legittimamente pronunciata con la sentenza qui impugnata.

2.2 Il secondo profilo di censura è inammissibile.

2.2.1 Le Sezioni Unite di questa Corte, di recente, hanno affermato che “in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione” (Cass., Sez. U., 30 settembre 2020, n. 20867).

Tale disposizione, pertanto, non può essere invocata per dolersi che il giudice del merito si sia discostato dalla diversa interpretazione data alla clausola contrattuale dal consulente tecnico d’ufficio, tantomeno per dolersi che ciò abbia fatto senza esplicitare le ragioni del proprio dissenso rispetto ad una valutazione che non rientra tra quelle di competenza dell’ausiliare.

2.2.2 Analoghe considerazioni si impongono in relazione alla denunciata violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale espressi dagli artt. 1362 e 1363 c.c., che i ricorrenti si limitano a richiamare genericamente.

E’ noto che la ricerca e la individuazione della comune volontà dei contraenti è un tipico accertamento di fatto riservato istituzionalmente al giudice del merito, il cui risultato è sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e seguenti (Cass., 5 dicembre 2017, n. 29111); e che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass., 10 maggio 2018, n. 11254;Cass.,12 gennaio 2006, n. 420).

Peraltro, il carattere prioritario dell’elemento letterale non va inteso in senso assoluto, atteso che il richiamo nell’art. 1362 c.c. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l’indagine ai criteri logici, teleologici e sistematici anche ove il testo dell’accordo fosse chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti (Cass., 28 giugno 2017, n. 16181).

2.2.3 Orbene, fermi tali principi di diritto, nel caso in esame i ricorrenti si sono limitati a censurare il ragionamento seguito dalla Corte territoriale, senza spiegare il perché avesse deviato dalle regole di ermeneutica contrattuale e non avesse rispettato la volontà dei contraenti, prospettando solamente una diversa e più favorevole interpretazione rispetto a quella adottata dal giudicante, peraltro applicando gli stessi canoni di interpretazione utilizzati dai giudici di merito.

2.2.4 Nella specie, la Corte di merito, all’esito della disamina del contratto inter partes, con motivazione adeguata, intelligibile e priva di vizi logici o giuridici, ha interpretato la clausola n. 3 del contratto di cessione di quote (“in deroga a quanto previsto dall’art. 9 del contratto sociale, l’utile risultante dal bilancio di esercizio 2003 sarà interamente distribuito ai soci cedenti, senza applicazione di alcuna ritenuta per accantonamento al fondo di riserva”) nel senso che la stessa non attribuiva ai soci cedenti anche gli utili di pertinenza degli altri soci e che prevedeva l’attribuzione dell’intero utile di esercizio pertinente alla quota ceduta non depurata, in deroga all’art. 9 dei patti sociali (“entro tre mesi dall’approvazione del rendiconto e sulle risultanze si procederà alla ripartizione degli utili realmente conseguiti, dopo che il 20% degli utili stessi sia devoluto a costituire un fondo di riserva per sopperire ad eventuali perdite future”), della quota di accantonamento a riserva. 2.2.5 In ultimo, in ordine alle censure relative alla consulenza tecnica d’ufficio, Dott. Z.M., senza prescindere dalla duplice considerazione che si trattava di consulenza contabile e che l’attività di interpretazione degli atti negoziali, come già detto, è attività riservata al giudice di merito, va ribadito il principio statuito da questa Corte, anche di recente, in conformità del quale la Corte territoriale si è determinata, secondo cui “I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità” (Cass., 14 gennaio 2020, n. 448).

3. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame delle risultanze della CTU espletata in primo grado di giudizio dal Dott. Z.M., sia in relazione all’interpretazione della clausola n. 3 del contratto del 17 novembre 2003, sia in relazione al capo della sentenza relativo all’accertamento dell’ammontare dei prelevamenti in conto utile in favore del socio P..

3.1 Il motivo è inammissibile.

3.2 Giova, invero, premettere che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. 22 giungo 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, oggetto del vizio di cui alla citata norma è oggi esclusivamente l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”. Il mancato esame, dunque, deve riguardare un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un “fatto” costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (Cass., 8 settembre 2016, n. 17761; Cass. 13 dicembre 2017, n. 29883), e non, invece, le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., SU, 20 giugno 2018, n. 16303; Cass. 14 giugno 2017, n. 14802), oppure gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).

3.3 Di conseguenza, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., S. Un., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., 29 ottobre 2018, n. 27415).

Inoltre, con il ricorso per cassazione – anche se proposto con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass., 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass., 4 agosto 2017, n. 19547; Cass., 2 agosto 2016, n. 16056).

Anche di recente questa Corte ha affermato il principio che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476).

4. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla parte controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.300,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021

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