Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21233 del 23/07/2021

Cassazione civile sez. I, 23/07/2021, (ud. 24/03/2021, dep. 23/07/2021), n.21233

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5045/2016 proposto da:

Visa S.p.a., elettivamente domiciliata in Roma, piazza Crati 20,

presso lo studio dell’avvocato Sabatini Luigi, rappresentata e

difesa dall’avvocato Antonio De Capoa per procura in atti;

– ricorrente –

contro

Munax S.r.l., elettivamente domiciliata in Roma, via Nizza 45, presso

lo studio dell’avvocato Stefano Fiorentini, che la rappresentata e

difesa per procura in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 81/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 14/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/03/2021 dal cons. DI MARZIO MAURO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Visa S.p.a., già Nettuno S.r.l., ricorre per quattro mezzi, illustrati da memoria, nei confronti di Munax S.r.l., società di diritto romeno, contro l’ordinanza del 14 gennaio 2016 con cui la Corte d’appello di Venezia ha respinto la sua domanda volta all’accertamento della non riconoscibilità, unitamente alla domanda della controparte volta al riconoscimento in via incidentale, di due sentenze romene, rese in primo e secondo grado dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Timsoara, le quali portavano condanna di Nettuno S.r.l. a manlevare Munax S.r.l., che era stata condannata al pagamento della somma di Euro 54.425,29 in favore di una società terza, pure essa di diritto romeno, Flor Center S.r.l..

2. – Munax S.r.l. resiste con controricorso.

3. – Il procuratore generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. – Il ricorso contiene quattro motivi.

4.1. – Il primo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 163 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, censurando l’ordinanza impugnata sull’assunto che il giudizio di riconoscimento di una decisione in materia civile proveniente da un paese membro dell’unione Europea sarebbe assoggettato al rito ordinario, e non al rito sommario di cognizione adottato dalla Corte territoriale, che aveva chiuso il giudizio con ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c..

4.2. – Il secondo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 34 del Regolamento CeEn. 44/2001 dell’art. 111 Cost., art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, censurando l’ordinanza impugnata per avere il giudice di merito negato che dinanzi al Tribunale di Timsoara si fosse consumata una evidente insopportabile compromissione del diritto di difesa di essa società odierna ricorrente, per il fatto che la sua chiamata in causa era stata effettuata dopo che il Tribunale aveva già esaminato ed ammesso le istanze istruttorie avversarie ed aveva già proceduto all’assunzione di alcune prove testimoniali.

4.3. – Il terzo mezzo denuncia violazione delle medesime disposizioni con riguardo al riconoscimento della sentenza d’appello, la quale aveva dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione dinanzi ad essa spiegata dalla allora Nettuno S.r.l. a causa del mancato pagamento della relativa tassa giudiziaria.

4.4. – Il quarto mezzo denuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame da parte della Corte di merito circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, fatto a dire della ricorrente consistente in ciò, che la decisione della corte d’appello romena era stata adottata con la dissenting opinion di uno dei componenti del collegio.

5. – Il ricorso è infondato.

5.1. – Il primo mezzo è inammissibile.

La ricorrente ha commesso un doppio errore nel richiamare, nella rubrica del primo motivo, “l’art. 360 c.p.c., comma 3”: per un verso essa ha fatto riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 3, che non ha evidentemente nulla a che vedere con la vicenda in esame, sancendo la non impugnabilità con ricorso per cassazione delle decisioni su questioni; per altro verso la rubrica, nel fare confusione tra l’art. 360, comma 3, e il numero 3 del comma 1 dello stesso articolo, non ha richiamato a proposito il vizio di violazione di legge, giacché ciò che è stato in questo caso dedotto è senza dubbio un error in procedendo, quale la decisione della causa con ordinanza e non con sentenza, astrattamente riconducibile al numero 4, non al numero 3, dell’art. 360 c.p.c..

Tanto premesso, come osservato anche dal Procuratore Generale, la ricorrente lamenta violazione dell’art. 163 c.p.c., per avere la Corte di appello deciso il ricorso ai sensi dell’art. 33 Regolamento C.E. 44/2001 del Consiglio di Europa del 22 dicembre 2000 con ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., anziché con sentenza, tanto da costringere essa ricorrente a rispettare il termine di trenta giorni per l’impugnazione per cassazione, con asserita lesione del suo diritto di difesa.

Orbene, il rito sommario di cognizione evocato dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 30, si applica ai riconoscimenti di sentenze a norma della L. n. 218 del 1995, art. 67, sentenze provenienti, cioè, da Stati estranei all’Unione Europea; provvedendo, per le sentenze provenienti da questi ultimi, il Regolamento CE 44/2001, ipoteticamente applicabile ratione temporis.

Viceversa, nel caso di specie, pur appartenendo la Romania all’Unione Europea, non trova applicazione il regolamento, che presuppone che la parte interessata agisca per il riconoscimento. La causa in esame, invece, è un’azione preventiva di accertamento negativo delle condizioni di riconoscibilità, nell’ordinamento italiano, di due sentenze romene, introdotta dalla parte che ha interesse contrario a tale riconoscimento.

Ne segue che la norma applicabile al riguardo è il D.Lgs. n. 218 del 1995, art. 67, comma 1, secondo cui chiunque vi abbia interesse (quindi anche colui che non vuole il riconoscimento) può chiedere l’accertamento (anche negativo, pertanto) dei requisiti per il medesimo.

Discende da ciò l’applicabilità del rito sommario, D.Lgs. n. 218 del 1995, ex art. 67, comma 2, che richiama l’art. 30 del citato decreto semplificazione riti, in applicazione del seguente principio che qui si enuncia: “L’azione volta all’accertamento negativo della sussistenza dei presupposti per l’attuazione di una sentenza straniera è regolata dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 30, richiamato dalla L. n. 218 del 1995, art. 67, comma 2”.

Il giudice di merito ha dunque correttamente pronunciato ordinanza ai sensi dell’art. 702 ter c.p.c., quantunque abbia errato – questo il solo errore che si rileva – nel non avere previamente convertito il rito da ordinario in sommario.

Ma, i vizi dell’attività del giudice che possano comportare la nullità della sentenza o del procedimento, rilevanti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sono posti a tutela di un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, bensì a garanzia dell’eliminazione del pregiudizio concretamente subito dal diritto di difesa in dipendenza del denunciato error in procedendo, con conseguente onere dell’impugnante di indicare il danno concreto arrecatogli dall’invocata nullità processuale, sicché quando il ricorrente non chiarisce quale pregiudizio sia derivato alla sua difesa dal provvedimento declinatorio della competenza, adottato dal giudice di merito nella forma della sentenza e non dell’ordinanza, l’impugnazione è inammissibile (Cass. 9 luglio 2014, n. 15676; Cass. 12 settembre 2011, n. 18635).

Nel caso di specie, di un danno concreto che la pronuncia del provvedimento definitivo del giudizio senza previa trasformazione del rito, non vi è in atti la benché minima traccia.

5.2. – Il secondo mezzo è infondato.

L’art. 34 del Regolamento numero 44/2001 stabilisce che non possono essere riconosciute le decisioni “se il riconoscimento è manifestamente contrario all’ordine pubblico dello Stato membro richiesto”.

Ora, il tema dell’osservanza dell’ordine pubblico, in particolare processuale, si pone, in generale, nei termini che seguono.

E’ stato già affermato, in riferimento all’art. 27 n. 1 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, la quale stabiliva che le decisioni non sono riconosciute “se il riconoscimento è contrario all’ordine pubblico dello Stato richiesto”, ponendo cioè il medesimo limite previsto dall’art. 34 n. 1 del Regolamento (CE) 44/2001, applicabile nel nostro caso ratione temporis, che, in tema di riconoscimento di sentenze straniere, il concetto di ordine pubblico processuale è riferibile ai principi inviolabili posti a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio, non anche alle modalità con cui tali diritti sono regolamentati o si esplicano nelle singole fattispecie, e ciò in ragione delle statuizioni della Corte di Giustizia le cui pronunce costituiscono l’interpretazione autentica del diritto dell’Unione Europea e sono vincolanti per il giudice a quo: ne consegue che anche il diritto di difesa non costituisce una prerogativa assoluta ma può soggiacere, entro certi limiti, a restrizioni (Cass. 9 maggio 2013, n. 11021).

La pronuncia si pone sulla scia di Corte di giustizia 2 aprile 2009, causa C-394/2007) secondo la quale il diritto di difesa può subire una moderata limitazione nel caso in cui il provvedimento sia stato emesso nei confronti di un soggetto che abbia avuto comunque la possibilità di partecipare attivamente al processo. Ne consegue che non è ravvisabile una violazione del diritto di difesa in ogni inosservanza di una disposizione della legge processuale straniera a tutela della partecipazione della parte al giudizio, ma soltanto quando essa, per la sua rilevante incidenza, abbia determinato una lesione del diritto di difesa rispetto all’intero processo, ponendosi in contrasto con l’ordine pubblico processuale riferibile ai principi inviolabili a garanzia del diritto di agire e di resistere in giudizio (Cass. 3 settembre 2015, n. 17519).

In breve, occorre verificare in concreto la sussistenza di detta lesione. Questi i termini generali del problema, come si diceva: che tuttavia non hanno nulla a che spartire con la controversia in discorso.

La ricorrente lamenta difatti che, quando è stata chiamata in manleva dinanzi al Tribunale romeno, l’istruttoria che ha poi condotto all’accoglimento della domanda principale (una domanda risarcitoria proposta da Flor Center S.r.l. nei confronti di Munax S.r.l. per la vendita di un impianto di irrigazione difettoso, che era stato prodotto da Nettuno S.r.l., con conseguente chiamata in garanzia della convenuta) avesse già avuto inizio e fosse stata in parte portata a termine.

Ma non risulta in alcun modo che Nettuno S.r.l. abbia chiesto di rinnovare l’istruttoria ovvero ne abbia motivatamente contestato le risultanze, mentre il giudice di merito ha verificato che gli atti del giudizio di primo grado svoltosi di fronte al Tribunale romeno attestava no “invece, anche in merito alla facoltà di proporre proprie istanze istruttorie, la sua condotta processuale astensitiva ed omissiva”.

Insomma, qui non risulta affatto che, in concreto, Nettuno S.r.l. abbia subito una qualche effettiva lesione del proprio diritto di difesa, tale da imporre di verificare se essa lesione sia o non sia tale da porsi in contrasto con il nostro ordine pubblico processuale.

5.3. – Anche il terzo mezzo non ha fondamento.

La ricorrente vorrebbe che si dichiarasse manifestamente contraria all’ordine pubblico italiano la previsione del pagamento di un tributo quale condizione di ammissibilità della domanda giudiziaria, ed a tal fine richiama giurisprudenza della Corte Edu, della Corte di giustizia e della Corte costituzionale.

Ma i richiami non dimostrano affatto la fondatezza della tesi sostenuta: semmai il contrario.

5.3.1. – La Corte Edu ha stabilito che, sebbene l’imposizione non costituisca di per sé una restrizione all’accesso, è incompatibile con l’art. 6, par. 1, della convenzione un sistema di tassazione giudiziaria il quale, attraverso l’imposizione di un contributo particolarmente elevato e non giustificato da peculiari esigenze del caso, costringe il ricorrente a desistere dall’esercizio dell’azione per il solo fatto di non essere in grado di anticipare le spese processuali, e ciò indipendentemente dalla circostanza che il pagamento del suddetto contributo costituisca condizione d’ammissibilità o procedibilità dell’azione (Corte Edu 19 giugno 2001, ricorso n. 28249/95, Kreuz c. Polonia; Corte Edu 4 maggio 2006, ricorso n. 63945/00, Weissman et al. c. Romania). Parimenti incompatibile con la suddetta norma convenzionale è una normativa nazionale nella quale, pur non prevedendosi il pagamento del contributo quale condizione d’ammissibilità dell’azione, si preveda comunque una tassazione giudiziaria di importo talmente elevato da “assorbire” il beneficio astrattamente ottenibile dal ricorrente all’esito favorevole del giudizio (Corte Edu 12 luglio 2007, ricorso n. 68490/01, Stankov c. Bulgaria).

E cioè, la Corte Edu non dice affatto che il pagamento del tributo correlato all’accesso alla tutela giurisdizionale, di per se stesso considerato, non possa costituire condizione di ammissibilità-procedibilità, ma afferma ben altra cosa, e cioè che il pagamento del tributo non deve essere eccessivamente gravoso, sproporzionato ed ingiustificato, così da costituire un ostacolo, disfunzionale all’esercizio del diritto in giudizio e tale da indurre l’interessato a desistere dall’azione.

5.3.2. – Inspiegabile è poi il richiamo del ricorrente alle decisioni della Corte di giustizia del 6 ottobre 2015, in causa n. C-61/14 e del 22 dicembre 2010, in causa n. C-279/09: la prima ha confermato la legittimità della previsione del contributo unificato quantificato in misura progressiva in materia di appalti pubblici dinanzi al giudice amministrativo; la seconda ha stabilito che spetta al giudice nazionale verificare se le condizioni di concessione del gratuito patrocinio costituiscano una limitazione del diritto di accesso alla giustizia.

5.3.3. – Quanto alla Corte costituzionale, può per comodità muoversi dalla relazione illustrativa al testo unico sulle spese di giustizia (D.P.R. n. 115 del 2002), art. 14, la quale mostra un approccio al problema simile – ed altrettanto errato – a quello indicato dalla ricorrente: “L’articolo individua la parte obbligata al pagamento del contributo unificato… La norma originaria è stata modificata dal D.L. n. 28 del 2002, convertito con modificazioni nella L. 10 maggio 2002, n. 91… Lo stesso decreto legge ha apportato importanti innovazioni. Ha eliminato l’irricevibilità e l’improcedibilità previste dalla norma originaria per il caso di omesso o insufficiente pagamento del contributo, che si esponeva a forti dubbi di legittimità costituzionale. Infatti, secondo il consolidato orientamento della Consulta (sen. 45/1963, nn. 91 e 100/1964, n. 157/1969, n. 61/1970 e da ultimo n. 333/2001) l’esercizio del diritto di azione (art. 24 Cost.) non può essere condizionato al pagamento di un contributo di tipo fiscale”.

Quest’affermazione, in realtà, è destituita di fondamento.

Difatti:

-) Corte Cost. n. 45 del 1963, in materia di imposta di registro, osserva che: “Non ottemperando all’obbligo di registrazione, la parte dispone della funzione probatoria documentale che la scrittura era chiamata a svolgere, sulla base di una valutazione di convenienza compiuta come in ogni caso in cui la legge assoggetta ad oneri l’esercizio di un diritto. Le norme operano, non sull’azione, ma sulla disponibilità dei mezzi probatori; e, nel caso in cui la scrittura è richiesta ad substantiam, agiscono sulla disponibilità della situazione sostanziale. L’alternativa cui costringe la legge sul registro si spiega a tutela dell’interesse generale alla riscossione dei tributi, che è condizione di vita per la comunità, perché rende possibile il regolare funzionamento dei servizi statali. Tale interesse è protetto dalla Costituzione (art. 53) sullo stesso piano di ogni diritto individuale; tanto vero che le sue esigenze vanno soddisfatte anche nel conflitto con quello all’inviolabilità del domicilio (art. 14, comma 3), non meno resistente e fondamentale. La Costituzione non garantisce a tutti l’esercizio gratuito della tutela giurisdizionale, e non vieta di imporre prestazioni fiscali in stretta e razionale correlazione con il processo; sia che esse configurino vere e proprie tasse giudiziarie, sia che abbiano riguardo all’uso di documenti necessari alla pronunzia finale dei giudici. Le proibizioni che ne derivano secondo la legge sul registro intendono stimolare l’adempimento agli obblighi che questa determina; e non hanno alcun nesso con la regola del solve et repete, che la Corte ha ripetute volte dichiarato impeditiva della tutela giurisdizionale. Codesta regola assoggettava al pagamento del tributo che era oggetto dell’azione giudiziaria e quindi obbligava ad un pagamento che, essendo anticipato sull’accertamento dell’obbligo, avrebbe potuto poi risultare non dovuto: il solve et repete operava, pertanto, proprio quando si invocava la tutela del giudice per resistere alla pretesa alla quale doveva riferirsi il pagamento. La legge sul registro, invece, costringe a sospendere il processo, nel corso del quale è stata dedotta la scrittura non registrata, soltanto quando il giudice ha accertato che essa era od è soggetta alla registrazione e, a garanzia della immediata correlazione fra l’obbligo fiscale e la domanda o l’eccezione, quando ha constatato che su quella scrittura si fonda l’una o l’altra”;

-) Corte Cost. n. 91 del 1964 dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, art. 250, comma 3, che approva il testo unico delle leggi sulle imposte dirette, proposta;

-) Corte Cost. n. 100 del 1964 osserva che: “Quando la Corte dichiarava non fondata l’analoga questione di illegittimità proposta in relazione a leggi sulle imposte di bollo e di registro, aveva all’esame ipotesi di tributi riguardanti il documento probatorio della pretesa fatta valere in giudizio; in modo che l’onere di soddisfarli incideva, non sull’azione, ma sulla disponibilità di mezzi probatori e, nel caso di scrittura richiesta ad substantiam, sulla disponibilità della situazione sostanziale (4 aprile 1963, n. 45). La norma in esame invece non opera né sulla disponibilità della situazione sostanziale, perché il titolo successorio, se esiste, rimane nella sfera dell’erede o del legatario per quanto non lo si possa far valere, né sulla disponibilità della prova di quel titolo, perché l’imposta riguarda il trasferimento mortis causa, non la dimostrazione della sua esistenza. La legge opera sull’azione perché impedisce di esperire anche i diritti successori sulla cui prova ed esistenza non sorge contestazione; e impedisce tale esperimento senza permettere scelte di convenienza quando l’imposta di successione è di ammontare superiore al valore del diritto singolo per cui si invoca la protezione giudiziaria. L’eccessività della restrizione apportata a questa protezione sta in tale possibilità di sicura sproporzione fra l’obbligo tributario e il diritto sostanziale per il quale si vuole adire o si è adito il giudice; a parte che, in tali casi, si ha altresì una parziale mancanza di correlazione fra quell’obbligo e il diritto, perché si fa carico di soddisfare un tributo che solo in parte alla pretesa dedotta specificatamente pertiene”;

-) Corte Cost. n. 157 del 1969, in materia di imposta di registro, osserva che, “anche a voler ammettere che in casi limite l’importo dell’onere fiscale possa essere sproporzionato rispetto alla pretesa fatta valere in giudizio, a parte, per i meno abbienti, la possibilità della registrazione a debito, in base alla legge sul gratuito patrocinio, non ne deriverebbe addirittura compressione del diritto di azione. Infatti nell’ordinamento giuridico posto in essere dalla Costituzione i diritti dei cittadini sono armonicamente coordinati con quelli della comunità in modo che finiscono con il limitarsi a vicenda, restando nella legittimità costituzionale. Il principio che garantisce al cittadino la tutela giurisdizionale dei suoi diritti (art. 24) va, così, coordinato con quello che, come è posto in rilievo nella più volte citata sentenza n. 45 del 1963, è condizione di vita per la comunità, dell’interesse generale alla riscossione dei tributi, che è pure garantito dalla Costituzione (art. 53). Nessun dubbio, quindi, che quando non si tratti di contestare la legittimità dell’imposizione di un tributo (solve et repete) non contrasti con la Costituzione il condizionare l’esercizio del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale, allo adempimento del suo dovere di contribuente”;

-) Corte Cost. n. 61 del 1970, ancora afferma che: “Quando non si tratti, invero, di contestare la legittimità dell’imposizione tributaria, e nella specie risulta appunto non contestata la legittimità dell’imposta relativa ai contratti di borsa dedotti in giudizio (ipotesi del solve et repete), la norma che subordina all’adempimento del dovere di contribuente l’esercizio del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale, non appare in contrasto col suddetto precetto costituzionale”.

Dopodiché è stato riassuntivamente affermato che occorre “distinguere fra oneri imposti allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze ed oneri tendenti, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali. Mentre i primi, si è detto, sono consentiti in quanto strumento di quella stessa tutela giurisdizionale che si tratta di garantire, i secondi si traducono in una preclusione o in un ostacolo all’esperimento della tutela giurisdizionale e comportano, perciò, la violazione dell’art. 24 Cost.” (Corte Cost. 5 ottobre 2001, n. 333).

La Corte costituzionale ha altresì ribadito “che la Costituzione “non vieta di imporre prestazioni fiscali in stretta e razionale correlazione con il processo, sia che esse configurino vere e proprie tasse giudiziarie sia che abbiano riguardo all’uso di documenti necessari alla pronunzia finale dei giudici” (sentenza n. 45 del 1963, e poi sentenze n. 91 e n. 100 del 1964); che occorre distinguere fra “oneri che siano razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione”, da ritenersi consentiti, e oneri che invece tendano “alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette, e, conducendo al risultato di precludere o ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale, incorrono nella sanzione dell’incostituzionalità” (sentenza n. 80 del 1966, sull’illegittimità costituzionale della norma che vietava di rilasciare copie di sentenze non ancora registrate, il cui deposito in giudizio condizionasse la procedibilità dell’impugnazione); ed ancora che l’interesse del cittadino alla tutela giurisdizionale e quello generale della comunità alla riscossione dei tributi “sono armonicamente coordinati” (sentenze n. 157 del 1969 e n. 61 del 1970). In altre decisioni questa Corte ha invece affermato che “condizionare l’esercizio del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale, all’adempimento del suo dovere di contribuente” non contrasta con la Costituzione, salvo il caso dell’azione giudiziaria diretta a contestare la legittimità del tributo (sentenze n. 157 del 1969 e n. 111 del 1971). Il principio secondo cui l’onere fiscale non lede il diritto alla tutela giurisdizionale ove tenda ad assicurare al processo uno svolgimento conforme alla sua funzione ed alle sue esigenze (e non miri, invece, al soddisfacimento di interessi del tutto estranei alle finalità processuali) è stato infine ripreso dalla sentenza n. 333 del 2001, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale della norma che condizionava al pagamento di alcune imposte, fra cui quella di registro, l’esercizio dell’azione esecutiva di rilascio dell’immobile locato” (Coste Cost. 6 dicembre 2002, n. 522).

E’ stata così ad esempio dichiarata incostituzionale la norma del codice della strada che, con riguardo ai giudizi avverso il verbale di contestazione d’infrazione alle norme sulla circolazione stradale, fa carico a chi agisce, “all’atto del deposito del ricorso”, di “versare presso la cancelleria del giudice di pace, a pena di inammissibilità del ricorso, una somma pari alla metà del massimo edittale della sanzione inflitta da/l’organo accertatore” (D.L. 27 giugno 2003, n. 151, art. 4, comma 1 septies, recante Modifiche ed integrazioni al codice della strada, aggiunto dalla legge di conversione 1 agosto 2003, n. 214). In tale occasione la Corte costituzionale, richiamando la nota decisione presa con riguardo all’art. 98 c.p.c. (Corte Cost. 29 novembre 1960, n. 67), ha ritenuto che la norma oggetto del giudizio di costituzionalità finisse “con il pregiudicare l’esercizio di diritti che l’art. 24 Cost. proclama inviolabili, considerato che il mancato versamento comporta un effetto preclusivo dello svolgimento del giudizio, incidendo direttamente sull’ammissibilità dell’azione esperita”, ed ha ribadito l’esigenza di distinguere “fra gli oneri che sono “razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione”, da ritenere evidentemente consentiti, e quelli che tendono, invece, “alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette”, i quali – conducendo al risultato “di precludere o ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale” – incorrono “nella sanzione dell’incostituzionalità”. Ha concluso la Corte costituzionale che “tale seconda evenienza è quella che ricorre nel caso della disciplina censurata, considerate sia l’entità economica dell’esborso, superiore alla misura della sanzione generalmente inflitta in concreto ai trasgressori, sia soprattutto le modalità di assolvimento dell’onere economico de quo, destinate a tradursi in un procedimento macchinoso nella fase tanto del versamento della somma quanto della sua (eventuale) restituzione all’avente diritto”, tanto più che “l’imposizione in via generalizzata – da parte della norma censurata – del suddetto onere a carico del soggetto che intenda adire le vie giudiziali, in nessun modo funzionale alle esigenze del processo, si risolve in un ostacolo, anche per l’ammontare dell’esborso pari alla metà del massimo edittale della sanzione, che finisce per scoraggiare l’accesso alla tutela giurisdizionale”.

Non pertinente è poi il richiamo, da parte della ricorrente, ad un inciso di Corte Cost. 20 aprile 2011, n. 143, secondo cui “la rilevanza della questione potrebbe ravvisarsi solo nell’ipotesi in cui il pagamento del contributo unificato costituisse una condizione di ammissibilità o di procedibilità del giudizio cui accede tale adempimento”, giacché l’affermazione non sta affatto a significare che la previsione del pagamento del contributo unificato quale condizione di ammissibilità – procedibilità sarebbe incostituzionale, ma semplicemente che l’assenza di ricadute dell’omesso pagamento del contributo unificato sull’esito della lite priva la questione di rilevanza per i fini del giudizio di costituzionalità in via incidentale.

In definitiva, nel quadro della giurisprudenza costituzionale, non ricorre affatto l’affermazione secondo cui la sottoposizione dell’iniziativa giudiziale al pagamento di un tributo sarebbe incostituzionale, ma l’affermazione tutt’affatto diversa, secondo cui non può ammettersi l’assoggettamento ad oneri estranei alla finalità di buon funzionamento del processo civile, assoggettamento che si traduca nel precludere ovvero anche soltanto nell’ostacolare, purché in questo caso gravemente, l’esperimento della tutela giurisdizionale. Il che è tanto più vero ove si consideri che il meccanismo del patrocinio a spese dello Stato tiene al riparo il “non abbiente” dalla corresponsione del tributo, e che, talune tipologie di procedimenti sono escluse dal contributo, avuto riguardo alla consistenza dei diritti in contesa.

In definitiva, dunque, la giurisprudenza costituzionale nella materia appare senz’altro armonica con quella Europea di cui si è dato conto.

5.3.4. – E ciò vuol dire che, così come il legislatore nazionale ben potrebbe, se lo ritenesse, “condizionare l’esercizio del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale, allo adempimento del suo dovere di contribuente” (Corte Cost. n. 157 del 1969), trasformando ad esempio il pagamento del contributo unificato, che è direttamente correlato al funzionamento del servizio giustizia, in condizione di proponibilità-ammissibilità, allo stesso modo una simile previsione nell’ordinamento romeno non può dirsi in contrasto con l’ordine pubblico, per i fini del riconoscimento in Italia. Con un finale caveat: e cioè, ai fini della valutazione sull’ordine pubblico, ciò che conta è il rispetto del nucleo essenziale dell’art. 24 Cost., nel senso che una normativa straniera, applicata nella sentenza da riconoscere, che prevedesse il pagamento di un contributo a pena di procedibilità-ammissibilità dovrebbe comunque escludere l’improcedibilità-inammissibilità per particolari tipologie di controversie (es. adozioni, diritti delle persone ecc.) o per categorie di “non abbienti”, fermo restando che ciò dovrebbe risultare ictu oculi in sede di delibazione. Ciò detto, non resta se non osservare che, per quanto riesce a comprendersi dal ricorso, senz’altro generico al riguardo, la ricorrente ha lamentato che fosse stato ad essa imposto il pagamento, a pena di inammissibilità dell’impugnazione in appello, del normale tributo generalmente collegato all’accesso alla giurisdizione civile, quale per noi, appunto, il contributo unificato, senza che risulti in alcun modo, anche per la mancata indicazione delle entità del tributo previsto, che il pagamento realmente precludesse o gravemente limitasse, nel quadro dei principi poc’anzi rammentati, il ricorso in appello.

5.4. – Il quarto mezzo è inammissibile.

Una volta messa da parte l’osservazione che esso è stato spiegato ai sensi di un inesistente comma 5, anziché dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e dopo aver aggiunto che il fatto decisivo e controverso cui si riferisce la disposizione è un fatto storico (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053), sicché tale non può certo essere considerata la circostanza che uno dei componenti del collegio abbia nel caso in esame manifestato la propria dissenting opinion, è comunque assorbente il rilievo che il motivo non è autosufficiente.

E cioè, la ricorrente sostiene di aver sollevato la questione nel giudizio di merito, ma non dice come e quando, incorrendo così in violazione dell’art. 366, numero 6, c.p.c., tanto più che di essa questione la sentenza impugnata non discorre affatto.

Sicché trova applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675). In ogni caso, non è dato comprendere in base a quale ragionamento la dissenting opinion dovrebbe rendere la decisione della Corte d’appello romena manifestamente contraria all’ordine pubblico, sol che sì consideri che la possibilità di esplicitare il dissenso di uno dei componenti del collegio è prevista dalla L. 13 aprile 1988, n. 117, art. 16, su cui ha avuto modo di pronunciarsi la nota Corte Cost. 19 gennaio 1989, n. 18.

6. – Le spese seguono la soccombenza. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 24 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021

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