Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21242 del 09/08/2019

Cassazione civile sez. II, 09/08/2019, (ud. 26/03/2019, dep. 09/08/2019), n.21242

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4599-2015 proposto da:

S.P., rappresentato e difeso dall’Avvocato ANDREA VERNAZZA e

dall’Avvocato MARIA CARLA VECCHI, presso il cui studio a Roma, viale

Giulio Cesare 118, elettivamente domicilia, per procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO di (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avvocato

MAURILIO BERTONI e dall’Avvocato GIUSEPPE BERTONI, per procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il

27/5/2014;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

26/3/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale della Repubblica, Dott. CORRADO MISTRI, il quale ha

concluso per l’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Condomino di (OMISSIS), a seguito di ricorso proposto a norma dell’art. 700 c.p.c., ha ottenuto di poter accedere nella cantina n. (OMISSIS), di proprietà di S.P. e M.E., per far eliminare l’intasamento di un sifone che, verso la fine del mese di agosto del 2004, aveva creato una fuoriuscita di liquami in alcuni degli appartamenti soprastanti, facenti parte dell’edificio condominiale. Il Condominio, al riguardo, aveva lamentato che i proprietari della cantina, benchè contattati, non si erano resi disponibili ad aprire la porta della cantina nè a fornire la relativa chiave e nemmeno avevano autorizzato la forzatura del lucchetto.

S.P. e M.E. si sono costituiti nel giudizio di merito introdotto dal Condominio e, senza contestare di essere stati informati – anche con telegramma del 31/8/2004 dell’urgente esigenza di entrare nella loro cantina, hanno dedotto l’impossibilità, da parte degli stessi, a dare il loro consenso, in quanto assenti ed impegnati in questioni personali, ed hanno, quindi, chiesto il rigetto delle domande proposte dall’attore ed, in via riconvenzionale, la condanna del Condominio al risarcimento del danno che l’intasamento del sifone aveva arrecato alla loro cantina.

Il tribunale, con sentenza del 22/10/2009, ha dichiarato il diritto del Condominio ad accedere alla cantina dei convenuti, per l’esecuzione dei lavori di eliminazione dell’intasamento del sifone della colonna fognaria. Il tribunale, inoltre, dopo aver compensato tra le parti le somme dovute dai convenuti per i danni subiti dal Condominio a causa dell’inerzia dei primi e le somme dovute dal Condominio a titolo di parziale risarcimento del danno alla cantina dei convenuti, ha rigettato, per il resto, la domanda riconvenzionale proposta da questi ultimi per l’integrale risarcimento dei danni subiti sul rilievo che si trattava di danni che, per la gran parte, gli stessi avevano contribuito a determinare. Il tribunale, infine, ha posto definitivamente a carico dei convenuti le spese di consulenza tecnica, già liquidate in corso di causa, e le spese di lite.

I convenuti hanno proposto appello.

Il Condominio ha resistito al gravame ed, a sua volta, proposto, in ordine alle spese di lite, appello incidentale condizionato.

La corte d’appello, con la sentenza impugnata, ha rigettato l’appello ed ha condannato gli appellanti al rimborso delle spese di lite relative al giudizio di secondo grado.

La corte, in particolare, ha premesso, in fatto, che: – era risultato provato in giudizio che gli appellanti, pur informati dal Condominio, con telegramma del 31/8/2004, della situazione di estrema urgenza che giustificava la richiesta di accesso alla loro cantina, non avevano dato il proprio consenso all’ingresso nel relativo locale, nel quale si trovava il sifone in stato di intasamento: le testimonianze raccolte, infatti, hanno dimostrato che gli appellanti hanno avuto un comportamento di disinteresse ed, in sostanza, di ostruzionismo, negando il proprio consenso all’apertura del predetto locale; – nel telegramma che gli appellanti hanno spedito all’amministratore solo il 6/9/2004, emerge una reiterata mancanza di collaborazione poichè, in esso, la M. aveva rappresentato all’amministratore che i convenuti non avrebbero potuto spostare il mobilio presente nella propria cantina pur potendo incaricare a tal fine una persona di famiglia o di fiducia nell’interesse della proprietà comune.

La corte, quindi, sulla base di tali premesse, ha rilevato che, a norma dell’art. 12 del Regolamento di condominio, l’amministratore ha la facoltà di avvalersi dei mezzi in uso per accedere all’appartamento o nei locali chiusi quando, per guasti verificatisi nell’interno dei medesimi, vi sia l’assoluta urgenza e l’inderogabile necessità di evitare senza indugio danni all’edificio ed agli altri condomini. Ne consegue, ha proseguito la corte, che, per quanto la disposizione sia generica circa le modalità d’accesso ai locali privati, “stante il dovere di collaborazione del singolo condomino alla conservazione dei beni comuni nonchè l’onere previsto per il proprietario dall’art. 843 c.c., la citata disposizione condominiale non può esimere il singolo condomino dal consentire l’ingresso da parte dell’amministratore, onde far effettuale il ripristino dei bene comune”. Ed infatti, ha proseguito la corte, in materia di condominio negli edifici, il condominio ha il diritto e l’obbligo di deliberare e di eseguire opere di riparazione e manutenzione a protezione delle proprietà comuni al fine di evitare danni alle proprietà esclusive dei condomini e dei terzi, per cui, in mancanza della collaborazione dei condomini al riguardo, l’amministratore può agire in giudizio, in rappresentanza del condominio, per far valere tale diritto, sia in sede cautelare (art. 1130 c.c., n. 4) che di merito (art. 1131 c.c.).

La corte, quindi, dopo aver evidenziato come la proposizione del ricorso d’urgenza da parte del Condominio era pienamente giustificata e conseguente ad una situazione d’effettiva necessità, ha ritenuto: innanzitutto, che il tribunale aveva correttamente affermato come gli appellanti, per la mancanza da parte degli stessi di tempestiva collaborazione, erano corresponsabili nella causazione dei danni riscontrati nella loro cantina, come quantificati alla luce delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio; in secondo luogo, che il tribunale aveva congruamente determinato nella misura dei due terzi l’entità della responsabilità degli appellanti posto che “la tempestiva apertura del vano dei convenuti avrebbe evitato la maggior parte dei danni alle pareti dello stesso ed ai beni mobili in esso contenuti (a causa del diffondersi dei liquami)”, correttamente compensando il restante terzo dei danni subìti dagli stessi appellanti con il maggior esborso, pari ad Euro 276,00, causato al Condominio in conseguenza della condotta oppositiva dei convenuti.

La corte, infine, ha ritenuto che la decisione del tribunale, costituendo applicazione del principio di soccombenza, era corretta anche per ciò che riguarda le spese di lite e che non sussistevano le condizioni che ne giustificassero una deroga.

S.P., con ricorso spedito per la notifica il 4/2/2015, ha chiesto, per tre motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

Il Condominio ha resistito con controricorso notificato in data 13/3/2015 ed ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 843 c.c. nonchè della correlata norma dell’art. 12 regolamento condominiale, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha considerato che l’art. 12 regolamento condominiale, riconoscendo all’amministratore del condominio la facoltà di avvalersi dei mezzi d’uso per accedere alla proprietà dei singoli condomini quando la stessa fosse chiusa e si versasse in un caso di assoluta urgenza, come l’esigenza di scongiurare danni all’edificio o ad altri condomini, ha, in realtà, attribuito all’amministratore il pieno potere, una volta accertata l’assenza dei coniugi S. e l’impossibilità che qualcuno potesse per loro conto aprire la porta della cantina, di accedere al locale forzandone l’apertura, salvo l’indennizzo del danno cagionato ai sensi dell’art. 843 c.c., a prescindere dall’accertamento sul fatto che i coniugi S. avessero dato, o meno, un esplicito consenso all’accesso alla loro cantina. L’amministratore, quindi, ha proseguito il ricorrente, aveva, a fronte dell’incontestata situazione di urgenza, il potere di accedere al locale, forzandone la serratura, senza che fosse a tal fine necessario il ricorso d’urgenza al giudice.

2. Il motivo è inammissibile per difetto d’interesse. Questa Corte, infatti, ha già avuto modo di affermare (Cass. n. 3522 del 2003) che il condominio ha il diritto di provvedere alla riparazione e alla manutenzione dei beni comuni dell’edificio ed ha l’obbligo di farlo onde evitare danni alle proprietà esclusive dei condomini e dei terzi e che, ove manchi la collaborazione dei condomini all’esercizio di tale diritto, l’amministratore può agire in giudizio, in rappresentanza del condominio, per far valere tale diritto, sia in sede cautelare (art. 1130 c.c., n. 4) che di merito (art. 1131 c.c.). La facoltà che il regolamento di condominio attribuisca all’amministratore di accedere negli appartamenti o nei locali chiusi quando, per guasti verificatisi nell’interno dei medesimi, vi sia l’assoluta urgenza e l’inderogabile necessità di evitare senza indugio danni all’edificio e agli altri condomini, non esclude, pertanto, che l’amministratore, ove lo ritenga, abbia senz’altro il potere, anzichè di accedere direttamente forzando le porte di chiusura, di chiedere ed ottenere dal giudice, anche in via d’urgenza, la necessaria tutela giudiziaria: la quale, del resto, una volta richiesta, espone l’attore all’obbligo di rimborsare alla controparte le spese anticipate (che non siano eccessive o superflue: art. 92 c.p.c., comma 1) solo in caso di soccombenza (art. 91 c.p.c.), vale a dire di rigetto della domanda proposta, ovvero all’obbligo di risarcire i danni arrecati solo se, trattandosi di azione cautelare proposta senza la normale prudenza, il giudice abbia accertato l’inesistenza del diritto per cui il provvedimento cautelare sia stato eseguito (art. 96 c.p.c., comma 2). Ciò che, nel caso in esame, non risulta nè provato nè dedotto: il giudizio di merito, del resto, ha accertato l’esistenza del diritto cautelato e non ha rinvenuto che il provvedimento cautelare sia stato eseguito senza la necessaria prudenza. Non si comprende, pertanto, quale sia l’interesse sottostante alla censura in esame posto che, ove pure se ne ritenesse la fondatezza, nel senso che l’amministratore aveva la facoltà di accedere nella cantina del ricorrente, forzandone la porta, senza dover necessariamente ricorrere alla tutela d’urgenza da parte dei giudice, nessun vantaggio concreto il ricorrente potrebbe ricevere dal suo accoglimento: nè in termini di esonero dal pagamento delle relative spese (essendo stato soccombente nel merito e, comunque, non avendo dimostrato la loro eccessività o superfluità) ovvero di diritto al risarcimento dei conseguenti danni (avendo il giudice accertato l’esistenza del diritto che l’amministratore aveva cautelato in via giudiziaria).

3. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza impugnata per contraddittoria o insufficiente motivazione sugli obblighi nascenti in capo agli odierni ricorrenti dall’art. 843 c.c. nonchè per l’erronea interpretazione ed applicazione della citata norma di legge sul tema, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che, in ogni caso, “stante il dovere di collaborazione del singolo condomino alla conservazione dei beni comuni nonchè l’onere previsto per il proprietario dall’art. 843 c.c., la citata disposizione condominiale non può esimere il singolo condomino dal consentire l’ingresso da parte dell’amministratore, onde far effettuale il ripristino del bene comune”, e che il tribunale aveva correttamente affermato la corresponsabilità degli appellanti, attesa la mancanza di una tempestiva collaborazione da parte degli stessi, nella causazione dei danni riscontrati nella loro cantina, posto che le prove raccolte avevano dimostrato che gli appellanti avevano avuto un comportamento, peraltro reiterato, di disinteresse ed, in sostanza, di ostruzionismo, negando il proprio consenso all’apertura del predetto locale. La corte, però, ha proseguito il ricorrente, così facendo, ha trasformato, in modo del tutto incongruo sul piano logico, l’assenza dei convenuti da casa nel mese di agosto ed il loro invito all’amministratore a provvedere come meglio ritenesse in un vero e proprio diniego all’accesso. Del resto, ha aggiunto il ricorrente, la sentenza impugnata ha configurato l’esistenza, a norma dell’art. 843 c.c., di un vero e proprio obbligo del proprietario del fondo sul quale si deve accedere di natura positivamente collaborativa laddove, al contrario, tale norma impone al proprietario del fondo sul quale deve esercitarsi, in situazione di necessità, l’altrui acceso, solo una condotta di mera tolleranza.

4. Il motivo è infondato. Intanto, quanto al primo profilo, la sentenza impugnata è soggetta alla norma prevista dall’art. 360 c.p.c., n. 5 nel testo conseguente alle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. con modif. con la L. n. 134 del 2012. Ed è noto come, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore successivamente alle citate modifiche, consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia, nella specie neppure invocata, si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (così, più di recente, Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). Al di fuori di tale omissione, il controllo del vizio rimane, pertanto, circoscritto alla sola verifica dell’esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità. Pertanto, laddove non si contesti – come nel caso di specie – l’inesistenza, nei termini predetti, del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di motivazione può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Cass. n. 23940 del 2017, in motiv.). Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente, che denuncia il vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ha l’onere di indicare non una mera “questione” o un semplice “punto” della sentenza ma il “fatto storico”, principale (e cioè il fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) ovvero secondario (cioè dedotto in funzione di prova di un fatto principale) – vale a dire un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017; Cass. n. 21152 del 2014; Cass. SU. n. 5745 del 2015) – il cui esame sia stato omesso, nonchè il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti ed, infine, la sua “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.). L’omesso esame di elementi istruttori non dà luogo, pertanto, al vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). E’, quindi, inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per sostenere semplicemente il mancato esame di deduzioni istruttorie ovvero di documenti da parte del giudice del merito (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.). Nel caso di specie, il ricorrente non ha specificamente dedotto quali sono stati i fatti storici che la corte d’appello, benchè decisivi ed oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, avrebbe omesso di esaminare, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, infatti, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Com’è noto, il compito di questa Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato i documenti e le prove testimoniali raccolte in giudizio, ha, in modo logico e coerente, indicato le ragioni per le quali ha ritenuto che gli appellanti, pur informati dal Condominio, con telegramma del 31/8/2004, della situazione di estrema urgenza che giustificava la richiesta di accesso alla loro cantina, non avevano dato il proprio consenso all’ingresso nel relativo locale, nel quale si trovava il sifone in stato di intasamento, e che avevano, dunque, assunto un comportamento di disinteresse ed, in sostanza, di ostruzionismo. Ed una volta che, in fatto, tale è stata la situazione accertata (oramai in via definitiva) dalla corte d’appello, risulta, allora, del tutto corretta la decisione con la quale la stessa corte, sulla base del predetto accertamento, ha ritenuto che gli appellanti avessero violato “il dovere di collaborazione del singolo condomino alla conservazione dei beni comuni” previsto dalla disposizione contenuta nell’art. 12 del regolamento condominiale (la quale “non può esimere il singolo condomino dal consentire l’ingresso da parte dell’amministratore, onde far effettuale il ripristino dei bene comune”) ed, in ogni caso, inadempiuto all’onere previsto per il proprietario dall’art. 843 c.c.”, in tal modo adeguandosi al principio, in precedenza esposto, secondo cui, in materia di condominio negli edifici, il condominio ha il diritto di provvedere alla riparazione e alla manutenzione dei beni comuni dell’edificio ed ha l’obbligo di farlo onde evitare danni alle proprietà esclusive dei condomini e dei terzi, per cui, ove manchi la collaborazione dei condomini all’esercizio di tale diritto, l’amministratore può agire in giudizio, in rappresentanza del condominio, per far valere tale diritto, sia in sede cautelare (art. 1130 c.c., n. 4) che di merito (art. 1131 c.c.).

5. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la nullità della sentenza impugnata in punto di compensazione dell’indennizzo in favore dei coniugi S. dei danni cagionati dall’intervento in ragione dell’implicita erronea applicazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 843 c.c., a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, condividendo la decisione assunta dal tribunale, ha affermato che gli appellanti, non avendo assicurato una tempestiva collaborazione, erano corresponsabili dei danni riscontrati nella loro cantina, come quantificati alla luce delle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio. In realtà, ha osservato il ricorrente, la necessità di accesso alla cantina era insorta per l’intasamento causato dai soprastanti condomini e non dai convenuti. I S., del resto, non hanno impedito agli intervenuti di spostare i loro mobili, avendo solo rappresentato che non potevano farlo personalmente. L’art. 1227 c.c., inoltre, ha proseguito il ricorrente, prevede che il risarcimento dei danni dev’essere diminuito solo in caso di concorso del fatto colposo dello stesso danneggiato, laddove, in realtà, la mera tolleranza dei S. senza la fattiva collaborazione degli stessi non può essere qualificata, ai fini della predetta norma, come fatto colposo del creditore. In ogni caso, ha aggiunto il ricorrente, i maggiori danni alla cantina sono stati cagionati dall’allagamento conseguente al disintaso della condotta delle acque condominiali e, con minore incidenza, ai mobili: il consulente tecnico d’ufficio ha stabilito che i S. hanno subito un pregiudizio quantificabile in Euro 700,00 mentre i maggiori costi subiti dal Condominio per il ritardo addebitabile ai S. è da computarsi in Euro 276,00, per cui gli stessi avrebbero dovuto ricevere, a titolo d’indennizzo, la somma di Euro 424,00, pari alla differenza tra Euro 700,00 ed Euro 276,00. Il tribunale, invece, con decisione avallata dalla corte d’appello, ha, in via equitativa, compensato i danni cagionati alla cantina con i maggiori costi dell’intervento tecnico del Condominio, in tal modo violando i criteri di applicazione e di interpretazione dell’art. 1227 c.c..

Infine, ha concluso il ricorrente, la corte d’appello ha applicando in modo manifestamente erroneo il criterio della causalità: i danni cagionati alla cantina, derivando dall’intervento di disintaso della colonna di scarico e dal successivo allagamento, si sarebbero comunque determinati anche se l’accesso fosse stato effettuato uno o due giorni prima.

6. Il motivo, nelle plurime censure che lo integrano, è infondato. Intanto, il giudizio d’appello, per come risulta incontestatamente ricostruito dalla sentenza impugnata, non risulta avere avuto ad oggetto nè la questione relativa alla dedotta necessità di accesso alla cantina solo per l’intasamento causato dai soprastanti condomini, nè quella concernente il mancato impedimento da parte dei S. allo spostamento dei loro mobili da parte degli intervenuti e neppure la questione relativa all’imputazione dei maggiori danni all’allagamento conseguente al disintaso della condotta delle acque condominiali e, quindi, al fatto che tali danni si sarebbero egualmente verificati anche se l’accesso alla cantina fosse stato effettuato in precedenza. Ed è noto, invece, che i motivi del ricorso per cassazione devono investire questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti: in particolare, non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse postulano indagini ed accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità (Cass. n. 16742 del 2005; Cass. n. 22154 del 2004; Cass. n. 2967 del 2001). Pertanto, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 6542 del 2004), qualora una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ciò che, nella specie, non risulta essere accaduto. Quanto al resto, e cioè alla invocata violazione dell’art. 1227 c.c., il ricorrente, lì dove ha censurato la sentenza impugnata per avere la corte d’appello ritenuto che la mera mancanza della dovuta collaborazione da parte dei S. era configurabile come concorso del fatto colposo del danneggiato, non si confronta, a ben vedere, con la ratio sottostante alla decisione assunta sul punto dal giudice territoriale: il quale, infatti, condividendo sentenza del tribunale, ha, in realtà, ritenuto, per un verso, che “la tempestiva apertura del vano” da parte “dei convenuti avrebbe evitato”, per la misura dei due terzi, i “danni” che, “a causa del diffondersi dei liquami”, erano stati arrecati “alle pareti dello stesso ed ai beni mobili in esso contenuti”, escludendo, per tale quota, il diritto dei convenuti al relativo risarcimento, e, per altro verso, che il diritto di questi ultimi al risarcimento dei danni residui doveva essere compensato con il correlativo diritto del Condominio al recupero, nei confronti degli stessi, del maggior esborso, pari ad Euro 276,00, ad esso causato dalla condotta oppositiva dei convenuti. La corte d’appello, quindi, escludendo il risarcimento dei danni che i convenuti hanno subito (“alle pareti dello stesso ed ai beni mobili in esso contenuti”) in conseguenza di fatto illecito imputabile al Condominio (“a causa del diffondersi dei liquami”) ma che avrebbero potuto evitare se avesse adempiuto al dovere di consentire all’amministratore del condominio di entrare nel suo immobile per i lavori di ripristino del bene comune, ha fatto, in realtà, applicazione (non già, come pretende il ricorrente, dell’art. 1227 c.c., comma 1, che “riduce” il risarcimento spettante al danneggiato per i danni che il fatto colposo dello stesso abbia concorso a cagionare, quanto) dell’art. 1227 c.c., comma 2, che esclude, appunto, il risarcimento dei danni (causalmente imputabili solo all’atto illecito del danneggiante ma) che il danneggiato avrebbe potuto evitare con la dovuta diligenza: quale, nel caso in esame, si specifica, a norma dell’art. 12 del regolamento condominiale (il quale “non può esimere il singolo condomino dal consentire l’ingresso da parte dell’amministratore, onde far effettuale il ripristino dei bene comune”) ed, in ogni caso, dell’onere previsto per il proprietario dall’art. 843 c.c.”, vale a dire come “dovere di collaborazione del singolo condomino alla conservazione dei beni comuni”.

7. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.

8. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

9. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

la Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 2.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2019

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