Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21244 del 09/08/2019

Cassazione civile sez. II, 09/08/2019, (ud. 09/04/2019, dep. 09/08/2019), n.21244

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi – Presidente –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14833-2015 proposto da:

S.U. e P.O., rappresentati e difesi

dall’Avvocato MAURIZIO DISCEPOLI, presso il cui studio a Roma, via

Conca d’Oro 184/190, elettivamente domiciliano per procura speciale

a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

G.P. e G.L., nella qualità di eredi di

G.V., rappresentati e difesi dall’Avvocato FRANCO CARILE per procura

speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

nonchè

C.M., CA.MA. e B.S., quali eredi di

C.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 342/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 3/3/2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

9/4/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto

Procuratore Generale della Repubblica, Dott. MISTRI CORRADO, il

quale ha concluso per la parziale inammissibilità e per il rigetto

nel resto del ricorso principale e per il rigetto del ricorso

incidentale;

sentito, per i ricorrenti, l’Avvocato DIEGO PERUCCA;

sentito, per i controricorrenti, l’Avvocato LUIGI FEDELI BARBANTINI.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

G.V., con citazione del 7/10/2004, ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Ancona, i coniugi S.U. e P.O., da un lato, e C.R., dall’altro, proponendo: – nei confronti dei primi, domanda di rivendica del piccolo piazzale in forma semicircolare collocato di fronte al cancello d’ingresso della villetta che l’attore aveva agli stessi venduto con atto a rogito notaio R. del 9/6/1971, e di risarcimento dei danni derivati sia dall’occupazione senza titolo dell’area sia dalle opere necessarie alla riduzione in pristino del luogo; – nei confronti del secondo, azione di regolamento dei confini, essendo risultato dalla consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso di un precedente giudizio che il piazzale era, per circa 65 metri, di proprietà dell’attore e per circa 22 metri di proprietà del C..

S.U. e P.O. si sono costituiti in giudizio ed hanno dedotto l’infondatezza dell’azione di rivendica, rilevando che, con l’atto per notaio R. del 9/6/1971, il G. aveva venduto loro anche la proprietà del piccolo spiazzo in questione; in via subordinata, i convenuti hanno proposto domanda riconvenzionale rilevando di aver proposto, per la parte di piazzale di proprietà del C., azione di usucapione, per cui l’actio finium regundorum spiegata dal G. avrebbe dovuto essere esercitata nei loro confronti; i convenuti, inoltre, hanno eccepito che, comunque, l’infondatezza dell’azione di danno, quanto meno sotto il profilo soggettivo, posto che, fino al 1988, essi avevano usato lo spazio in questione quale parcheggio nella convinzione di esserne proprietari; in via ulteriormente subordinata, i convenuti hanno chiesto che fosse pronunciata l’acquisizione, in capo ad essi, della servitù di parcheggio ai sensi dell’art. 1062 c.c. posto che, ancor prima dell’atto del 9/6/1971, il piazzale era stato adibito a sosta dei veicoli.

Il C., invece, non si è costituito in giudizio.

Il tribunale, con sentenza del 19/5/2009, innanzitutto, ha accolto la domanda di rivendica del piazzale proposta dagli attori ai sensi dell’art. 943 c.c., condannando i convenuti alla relativa restituzione, oltre al risarcimento dei danni per la rimessione in pristino e per l’abusiva occupazione dell’area, che ha liquidato, rispettivamente, in Euro 11.000,00 ed in Euro 39.000,00; ha, poi, accertato il confine tra le proprietà G. e C., così come stabilito nelle planimetrie 4 e 4/A dell’allegato A alla consulenza tecnica d’ufficio; il tribunale, infine, ha respinto, le domande riconvenzionali proposte dai convenuti.

S.U. e P.O., con citazione notificata il 4/7/2009, hanno proposto appello avverso la sentenza del tribunale chiedendo che, in riforma della stessa, in via principale: – fosse respinta l’azione di rivendica proposta dagli attori ed, in accoglimento della domanda riconvenzionale, fosse dichiarato che il piazzale era di loro proprietà; – fosse accolta la domanda di avvenuta usucapione in loro favore nei confronti del C.; – fossero respinte le domande di risarcimento dei danni proposta dal G.; in via subordinata, in caso di conferma della sentenza impugnata, gli appellanti hanno chiesto che fosse dichiarata l’esistenza di servitù di parcheggio ai sensi dell’art. 1062 c.c., con il rigetto, in ogni caso, delle domande relative al ripristino ed al risarcimento dei danni da occupazione abusiva.

Gli appellanti, in particolare, per quanto ancora rileva hanno dedotto: innanzitutto, che l’atto per notaio R. del 9/6/1971 consente di verificare l’avvenuta vendita agli acquirenti di due immobili, vale a dire una villetta con corte circostante ed un tronco di strada adiacente al muro di cinta della corte, emergendo dalla planimetria allegata al contratto, redatta dallo stesso venditore, che la strada venduta era larga non 4 metri ma 7,5 metri, per cui doveva considerarsi come compravenduto anche lo slargo in questione, dato che, nell’atto, i contraenti avevano fatto espresso riferimento a quella planimetria che essi hanno controfirmato e che, essendo stata redatta dallo stesso venditore, aveva ed ha chiara valenza confessoria; in secondo luogo, che non corrispondeva al vero l’assunto attoreo secondo il quale, nel 1971, il piazzale in questione non esisteva, essendo stato creato dal S. con continui reinterri di materiali di risulta, trattandosi, piuttosto, di un’area che è rimasta tale e quale dal menzionato all’attualità e che non è mai stata nella disponibilità di nessuno dei contendenti: gli appellanti, in particolare, si sono sempre limitati a parcheggiare le loro autovetture e rivendicare, con l’azione possessoria svolta nel 1988, soltanto il già esercitato diritto di parcheggio, senza, peraltro, impedire al G. di posteggiare in tale area, con la conseguenza che nulla vi era da restituire.

Il G. si è costituito ed ha chiesto che il gravame proposto fosse dichiarato inammissibile ed, in ogni caso, rigettato. L’appellato, inoltre, per quanto ancora rileva, ha chiesto che, in accoglimento dell’appello incidentale, la sentenza appellata fosse riformata nella parte in cui, facendo proprio l’elaborato del consulente tecnico d’ufficio, aveva individuato nella linea gialla, coincidente con il piede della scarpata a profilo naturale, il confine lato-mare di quanto è stato venduto dal G. ai S. e non invece il ciglio della strada privata-lato mare.

Il C. non si è costituito in giudizio.

La corte d’appello, con la sentenza impugnata, in parziale accoglimento dell’appello principale, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni che l’attore aveva proposto relativamente alla voce di danno concernente l’occupazione del piazzale per cui è causa ed, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, ha stabilito il confine-lato mare di quanto venduto dal G. ai convenuti S.U. e P.O. nel ciglio della strada privata-lato mare.

La corte, in particolare, dopo aver premesso che: – G.V., con l’atto a rogito notaio R. del (OMISSIS), ha venduto ai coniugi S.- P. “la casa di abitazione di nuova costruzione ivi descritta, indicando espressamente che quanto venduto è meglio descritto nella planimetria che… approvata dalle parti e da esse… firmata”, oltre che dal notaio, è stata allegata all’atto stesso con la lett. “A”; – la planimetria allegata all’atto di compravendita, che costituisce parte integrante del contratto ed è, quindi, manifestazione della volontà negoziale, “riporta una raffigurazione che rappresenta… il lotto oggetto di cessione ed anche, in estratto di mappa,… lo stesso lotto suddiviso nelle particelle (OMISSIS)”; – l’atto precisa che “la casa… è stata edificata su terreno (che occupa in parte essendo il residuo destinato a corte e strada) della superficie di metri quadrati 1887… distinto in catasto… ai mappati n.ri (OMISSIS) (di metri quadrati 1754) e (OMISSIS) (di metri quadrati 133)”; – il documento, inoltre, “consente di ritenere in maniera inequivoca che il tratto di strada prospiciente il lotto venduto fa parte di quanto costituente oggetto della cessione”; – l’atto, del resto, dà atto dell’avvenuta costituzione, “sulla porzione alienata destinata a stradina”, di una servitù di passaggio: “costituzione che non può che essere ricollegata all’avvenuto trasferimento della relativa proprietà”; ha ritenuto che, alla luce delle prove acquisite, è possibile individuare “lo specifico oggetto del rapporto negoziale”.

La corte, in particolare, dopo aver evidenziato che, nell’interpretazione del contratto, si deve valutare la comune volontà delle parti, avendo riguardo al primo e principale strumento costituito dalle parole e dalle espressioni utilizzate, e che, ove le clausole indichino un contenuto sufficientemente preciso, resta escluso che l’interprete possa ricercare un significato diverso da quello letterale in base agli altri criteri ermeneutici sussidiari, come il comportamento delle parti, il ricorso ai quali presuppone la rigorosa dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare la volontà contrattuale, ha rilevato che la consulenza tecnica d’ufficio, attraverso la sovrapposizione della planimetria al frazionamento, “ha consentito di rilevare che la strada sulla quale insiste la servitù di passaggio è quella stessa la cui larghezza massima è riscontrabile anche prima e dopo il piazzale oggetto di contestazione”. Deve, quindi, escludersi, ha concluso la corte, che “oggetto di cessione sia stata una superficie di terreno maggiore di quella indicata dalle parti in contratto e sopra individuata, avendo i coniugi S. acquistato esclusivamente il fabbricato, la corte circostante ed il tratto di strada antistante, senza che abbia rilievo la superficie di quest’ultimo” essendo l’intento dei contraenti riferibile alla concreta destinazione dell’area a sede viaria, con la contemporanea costituzione di reciproca servitù di passaggio lungo tutto il tracciato: “null’altro può ritenersi oggetto dell’alienazione e, dunque, neppure il piccolo piazzale di cui si discute, posto alla stessa quota della strada di accesso, creato in ampliamento della stessa ma di cui, evidentemente, non costituisce parte integrante in quanto non destinato al transito”. Nè rileva, ha proseguito la corte, l’evidente contrasto tra i riferimenti catastali risultanti dal frazionamento e la planimetria controfirmata e allegata all’atto e la descrizione dell’immobile fatta nell’atto posto che, in ipotesi di tal genere, spetta al giudice di risolvere la questione della maggiore o minore corrispondenza di tali documenti all’intento negoziale ricavato dall’esame complessivo del contratto. Nel caso in esame, ha osservato la corte, è del tutto legittimo il ricorso ad una valutazione integrale della compravendita da cui desumere, nel senso in precedenza indicato, la reale intenzione delle parti.

La corte, inoltre, per ciò che riguarda il ripristino dello stato dei luoghi invocato dall’attore, ha evidenziato di non poter condividere il rilievo degli appellanti secondo cui, in realtà, l’area in questione era sempre esistita, come dimostrerebbero anche i rilievi aerofotogrammetrici risalenti al 1968 ed al 1971.

La corte, sul punto, dopo aver premesso: – che l’art. 184 c.p.c. stabilisce espressamente il carattere perentorio del termine entro il quale le parti devono dedurre le prove e produrre i documenti; – che nel giudizio d’appello l’eventuale indispensabilità dei documenti può essere valutata dal giudice solo se si tratta di documenti nuovi, nel senso che la loro ammissione non sia stata richiesta in precedenza e, comunque, non si sia verificata la decadenza di cui all’art. 184 c.p.c.; – che l’indispensabilità richiesta dall’art. 345 c.p.c., comma 3, non va intesa come semplice rilevanza dei fatti dedotti ma postula la verificata impossibilità di acquisire la conoscenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse l’onere di fornire nelle forme e nei termini stabiliti dalla legge processuale; ha ritenuto: innanzitutto, che la produzione effettuata dagli appellanti nel giudizio di secondo grado, essendo “priva di rilievi aritmetici e dotata di risoluzione di scarsa affidabilità”, non aveva il carattere dell’indispensabilità ai fini della decisione e che doveva essere, quindi, dichiarata inammissibile; – in secondo luogo, che l’apporto di materiale di risulta sull’area di cui trattasi trova riscontro nel posizionamento della fossa biologica con la relativa tombinatura; d’altronde, il possesso materiale dell’area medesima non può essere utilmente negato dagli appellanti principali posto che tale possesso è stato reclamato dagli stessi in sede giudiziaria, ottenendo la relativa tutela; del resto, ha concluso la corte, la presenza di materiale di riporto della superficie del piazza letto è stata attestata dallo stesso consulente tecnico d’ufficio il quale ha evidenziato la presenza, al di sotto di uno strato superficiale costituito da ghiaia, di frammenti di laterizio, macerie edili e prodotto terroso in genere.

Quanto, poi, alla condanna al risarcimento dei danni per abusiva occupazione dell’area, oggetto sia di appello principale, che di appello incidentale, la corte ha ritenuto che il potere del giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa “non esonera la parte istante dall’onere di fornire gli elementi idonei e necessari al fine di permettere la precisa determinazione del danno stesso, essendo, inoltre, imprescindibile che ne sia dimostrata l’effettiva esistenza”. Nel caso in esame, invece, ha osservato la corte, il danno non può trovare riscontro nella sola argomentazione che lo stesso è da ritenersi ontologicamente esistente posto che la “modesta estensione dello spazio interessato”, pari ad alcune decine di metri quadrati di superficie, e la sua “collocazione ai margini della proprietà”, non ne consentono di rilevarne la sussistenza, in termini di mancato godimento, in re ipsa, se si considera che si tratta di un terreno incolto di cui “il difetto di disponibilità ai fini dell’eventuale utilizzo neppure si prospetta configurabile sotto il profilo del nocumento”, in carenza assoluta di una specifica dimostrazione a tale riguardo che, riguardando la presunta lesione della sfera patrimoniale, dev’essere oggetto di una prova piena e rigorosa. Del resto, ha concluso la corte, il giudizio di equità sopperisce all’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno ma presuppone la prova, da parte del danneggiato, dell’evento lesivo.

La corte, infine, per ciò che riguarda la domanda riconvenzionale proposta dai convenuti nei confronti del C., ha ritenuto che le risultanze acquisite sono inidonee a fornire la dimostrazione della pretesa della quale gli appellanti hanno chiesto il riconoscimento. La corte, in particolare, ha ritenuto che nessun particolare rilievo assume, in tale ambito, la richiesta di ammissione della prova per testi articolata in primo grado con la memoria di cui all’art. 184 c.p.c., “dovendosi non solo dimostrare il fatto storico inerente il rapporto avuto dagli attuali appellanti con il bene oggetto della domanda, ma essendo anche necessario che si realizzi una situazione in cui il preteso possessore abbia la possibilità di esperire, quando lo voglia, atti di signoria relativamente alla cosa ed occorrendo individuare il momento in cui eventualmente, posso dirsi realizzato sulla cosa uno stato di fatto incompatibile e contrastante con il godimento del diritto da parte del suo titolare”: “elementi, questi, di cui non è stato fornito inequivoco riscontro nè gli articolati capitoli della prova per testi sono in grado di supportare la relativa affermazione”.

S.U. e P.O., con ricorso spedito per la notifica il 22/5/2015, hanno chiesto la cassazione della sentenza resa dalla corte d’appello, dichiaratamente notificata in data 27/3/2015.

Hanno resistito, con controricorso notificato il 29/6/2015, G.P. e G.L., nella dichiarata qualità di eredi di G.V., i quali hanno proposto, per un motivo, ricorso incidentale.

Sono rimasti, invece, intimati C.M., Ca.Ma. e B.S., nella dichiarata qualità di eredi di C.R..

I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo, i ricorrenti, lamentando la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non si è pronunciata sulla domanda riconvenzionale con la quale gli stessi, dapprima nella comparsa di risposta depositata nel giudizio innanzi al tribunale e poi nell’atto contenente l’appello avverso la relativa sentenza, avevano chiesto di essere riconosciuti proprietari non solo della parte semicircolare inghiaiata, che l’attore aveva rivendicato con la citazione introduttiva del giudizio di primo grado, ma anche dell’intero piazzale che si estende, in lunghezza, per tutta l’estensione del proprio lotto fino al muro di cinta ed, in larghezza, fino al limite del piano del medesimo piazzale verso il mare, come, peraltro, rappresentato nella planimetria di lotto allegata all’atto di acquisto per notaio R. del (OMISSIS), ovvero, in subordine, quanto meno per la larghezza di mt. lineari 7,50, partendo dal muro di cinta verso il mare per tutto il fronte di lotto.

2.Con il secondo motivo, i ricorrenti, lamentando la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non si è pronunciata sulla domanda riconvenzionale con la quale gli stessi, dapprima nella comparsa di risposta depositata nel giudizio innanzi al tribunale e poi nell’atto contenente l’appello avverso la relativa sentenza, avevano chiesto che l’attore fosse dichiarato responsabile per evizione nel caso in cui fosse stata riconosciuta la vendita da parte del G. ai S. di una porzione del sottostante scoscendimento n. (OMISSIS) C.T., di proprietà di C.R..

3. Il primo ed il secondo motivo, da esaminare congiuntamente per l’evidente connessione tra le censure proposte, sono inammissibili ed, in ogni caso, infondati. Ove il ricorso per cassazione deduca la violazione, nel giudizio di merito, dell’art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un’ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale ed accerta la sussistenza o meno della violazione denunciata prescindendo dalla motivazione resa dal giudice del merito (Cass. n. 18932 del 2016), detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca ma solo ad una verifica degli stessi. Ne consegue che, per poter utilmente dedurre, in sede di legittimità, un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi (Cass. n. 25299 del 2014). E’, quindi, inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su una domanda se la stessa non sia stata compiutamente riportata nella sua integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano nuove e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. n. 17049 del 2015). Nel caso di specie, i ricorrenti si sono limitati a dedurre, in ricorso, di aver proposto, nel corso del giudizio, le domande delle quali lamentano, appunto, l’omessa pronuncia (v. il ricorso, p. 12) senza, tuttavia, riprodurne il contenuto negli esatti termini in cui le stesse erano state formalmente proposte. D’altra parte, non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass. n. 20718 del 2018). Nel caso di specie, la corte d’appello, pur non pronunciandosi espressamente sulle domande riconvenzionali che i ricorrenti assumono di aver proposto in primo grado e riproposto con l’atto d’appello, ne ha inequivocamente ritenuto l’infondatezza ovvero l’assorbimento: quando, in particolare, per un verso, ha accertato che i coniugi S. avevano “acquistato esclusivamente il fabbricato, la corte circostante ed il tratto di strada antistante…” e che “null’altro può ritenersi oggetto dell’alienazione…”, e, per altro verso, ha regolato il confine fra le proprietà G. e C. senza accertare il fatto che i convenuti avevano invocato a sostegno della domanda di evizione nei confronti dell’attore, e cioè che il G. aveva venduto ai S. una porzione immobiliare che, in realtà, era di proprietà di C.R..

4.Con il terzo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione dell’art. 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dopo aver premesso che il comportamento complessivo dei contraenti, anche posteriore alla conclusione del contratto, costituisce un criterio di interpretazione sussidiario, utilizzabile solo nel momento in cui il contratto non permette di determinare con sufficiente chiarezza quale sia stata la comune volontà delle parti, ha ritenuto che, con l’atto stipulato il (OMISSIS), G.V. aveva venduto ai coniugi S. esclusivamente la casa di abitazione, la corte circostante ed il tratto di strada antistante e non anche il piccolo piazzale del quale si discute. Così facendo, però, hanno osservato i ricorrenti, la corte d’appello ha violato la norma prevista dall’art. 1362 c.c. lì dove stabilisce che, nell’interpretazione del contratto, il comportamento complessivo delle parti ha pari rango ermeneutico con quello della valutazione complessiva del documento. Nel caso in esame, in effetti, hanno proseguito i ricorrenti, la corte avrebbe dovuto valorizzare il comportamento tenuto dalle parti non solo all’atto della conclusione del contratto il (OMISSIS) ma anche posteriormente, fino a quando il G. ha recintato la parte semicircolare inghiaiata del piazzale, risultando, infatti, incontestabile che il venditore non solo non aveva mai dichiarato nel contratto di vendita che il predetto piazzale fosse in tutto o in parte di sua proprietà, ma neppure, per ben diciassette anni, aveva fatto presente agli acquirenti che tale porzione gli appartenesse.

5. Con il quarto motivo, i ricorrenti, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnato nella parte in cui la corte d’appello, nell’interpretazione del contratto, non ha tenuto conto che, in realtà, l’oggetto della cessione operata con il contratto di compravendita del (OMISSIS) non è la porzione carrabile della cd. “strada privata” bensì il lotto n. (OMISSIS), insistente sui mappali (OMISSIS) ed (OMISSIS), che ricomprende non solo villa, la corte e la porzione carrabile della cd. strada privata ma anche, come si evince dalla planimetria allegata all’atto, l’intero piazzale, in lunghezza, per tutto il muro di cinta ed, in larghezza, sino al limite del piano del lotto verso il mare.

6.Con il quinto motivo, i ricorrenti, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnato nella parte in cui la corte d’appello non ha tenuto conto che l’oggetto del contratto di compravendita, relativamente al confine lato mare, doveva essere individuato per il tramite della sola planimetria allegata all’atto, conosciuta dai S. e firmata insieme al venditore, dalla quale si evince inconfutabilmente che detto confine non possa essere identificato, come ha erroneamente ritenuto la corte, dal ciglio della strada bensì dal limite del piano del medesimo lotto verso il mare o, in subordine, dal punto del piazzale verso il mare, in cui si arriva una volta misurati mt. 7,50 partendo dal muro di cinta di casa S.. La planimetria, del resto, hanno proseguito i ricorrenti, è stata redatta dal G. con chiara valenza confessoria in ordine al fatto che la cd. “strada privata” ricomprendesse tutto il piazzale, in larghezza, sino al limite del piano.

7.Il terzo, il quarto ed il quinto motivo, da esaminare congiuntamente per l’intima connessione delle questioni trattate, sono inammissibili ed, in ogni caso, infondati. Intanto, i ricorrenti non hanno provveduto, in ossequio al principio della specificità dei motivi del ricorso per cassazione, alla trascrizione delle clausole del contratto e, più in generale, dei documenti che, nei termini in precedenza esposti, costituiscono l’oggetto delle censure ivi articolate: ed è, invece, noto che la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, e dovendo i rilievi contenuti nel ricorso essere accompagnati, al fine di consentire alla Corte di verificare l’erronea applicazione della disciplina normativa, dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti (Cass. n. 25728 del 2013). Quanto al resto, rileva la Corte che, in effetti, l’interpretazione di un atto negoziale costituisce un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del cd. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 nella formulazione vigente ratione temporis, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall’art. 1362 e ss. c.c. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.; Cass. n. 7927 del 2017). Costituisce, invero, principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte quello per cui, con riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può avere ad oggetto la ricostruzione della volontà delle parti (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.), che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore agli artt. 1362 e ss. c.c. ovvero sul vizio (nella specie, però, non invocato dal ricorrente) di motivazione nei limiti previsti dal vigente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 23701 del 2016, in motiv.). Nel caso di specie, come visto, la corte d’appello, dopo aver premesso, in fatto, che G.V., con l’atto a rogito notaio R. del (OMISSIS), ha venduto ai coniugi S.- P. “la casa di abitazione di nuova costruzione ivi descritta,…”e che, come chiarito nell’atto, “la casa… è stata edificata su terreno (che occupa in parte essendo il residuo destinato a corte e strada) della superficie di metri quadrati 1887… distinto in catasto… ai mappati n.ri (OMISSIS) (di metri quadrati 1754) e (OMISSIS) (di metri quadrati 133)”, ha ritenuto, al fine di identificare “lo specifico oggetto del rapporto negoziale”, per un verso, che il documento “consente di ritenere in maniera inequivoca che il tratto di strada prospiciente il lotto venduto fa parte di quanto costituente oggetto della cessione”, tanto più a fronte dell’avvenuta costituzione, “sulla porzione alienata destinata a stradina”, di una servitù di passaggio (“costituzione che non può che essere ricollegata all’avvenuto trasferimento della relativa proprietà”) e, per altro verso, che “la strada sulla quale insiste la servitù di passaggio è quella stessa la cui larghezza massima è riscontrabile anche prima e dopo il piazzale oggetto di contestazione”, per cui, ha concluso la corte, deve escludersi che “oggetto di cessione sia stata una superficie di terreno maggiore di quella indicata dalle parti in contratto e sopra individuata, avendo i coniugi S. acquistato esclusivamente il fabbricato, la corte circostante ed il tratto di strada antistante, senza che abbia rilievo la superficie di quest’ultimo” essendo l’intento dei contraenti riferibile alla concreta destinazione dell’area a sede viaria, con la contemporanea costituzione di reciproca servitù di passaggio lungo tutto il tracciato: “null’altro può ritenersi oggetto dell’alienazione e, dunque, neppure il piccolo piazzale di cui si discute, posto alla stessa quota della strada di accesso, creato in ampliamento della stessa ma di cui, evidentemente, non costituisce parte integrante in quanto non destinato al transito”. Ritiene la Corte che l’interpretazione del contratto che il giudice di merito ha fornito nella sentenza impugnata risulta senz’altro conforme alle norme che presiedono all’interpretazione del contratto e non è, quindi, censurabile per violazione di tali disposizioni. Risponde, in effetti, ad un orientamento consolidato il principio per cui, in sede di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.), fermo restando che il rilievo da assegnare alla formulazione letterale dev’essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale: il giudice, infatti, non può arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, sulla base del “senso letterale delle parole”, giacchè per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto (Cass. n. 7927 del 2017, in motiv.; Cass. 23701 del 2016, in motiv.). Peraltro, sia pur all’indicata condizione, tutte le volte in cui il canone fondato sul significato letterale delle parole, previsto dall’art. 1362 c.c., comma 1, è sufficiente, l’operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente e definitivamente, conclusa (cfr. Cass. n. 5595 del 2014; Cass. n. 9786 del 2010). Stando così le cose, ritiene la Corte che l’interpretazione del contratto che il giudice di merito ha fornito nella sentenza impugnata risulta senz’altro conforme alle norme che presiedono all’interpretazione del contratto e non è, quindi, censurabile per violazione delle disposizioni, come in precedenza ricostruite, degli artt. 1362 e 1363 c.c.. Nessun addebito, in effetti, può muoversi alla sentenza impugnata la quale, invero, tenendo conto della complessiva regolamentazione contenuta nel contratto oggetto del suo esame, non ha affatto limitato l’interpretazione dello stesso con esclusivo riguardo alla lettera di una singola clausola, avendo, piuttosto, esteso l’area della propria indagine ermeneutiche all’intero contenuto del regolamento negoziale, provvedendo a ricostruire la volontà delle parti per come fatta palese proprio con il ricorso ai criteri di interpretazione sistematica del testo al suo esame. E non solo: una volta escluso che il testo in esame presentasse una residua ambiguità, la corte d’appello ha correttamente evitato di dare rilievo, al fine di procedere alla sua interpretazione, al comportamento assunto dalle parti successivamente alla stipulazione del contratto. In effetti, nell’interpretazione delle clausole contrattuali, il giudice di merito, allorchè le espressioni usate dalle parti fanno emergere in modo immediato la comune volontà delle medesime, deve arrestarsi al significato letterale delle parole e non può fare ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici, come il comportamento delle parti anche successivo alla stipula del contratto, se non (fuori dell’ipotesi dell’ambiguità della clausola) previa rigorosa dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale (Cass. n. 20791 del 2004; Cass. n. 18191 del 2007; Cass. n. 23142 del 2014). D’altra parte, nei contratti soggetti, come quello in esame, alla forma scritta ad substantiam, il criterio ermeneutico della valutazione del comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipula del rogito – che, in ogni caso, è solo quello di cui siano stati partecipi entrambi i contraenti, non potendo la comune intenzione delle parti emergere dall’iniziativa unilaterale di una di esse, corrispondente ai suoi personali disegni (Cass. n. 12535 del 2012) – può essere utilizzato solo per chiarire l’interpretazione del contenuto del contratto, per come desumibile dal testo, non per integrare la portata e la rilevanza giuridica della dichiarazione negoziale (Cass. n. 11828 del 2018). Nè, del resto, rileva il contrasto tra i riferimenti catastali risultanti dal frazionamento e la planimetria controfirmata e allegata all’atto e la descrizione dell’immobile ivi contenuta. Invero, come ha correttamente ritenuto la corte d’appello, spetta al giudice, in ipotesi di tal genere, risolvere la questione della maggiore o minore corrispondenza di tali documenti all’intento negoziale ricavato dall’esame complessivo del contratto. Nel caso in esame, ha osservato la corte, la valutazione integrale della compravendita induce a rinvenire la reale intenzione delle parti nel senso in precedenza indicato. In effetti, le piante planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto immobili fanno parte integrante della dichiarazione di volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per l’interpretazione del negozio (Cass. n. 6764 del 2003). Tuttavia, la difformità tra i dati risultanti da un contratto avente ad oggetto beni immobili e la richiamata planimetria, ad esso allegata, involge una questione di fatto, che il giudice di merito deve risolvere ricostruendo la volontà delle parti alla luce del testo complessivo degli atti, rimanendo la sua decisione sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto i profili del rispetto dei criteri legali di interpretazione e del difetto di motivazione (Cass. n. 12594 del 2013). In ogni caso, “per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (Cass. n. 27136 del 2017; Cass. n. 6125 del 2014).

8. Con il sesto motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 345 c.p.c., nella formulazione in vigore prima della L. n. 69 del 2009, nonchè la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., hanno censurato la sentenza impugnato nella parte in cui la corte d’appello ha accolto la domanda di ripristino proposta dal G.. Così facendo, però, hanno osservato i ricorrenti, la corte d’appello non ha considerato che il G., nei precedenti gradi di giudizio, ha sempre sostenuto che la parte semicircolare inghiaiata del piazzale sarebbe stata reinterrata per 130 mc. ma senza addurre alcuna prova. La corte, invece, hanno proseguito i ricorrenti, ha ritenuto che la domanda del G., in merito al presunto reinterro, non necessiterebbe, a norma dell’art. 2697 c.c., di un adeguato riscontro probatorio e che, con inaccettabile inversione dell’onere della prova, dovrebbero essere i convenuti a dimostrare di non aver eseguito alcuna opera di tal genere. I convenuti, del resto, hanno efficacemente contestato le tesi del G. fornendo un abbondante materiale probatorio sul quale, però, la corte, illegittimamente, ha omesso di svolgere qualsiasi valutazione. I coniugi S., in particolare, nel corso del giudizio d’appello, hanno prodotto i rilievi aerofotogrammetrici del 1969 e del 1971 che, però, la corte ha considerato tardivi e non indispensabili ai fini della decisione della causa. In realtà, hanno osservato i ricorrenti, dai documenti prodotti si evince in maniera chiarissima ed incontestabile che il piazzale è sempre esistito almeno sin dal 1969-1971, che era perfettamente in piano ed era già interamente inghiaiato. La valutazione della corte, quindi, risulta palesemente in contrasto con le risultanze della documentazione versata in atti. Ne consegue, hanno proseguito i ricorrenti, la palese erroneità, in violazione dell’art. 345 c.p.c., dell’affermazione resa dalla corte d’appello a proposito della necessaria tempestività che la produzione documentale avrebbe dovuto avere ai fini della valutazione circa il suo carattere indispensabile ai fini della decisione della causa. I convenuti, infatti, pur non avendone l’onere, hanno offerto abbondanti prove delle circostanze da essi dedotte, sia documentali, che deduttive, per cui, alla luce della situazione descritta, quale si evince dalle risultanze della fase istruttoria sia del giudizio di primo grado che del successivo grado d’appello, risulta illegittima ed immotivata la decisione di non ammettere la prova testimoniale dedotto dai ricorrenti. La corte, al contrario, ha ritenuto di concordare con la tesi del G. sulla base di due affermazioni rese dal consulente tecnico d’ufficio che, però, i convenuti hanno confutato con il proprio consulente tecnico. La corte, poi, hanno proseguito i ricorrenti, ha ulteriormente violato l’art. 2697 c.c. nella parte in cui ha ritenuto che la prova del reinterro da parte dei S. poteva essere desunta dalla semplice affermazioni del consulente tecnico d’ufficio secondo la quale la superficie del piazza letto mostrerebbe la disotto della ghiaia superficiale dei frammenti di laterizi, macerie edili e prodotti terrosi in genere, laddove, in realtà, ciò non corrisponde al vero: del resto, se si parla di macerie edili e laterizi, l’unico ad averne la disponibilità in casa e ad averle riposte, nell’altra porzione del piazzale, è proprio l’attore. Infine, hanno concluso i ricorrenti, la decisione della corte risulta viziata anche in relazione alla non corretta applicazione dell’art. 115 c.p.c. in quanto la corte d’appello ha erroneamente ritenuto non provati numerosi fatti che i convenuti hanno dedotto in giudizio in ordine ai quali l’attore non ha formulato alcuna contestazione.

9.Con il settimo motivo, i ricorrenti, lamentando l’omesso esame di una serie di fatti decisivi per il giudizio, che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnato nella parte in cui la corte d’appello ha omesso di valutare fatti decisivi che i convenuti hanno dedotto nel corso del giudizio, vale a dire: – il G., che ha costruito il complesso tra il 1968 ed il 1970, non ha mai prodotto le foto che indubbiamente, quale costruttore delle villette, ha scattato all’inizio ed alla fine dei lavori; – nel giudizio petitorio introdotto nel 1990, il G. aveva affermato che la parte semicircolare inghiaiata era stata realizzata da ignoti ed in un tempo imprecisato; – il G. ha affermato di aver dovuto introdurre il giudizio petitorio perchè, altrimenti, i S. avrebbero potuto usucapire la parte da lui rivendicata, avendo parcheggiato le loro auto sin dal 1971, così ammettendo che quella parte del piazzale esisteva sin dall’immissione in possesso dei S. nel 1971; – i coniugi S. hanno prodotto ampia ed esaustiva documentazione fotografica dello stato dei luoghi; – la controparte non ha offerto alcun elemento di prova che potesse confutare quanto rappresentato nella predetta documentazione fotografica, limitandosi ad affermare che lo foto non rappresenterebbero l’area oggetto del giudizio; – tutte le carte tecniche allegate o richiamate dall’atto del (OMISSIS) presentano il lotto venduto ai S. con una conformazione ed una consistenza identica; la linea di confine mare del lotto acquistato dai S. è quella di piano e non quella del ciglio strada; – il G., nel redigere le planimetrie di lotto allegate ai vari atti di compravendita, dà atto della predetta circostanza; – il G. ha presentato, nel 1988, una proposta al Comune di Ancona di alberatura e, nel delinearne le caratteristiche con riferimento alla parte semicircolare inghiaiata, ne riconosce espressamente la sua preesistenza al suo intervento di edificazione del 1968; la presenza del piano piazzale sin dagli inizi del 1900, avendo i S. dimostrato che proprio sulla parte di area che il G. rivendica esisteva, all’epoca, un picco fabbricato.

10. Il sesto ed il settimo motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati. Intanto, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, la quale, invece, è sindacabile, in sede di legittimità, solo entro i ristretti limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 13395 del 2018). Nel caso di specie, la corte d’appello, lì dove ha ritenuto che: – l’apporto di materiale di risulta sull’area di cui trattasi trova riscontro nel posizionamento della fossa biologica con la relativa tombinatura; – il possesso materiale dell’area medesima non può essere utilmente negato dagli appellanti principali posto che tale possesso è stato reclamato dagli stessi in sede giudiziaria, ottenendo la relativa tutela; – la presenza di materiale di riporto della superficie del piazza letto è stata attestata dal consulente tecnico d’ufficio il quale ha evidenziato la presenza, al di sotto di uno strato superficiale costituito da ghiaia, di frammenti di laterizio, macerie edili e prodotto terroso in genere; non ha affatto stabilito, come invece pretendono i ricorrenti, che i convenuti avevano l’onere di dimostrare la mancata esecuzione del reinterro del piazzale, limitandosi, più semplicemente, a valutare, nei termini esposti, le prove raccolte sul punto nel corso del giudizio. Quanto, poi, ai rilievi aerofotogrammetrici, i ricorrenti, a ben vedere, non si confrontano con la ratio della decisione assunta dalla corte d’appello la quale, infatti, nella sostanza, con statuizione rimasta incensurata, ha escluso ogni rilievo alla produzione effettuata dagli appellanti nel corso del giudizio di secondo grado ritenendola “dotata di risoluzione di scarsa affidabilità”. La valutazione degli elementi istruttori costituisce, del resto, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): in effetti, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008). Quanto al resto, non può che ribadirsi che, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore ratione temporis, consente di denunciare in cassazione oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia, nella specie neppure invocata, si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (così, più di recente, Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). Pertanto, laddove non si contesti – come nel caso di specie – l’inesistenza, nei termini predetti, del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di motivazione può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Cass. n. 23940 del 2017, in motiv.). Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente, che denuncia il vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ha l’onere di indicare non una mera “questione” o un semplice “punto” della sentenza ma il “fatto storico”, principale (e cioè il fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) ovvero secondario (cioè dedotto in funzione di prova di un fatto principale) – vale a dire un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017; Cass. n. 21152 del 2014; Cass. SU. n. 5745 del 2015) – il cui esame sia stato omesso, nonchè il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti ed, infine, la sua “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.). L’omesso esame di elementi istruttori non dà luogo, pertanto, al vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). E’, quindi, inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per sostenere semplicemente, come hanno fatto i ricorrenti, il mancato esame di deduzioni istruttorie ovvero di documenti da parte del giudice del merito (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.). Nel caso di specie, del resto, i ricorrenti non hanno specificamente dedotto quali sono stati i fatti storici che la corte d’appello, benchè decisivi ed oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio nei termini prima indicati, avrebbe omesso di esaminare, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono, invero, apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 17097 del 2010; Cass. n. 19011 del 2017). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), invero, il giudice civile, con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, può ben valutare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti (Cass. n. 11176 del 2017). Sono, infine, inammissibili le censure relative alla mancata contestazione, ad opera dell’attore, dei fatti addotti dai convenuti ed alla mancata ammissione della prova testimoniale che gli stessi avevano invocato, se non altro perchè, da un lato, il ricorrente per cassazione, che intenda denunciare l’omessa considerazione, nella sentenza impugnata, della prova derivante dalla assenza di contestazioni della controparte su una determinata circostanza, ha l’onere – nella specie inadempiuto di indicare specificamente il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi, evidenziando in modo puntuale la genericità o l’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto (Cass. n. 12840 del 2017) e, dall’altro lato, il ricorrente per cassazione, il quale denunci la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, ha l’onere – parimenti inadempiuto nel caso in esame – di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 23194 del 2017).

11. Con l’ottavo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione degli artt. 1158 e ss. e 2697 c.c. e degli artt. 99-244 e ss. c.p.c., hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha respinto la domanda, che gli stessi avevano proposto, di usucapione sulla porzione del mappale n. (OMISSIS), di proprietà di C.R., per l’utilizzo ultraventennale, pacifico ed incontrastato, della medesima, sul rilievo che le risultanze acquisite non sarebbero idonee a fornire la dimostrazione della pretesa della quale hanno chiesto il riconoscimento. La valutazione che la corte ha espresso sul punto, tuttavia, hanno osservato i ricorrenti, è motivata in modo contraddittorio e non è esente da vizi di illogicità. La corte, infatti, pur avendo ritenuto l’inidoneità probatoria delle risultanze acquisite nel corso del giudizio, ha nondimeno ritenuto di non ammettere la prova testimoniale articolata in primo grado dai convenuti, affermandone l’irrilevanza ai fini della dimostrazione delle circostanze ivi dedotte sulla base, tuttavia, di una valutazione del tutto generica ed inidonea a individuare le effettive ragioni per le quali i capitoli di prova articolati non sarebbero in grado di supportare le circostanze di fatto dedotte.

12. Il motivo è inammissibile. Come in precedenza osservato, infatti, il ricorrente per cassazione, il quale denunci la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 23194 del 2017). Nel caso in esame, invece, i ricorrenti non hanno riprodotto, in ricorso, le circostanze sulle quali i testimoni avrebbero dovuto essere sentiti nè hanno dimostrato l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice e che la pronuncia impugnata, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, in tal modo pregiudicando l’ammissibilità della censura svolta.

13. Con l’unico motivo di ricorso incidentale che hanno articolato, i controricorrenti, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 1226 c.c., e dell’art. 1 del protocollo addizionale alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha respinto la domanda, che gli stessi avevano proposto, di condanna al risarcimento dei danni per abusiva occupazione, sul rilievo che il danno da occupazione abusiva di un immobile non è in re ipsa perchè non solo ne deve essere dimostrata l’effettiva esistenza, ma anche il quantum, dal momento che il potere di liquidazione equitativa del danno non esonera dall’onere di fornire gli elementi idonei e necessari per la sua precisa quantificazione. Così facendo, però, hanno osservato i controricorrenti, la corte d’appello ha omesso di considerare che la proprietà, la cui tutela è compresa nell’art. 1 del protocollo addizionale alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, con la conseguenza che la violazione di tale diritto, indipendentemente dalla sua ricaduta economica, comporta la sua riparazione. Il proprietario privato del possesso, hanno proseguito i controricorrenti, subisce un torto che non è ripristinato dalla restituzione del bene, che trascura il mancato godimento medio tempore. Nel caso in esame, l’occupazione abusiva dell’immobile ha privato il proprietario G. del godimento del suo bene che ha di per sè un valore che dev’essere risarcito indipendentemente dal suo sfruttamento economico, dalla sua estensione e dalla sua collocazione.

14. Il motivo è infondato ma la motivazione resa dalla corte d’appello dev’essere corretta. La sentenza impugnata, infatti, nella parte in cui ha ritenuto che, in caso di illegittima occupazione di un immobile, il potere del giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa “non esonera la parte istante dall’onere di fornire gli elementi idonei e necessari al fine di permettere la precisa determinazione del danno stesso, essendo… imprescindibile che ne sia dimostrata l’effettiva esistenza”, non si è attenuta al principio, che il collegio condivide, secondo il quale, al contrario, in un caso siffatto, l’esistenza del danno connesso alla perdita di disponibilità del bene ed all’impossibilità di conseguirne la relativa utilità è ravvisabile dal giudice sulla base di una presunzione (cfr. Cass. n. 29990 del 2018; conf. Cass. n. 16670 del 2016). Tuttavia, poichè si tratta di una presunzione meramente relativa, il giudice di merito, in forza degli elementi di fatto accertati in giudizio, può escluderne, in concreto, l’operatività (cfr. Cass. n. 20823 del 2015): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, infatti, sulla base di un accertamento in fatto insindacabile in questa sede, ha ritenuto che il danno lamentato dall’attore non sussisteva in ragione, per un verso, della “modesta estensione dello spazio interessato”, pari ad alcune decine di metri quadrati di superficie, e, per altro verso, della sua “collocazione ai margini della proprietà”, per cui, tenuto anche conto che si tratta di un terreno incolto, “il difetto di disponibilità ai fini dell’eventuale utilizzo neppure si prospetta configurabile sotto il profilo del nocumento”.

15. Il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere, quindi, rigettati.

16. Le spese di lite seguono la prevalente soccombenza dei ricorrenti principali e sono liquidate in dispositivo.

17. La Corte dà atto della sussistenza, tanto con riguardo al ricorso principale, quanto con riferimento al ricorso incidentale, dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; condanna i ricorrenti a rimborsare ai controricorrenti le spese di lite, che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza, tanto con riguardo al ricorso principale, quanto con riferimento al ricorso incidentale, dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 9 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

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