Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2123 del 29/01/2021

Cassazione civile sez. II, 29/01/2021, (ud. 10/11/2020, dep. 29/01/2021), n.2123

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28365-2017 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAZZARO

SPALLANZANI 22, presso lo studio dell’avvocato MAURO ORLANDI, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALBERTO BUCOLO,

ANDREA TINA;

– ricorrente –

contro

CONSOB, elettivamente domiciliata in ROMA, V. MARTINI GIOVANNI

BATTISTA 3, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE PROVIDENTI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO PALMISANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1786/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2020 dal Consigliere Dott. VARRONE LUCA;

udito il sostituto procuratore generale Dott.ssa DE RENZIS Luisa che

ha concluso per l’accoglimento del sesto e del settimo motivo di

ricorso. uditi gli avvocati Mauro Orlandi per il ricorrente e Paolo

Palmisano per la controricorrente.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con Delib. 14 dicembre 2016, n. 19726, la Consob applicava a P.S., ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 sexies, la sanzione amministrativa pecuniaria di Euro 200.000 per la violazione di cui all’art. 187 bis, comma 4, TUF per aver venduto 28.180 azioni Saipem, la mattina del 4 dicembre 2012, utilizzando l’informazione privilegiata concernente la promozione di forti discontinuità gestionali e organizzative da parte di Saipem, nonchè la sanzione amministrativa interdittiva accessoria ai sensi dell’art. 187 quater, comma 1, TUF con la conseguente perdita dei requisiti di onorabilità degli esponenti aziendali e l’incapacità di assumere incarichi di amministrazione direzione e controllo nell’ambito di società quotate per il periodo di 12 mesi.

1.1 La Consob disponeva inoltre, ai sensi dell’art. 187 sexies, TUF la confisca dei beni del trasgressore fino alla concorrenza del valore di Euro 963.755,90 equivalente al prodotto dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate.

2. P.S. proponeva opposizione lamentando la decadenza dal termine di 180 giorni stabilito dall’art. 187 sexies TUF, l’illegittimità del provvedimento per aver utilizzato la c.d. doppia presunzione nel ritenere provato il possesso dell’informazione privilegiata, la mancanza di prova degli elementi costitutivi dell’illecito, la natura non privilegiata dell’informazione ai sensi artt. 181 e 187 bis TUF, l’errata valutazione da parte della commissione delle ragioni della vendita delle azioni Saipem e del preteso carattere anomalo dell’operazione eseguita, l’iniquità e la sproporzione delle sanzioni applicate e della confisca.

3. La Corte d’Appello di Milano rigettava l’opposizione.

In primo luogo, dopo una approfondita disamina di tutta l’attività istruttoria, riteneva tempestiva la contestazione notificata con lettera del 22 dicembre 2015. La Corte, infatti, riscontrava la congruità e ragionevolezza del tempo impiegato da Consob per svolgere e completare l’attività di indagine diretta ad accertare un’eventuale responsabilità del P. per l’illecito di insider trading. L’attività acquisitiva dei dati e dei documenti relativi all’illecito era stata compiuta senza alcuna ingiustificata inerzia. Tutte le attività di acquisizione di informazioni o documenti erano, peraltro, funzionali all’attività di indagine globalmente intesa e in perfetta consequenzialità l’una con l’altra. In ogni caso, l’opportunità di un determinato atto istruttorio doveva valutarsi ex ante e non ex post, non avendo rilevanza il fatto che l’attività svolta si fosse poi rivelata inutile al fine della contestazione.

Gli intervalli di tempo intercorrente tra un atto di accertamento e l’altro si dovevano giustificare alla luce delle esigenze della Commissione di valutare con attenzione il materiale probatorio raccolto, anche al fine di procedere in maniera più efficace agli eventuali successivi atti di indagine. Peraltro, sussistevano anche ulteriori variabili quali la complessità della materia e la difficoltà dell’accertamento, anche in relazione alla particolare tipologia di illecito. Sicchè, a partire dal 26 marzo 2013, fino al 26 luglio 2015, la Commissione aveva posto in essere un’attività istruttoria costante, nell’ambito della quale gli intervalli di tempi trascorsi erano ragionevoli in relazione alla necessità dell’autorità amministrativa di esaminare attentamente il materiale probatorio raccolto. Anche la convocazione di S.E. in data 7 maggio 2015, secondo la Corte d’Appello si giustificava alla luce della necessità per la Commissione di valutare attentamente tutto il materiale raccolto precedentemente, per ricostruire il quadro fattuale entro cui inserire la figura della S..

In conclusione, essendosi perfezionata la notifica della lettera di contestazione in data 22 dicembre 2015, risultava rispettato il termine di 180 giorni che doveva farsi decorrere dall’audizione di G.D. il 6 luglio 2015.

3.1 Doveva ritenersi infondata anche l’ulteriore doglianza con la quale l’opponente lamentava la violazione del diritto di accesso alla documentazione posta a base delle contestazioni, in quanto tale documentazione presentava delle parti segretate e indicate con omissis. La Commissione, infatti, aveva ritenuto opportuno segretare alcune parti della documentazione richiesta dal P., in quanto inerente soggetti non coinvolti nel procedimento e fatti non concernenti il medesimo procedimento.

3.2 Con il secondo motivo il ricorrente lamentava l’illegittimità della delibera per l’insufficienza dell’impianto probatorio, in quanto fondato su un procedimento logico di tipo presuntivo.

La Corte d’Appello evidenziava l’indispensabilità del ricorso al metodo presuntivo in questo tipo di illecito, avente ad oggetto circostanze, fatti e rapporti interpersonali da ricostruire. Nella vicenda in esame, l’Autorità di Vigilanza aveva ritenuto accertata la sussistenza della fattispecie di insider trading in capo al P. sulla base di una serie di fatti noti, quali l’aver egli ricoperto diversi ruoli professionali di natura dirigenziale, sia presso Saipem sia presso il gruppo Eni, l’essere rimasto in contatto con numerose persone operanti presso le suddette società e l’aver avuto contatti con S.E., C.P. e V.P. a ridosso della realizzazione dell’operazione contestata. In particolare, il P. aveva avuto due contatti telefonici con C.P., il 3 dicembre 2012, un contatto telefonico con S.E., il 4 dicembre 2012, aveva scambiato quattro SMS con V.P. il 4 dicembre 2012, e aveva liquidato tutta la posizione detenuta in azioni Saipem nella stessa data. Tali persone, in forza del loro ruolo, erano nella condizione di conoscere l’informazione privilegiata, e il disinvestimento operato dal P. era di grande dimensione, rispetto alle vendite precedentemente effettuate e difforme rispetto sia alla pregressa operatività che alla composizione del suo portafoglio. Egli con l’operazione contestata aveva evitato una perdita potenziale di Euro 121.448, calcolata sulla base del prezzo ufficiale delle azioni Saipem registrato il 6 dicembre 2012, la vendita, peraltro, era stata effettuata in assenza di rumors o eventi societari o studi da parte di analisti finanziari.

3.3 La Corte d’Appello rigettava anche il terzo motivo di ricorso relativo alla natura di informazione privilegiata della ristrutturazione degli organi sociali di Saipem.

Ai sensi dell’art. 181 TUF, infatti, l’informazione privilegiata è quella avente un carattere preciso non resa pubblica concernente direttamente o indirettamente uno o più emittenti o strumenti finanziari che se resa pubblica abbia la capacità di influre sui prezzi. Tale carattere dell’informazione si rinviene ogni qualvolta essa si riferisca ad un complesso di circostanze esistenti o che si possa ragionevolmente prevedere che verrà ad esistenza od un evento esistente che si possa radicalmente prevedere che si verifichi allorchè sia sufficientemente specifica da consentire di trarre conclusioni sul possibile effetto del complesso di circostanze o dell’evento sui prezzi degli strumenti finanziari.

Nella specie dall’analisi congiunta degli atti e dei documenti, l’informazione relativa alla destrutturazione degli organi sociali di Saipem era sicuramente privilegiata in quanto precisa e rilevante. L’informazione, infatti, riguardava circostanze relative alla società Saipem, quali la promozione di una forte discontinuità gestionale ed organizzativa, comprendente anche le dimissioni del vicepresidente del consiglio di amministrazione, nonchè dell’amministratore delegato, circostanze che avevano l’attitudine di influenzare sensibilmente il prezzo dello strumento finanziario una volta rese pubbliche. Il cambio dei vertici aziendali, infatti, come evidenziato dalla divisione mercati in sede di contestazione era certamente circostanza idonea ad influenzare il prezzo delle azioni, tanto che, dopo il comunicato ufficiale del 5 dicembre 2012, il prezzo delle azioni aveva registrato un ribasso dell’11,24% con notevole aumento della quantità di azioni scambiate.

3.4 Le difese del P. circa le ragioni che avevano giustificato la vendita delle azioni per rimodulare il profilo di rischio del suo portafoglio, quali la necessità di ottenere liquidità per far fronte ad esigenze di spesa personale e per ottenere la provvista necessaria per finanziare un’altra società, dovevano ritenersi infondate. Secondo la Corte d’Appello, il carattere anomalo dell’operazione si fondava sul fatto che non poteva giustificarsi la scelta del P. sulla necessità di liquidità, avendo egli reinvestito il ricavato della vendita in altri strumenti finanziari. Il mancato esercizio del diritto di opzione per l’acquisto di 36.300 azioni non assumeva rilevanza sia perchè il P. avrebbe dovuto pagare Euro 400.000 che non possedeva, sia perchè la procedura richiedeva tempi più lunghi rispetto alla vendita delle azioni già in proprio possesso. Neanche le modalità della vendita alle migliori condizioni possibili per il cliente poteva escludere che il P. fosse in possesso di informazioni privilegiate, tenuto conto del fatto che l’intero ordine di vendita era stato immediatamente eseguito al momento dell’immissione sul mercato e, dunque, con il prezzo relativo a quel momento.

3.5 Con riferimento infine alla iniquità e sproporzione delle sanzioni la Corte d’Appello riteneva che quella pecuniaria di Euro 200.000 era pressochè prossima al minimo edittale e, dunque, non era nè sproporzionata nè iniqua e che, anche la sanzione accessoria interdittiva era prossimo al minimo, potendo arrivare fino a tre anni e, con riguardo alla misura accessoria della confisca, la vendita effettuata dal P. realizzava l’illecito e il prodotto dell’illecito consisteva nella somma di Euro 963.755,90 ossia il ricavato della vendita la cui confisca prevista dall’art. 187 sexies TUF era misura obbligatoria e non graduabile. Nella specie il profitto dell’illecito costituito dalla perdita che sarebbe conseguita dal decremento di prezzo delle azioni Saipem era stato stimato in Euro 121.447,25 pari alla differenza tra il controvalore della vendita posta in essere il 4 dicembre 2012 ed il valore delle azioni calcolato sul prezzo ufficiale del 6 dicembre 2012.

La confisca, dunque, era imposta e consisteva nel prodotto dell’illecito consistente nelle somme di denaro ottenute mediante la condotta antigiuridica e, dunque, la scelta di procedere alla confisca del prodotto e non del profitto era conforme alla previsione normativa.

4. P.S. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di sette motivi di ricorso.

5. La Commissione Nazionale per la Società e la Borsa ha resistito con controricorso.

6. Il collegio con ordinanza interlocutoria all’esito dell’udienza del novembre 2019 ha ritenuto necessario acquisire il fascicolo di ufficio dalla Corte d’Appello di Milano.

7. Con memorie depositata in prossimità dell’udienza entrambe le parti hanno insistito nelle rispettive richieste.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 187 sexies TUF.

La censura si fonda sulla violazione del termine di 180 giorni per la contestazione delle violazioni. Tale termine non dovrebbe decorrere dall’ultimo atto istruttorio compiuto dalla commissione, come ritenuto dalla Corte milanese, in quanto i fatti risalivano a ben tre anni prima della notifica della contestazione e l’accertamento risaliva quantomeno ad un anno e mezzo dopo la commissione degli stessi.

La Corte di merito nel determinare il dies a quo di decorrenza del termine per effettuare la contestazione avrebbe dovuto individuare il momento in cui ragionevolmente la contestazione avrebbe potuto essere tradotta in accertamento. Il ricorrente aveva già dedotto nel proprio ricorso in appello che sin dal 21 giugno 2013, come emergeva dalla nota per il presidente della divisione mercato ufficio abusi di mercato la commissione aveva individuato in dettaglio i fatti costitutivi del preteso illecito di cui all’art. 187 bis TUF, poi contestato al P. solo il 22 dicembre 2015. Inoltre, il ricorrente aveva documentato come la commissione, sin dal maggio-giugno 2014, fosse in possesso di un quadro completo dei rapporti intercorsi tra P. ed i pretesi insider primari e, dunque, da tale momento i fatti contestati dovevano considerarsi accertati dalla Consob con conseguente decadenza rispetto alla contestazione effettuata oltre un anno e mezzo dopo ovvero nel dicembre 2015.

La Corte d’Appello, inoltre, non avrebbe fornito alcuna motivazione rispetto alle doglianze e ai quesiti sollevati dall’opponente sui ritardi degli accertamenti effettuati. In particolare, il ricorrente si riferisce alle sue obiezioni sul ritardo nel compimento di alcuni atti rispetto al momento in cui gli stessi avrebbero potuto essere compiuti, quali la richiesta di copia delle e-mail di S.E. o la convocazione di V.P. o della stessa S..

In altri termini, rispetto al tempo trascorso per la contestazione di oltre tre anni dall’esecuzione dell’operazione la Corte d’Appello avrebbe dovuto procedere ad un’indagine puntuale diretta ad individuare il momento in cui ragionevolmente ricondurre l’accertamento delle violazioni contestate.

1.2 Il primo motivo di ricorso è infondato.

Il principio del tutto consolidato in materia di tempestività della contestazione è quello secondo il quale: “In tema di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria, il momento dell’accertamento, dal quale decorre il termine di decadenza per la contestazione degli illeciti da parte della Consob, va individuato in quello in cui la constatazione si è tradotta, o si sarebbe potuta tradurre, in accertamento, dovendosi a tal fine tener conto, oltre che della complessità della materia, delle particolarità del caso concreto anche con riferimento al contenuto e alle date delle operazioni (Sez. 2, Sent. n. 21171 del 2019).

La motivazione della Corte d’Appello sui tempi dell’istruttoria è particolarmente dettagliata ed esaustiva e dalla stessa risulta evidente che la complessità dell’accertamento richiedeva approfondimenti istruttori che richiedevano necessariamente tempi lunghi, vista anche la necessità di compiere atti di indagine in collaborazione con l’autorità giudiziaria. In particolare, il giudice della opposizione ha evidenziato che le indagini erano state complesse e avevano fatto progressivamente emergere la sussistenza dei presupposti per procedere alla contestazione. La complessità dell’indagine comportava che all’organo accertatore spettasse un adeguato periodo di tempo per la raccolta del materiale istruttorio e il suo esame. La Consob poteva procedere alla contestazione solo allorquando fosse stata ragionevolmente certa non solo del fatto materiale, ma anche dell’elemento soggettivo dell’illecito.

Tale percorso motivazionale appare assolutamente congruo, basandosi sulla oggettiva complessità degli accertamenti da compiersi prima di procedere alla contestazione dell’illecito e sulla conseguente necessità di singole attività istruttorie che hanno legittimamente dilatato i tempi dell’istruttoria.

Risulta evidente, pertanto, che non vi è stato alcuna violazione dell’art. 187 sexies TUF e che sotto la veste del vizio di violazione di legge, il ricorrente censura in realtà l’apprezzamento compiuto dalla Corte di merito, nella parte in cui ha negato che l’amministrazione fosse in possesso di tutti gli elementi per procedere alla contestazione già alla data del 21 giugno 2013, che l’attività successiva era stata ingiustificata o che, comunque, vi erano stati momenti di inerzia ingiustificati. Tale valutazione di competenza del giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità se non nei ristretti limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto controverso, oggetto di discussione e decisivo.

Il collegio, dunque, intende dare continuità al seguente principio di diritto: “In tema di sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme che disciplinano l’attività di intermediazione finanziaria la ricostruzione e la valutazione delle circostanze di fatto inerenti ai tempi occorrenti per la contestazione e alla congruità del tempo utilizzato in relazione alla difficoltà del caso sono rimesse al giudice del merito, il quale deve limitarsi a rilevare se vi sia stata un’ingiustificata e protratta inerzia durante o dopo la raccolta dei dati di indagine, tenendo altresì conto della sussistenza di esigenze di economia che inducano a raccogliere ulteriori elementi a dimostrazione di altre violazioni rispetto a quelle accertate, mentre la valutazione della superfluità degli atti di indagine deve essere svolta con giudizio ex ante, restando irrilevante la loro inutilità ex post” (Sez. 2, Sent. n. 21171 del 2019).

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione falsa applicazione di norme di diritto art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. e all’art. 6 della CEDU.

Il giudice del merito avrebbe violato o falsamente applicato le disposizioni costituzionali e di legge sopra richiamate, respingendo l’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c., di copia integrale degli atti dell’istruttoria oscurati, sulla base dei quali, peraltro, era stata ritenuto ragionevole il tempo trascorso per l’espletamento dell’attività istruttoria volta all’accertamento delle violazioni.

Secondo il ricorrente sarebbe errata sia l’affermazione circa l’estraneità di tali soggetti rispetto al procedimento sanzionatorio a carico del P., sia quella relativa al fatto che tali documenti avevano ad oggetto fatti non concernenti il medesimo procedimento, affermazione resa impossibile dalla non conoscenza da parte della Corte d’Appello del contenuto di tali atti. L’unica interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 210 c.p.c., dunque, era quella di imporre in ogni caso l’esibizione della documentazione, avendo tale norma l’unico limite di cui all’art. 118 c.p.c., afferente il segreto professionale, d’ufficio e di Stato, ipotesi estranee al caso in esame.

In sostanza, il rigetto dell’istanza di esibizione, impedendo un pieno ed integrale accesso, anche in sede di giurisdizione, a tutta la documentazione avente ad oggetto gli accertamenti compiuti dall’autorità di vigilanza avrebbe determinato una sensibile, quanto inammissibile, compromissione del diritto di difesa, traducendosi in una violazione dell’art. 24 Cost., del diritto al giusto processo ex art. 111 Cost. e 6CEDU.

2.1 I secondo motivo è inammissibile.

La violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, si realizza sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge e deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (ex plurimis Sez. 5, Ord. n. 15879 del 2018).

Inoltre, come evidenziato dalla controparte, in sentenza non vi è alcun riferimento all’istanza di esibizione ex art. 210 c.p.c., cui fa cenno il ricorrente, riferendosi la motivazione della Corte d’Appello solo al rigetto della richiesta di copia o di accesso alla documentazione effettuata nel procedimento sanzionatorio e ritenuta giustificata dall’estraneità delle persone e dei fatti rispetto al procedimento sanzionatorio a carico del P., non facenti parti degli atti sui quali si fondava l’incolpazione.

La documentazione richiesta dal ricorrente, dunque, non è stata utilizzata per formulare le contestazioni e dunque risultava irrilevante rispetto all’accertamento. Nè può assumere rilevanza ai fini della tempestività della contestazione posto che come si è detto tale valutazione deve essere fatta ex ante e non ex post quindi indipendentemente dal contenuto dell’atto effettivo. Peraltro, come rilevato dalla Corte d’Appello la violazione del diritto di accesso non comporta la nullità del provvedimento impugnato per violazione del diritto di difesa.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: nullità del procedimento art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 187 septies, comma 6-bis, TUF, artt. 24 e 111 Cost. e 6CEDU.

Il giudice del merito avrebbe omesso di sentire il ricorrente che l’aveva espressamente richiesto (come risulta da ricorso in appello pagina 64 documento n. 2) senza svolgere alcuna motivazione al riguardo, così incorrendo in ipotesi di nullità del procedimento.

L’audizione dell’incolpato era potenzialmente idonea ad incidere tanto sulle valutazioni di merito in tema di accertamento della contestata illiceità della condotta ascritta, quanto in relazione alla graduazione delle sanzioni irrogate.

4. Il quarto motivo di ricorso subordinato al terzo è così rubricato: violazione e falsa applicazione di norme di diritto art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 187 sexies, comma 6 bis, TUFartt. 24 e 111 Cost. e 6CEDU.

Il ricorrente ripropone la medesima censura di cui al terzo motivo non più sotto il profilo della nullità del procedimento ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, ma in relazione alla violazione dell’art. 187 sexies, comma 6 bis, TUF.

4.1 I terzo e il quarto motivo di ricorso che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente sono infondati.

Questa Corte ha richiesto con ordinanza interlocutoria, all’esito dell’udienza del 29 novembre 2019, il fascicolo di ufficio del giudizio tenuto dinanzi la Corte d’Appello dal cui esame è emerso che il P. non era presente all’udienza di discussione della causa dinanzi la Corte d’Appello e che la sua difesa in quell’occasione non ha eccepito alcun impedimento, nè ha chiesto un rinvio al fine di procedere all’audizione.

Una tale condotta processuale implica una volontà implicita di rinuncia alla richiesta di essere sentito, sicchè nessuna violazione dell’art. 187 septies, comma 6-bis, TUF, si è determinata.

In particolare, nel verbale di udienza si dà atto solo della presenza dell’avvocato e non della parte e non risulta alcuna richiesta di rinvio per impedimento. D’altra parte, il ricorrente, con il presente motivo di ricorso, richiama solamente l’atto introduttivo del giudizio dinanzi la Corte d’Appello con il quale aveva espressamente richiesto di essere sentito ma non deduce di aver formulato all’udienza di discussione una formale richiesta di rinvio, insistendo nella richiesta di audizione nonostante l’impedimento del P. a presenziare.

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di norme di diritto art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 115 c.p.c. e artt. 2727 e 2729 c.c..

La Corte di merito avrebbe posto a base della propria decisione una cosiddetta doppia presunzione, così violando le richiamate disposizioni di legge. In particolare, la Corte di merito avrebbe dedotto il fatto ignoto relativo all’acquisizione da parte dell’ingegner P. della notizia privilegiata, da un fatto altrettanto ignoto e solo presunto, quale il possesso di tale notizia da parte dei cosiddetti insider primari. Il ricorso da parte dell’autorità di vigilanza ad una doppia presunzione sarebbe inammissibile in virtù dell’art. 2727 c.c., in particolare la Corte sarebbe giunta alla conclusione che P. aveva avuto contatti con i presunti insider primari sulla base del ruolo svolto da costoro all’interno della società che li poneva in condizione di conoscere l’informazione privilegiata. Dunque, la presunzione di acquisizione dell’informazione privilegiata da parte dell’ingegner P. si desumerebbe non dà un fatto noto, ma da uno ignoto, quale il possesso della stessa informazione privilegiata in capo ai suddetti insider primari. Peraltro, la stessa autorità di vigilanza aveva ritenuto di non agire nei confronti dei presunti insider primari per l’insussistenza di elementi sufficienti per provare l’illecito di abuso di informazioni privilegiate, quali la comunicazione al P.. Infine, l’accertamento presuntivo dell’autorità di vigilanza si fonderebbe su fatti generici ed inidonei a fornire tale prova.

5. Il quinto motivo di ricorso è infondato.

La Corte d’Appello ha fatto ricorso alla prova presuntiva per affermare il possesso da parte del P. dell’informazione privilegiata deducendo la stessa da una serie di elementi certi e non solo dai suoi contatti con gli esponenti aziendali presunti insider primari possessori dell’informazione privilegiata. La Corte d’Appello, infatti, ha ritenuto rilevanti i seguenti fatti noti: l’aver ricoperto il P. diversi ruoli professionali di natura dirigenziale, sia presso Saipem sia presso il gruppo Eni; l’essere rimasto in contatto con numerose persone operanti presso le suddette società che erano nella condizione di conoscere l’informazione privilegiata; l’aver avuto contatti con i suddetti esponenti azienda a ridosso della realizzazione dell’operazione contestata; la natura dell’operazione dato che il disinvestimento operato dal P. era di grande dimensione, rispetto alle vendite precedentemente effettuate e difforme rispetto sia alla pregressa operatività che alla composizione del suo portafoglio; il fatto che la vendita era stata effettuata in assenza di rumors o eventi societari o studi da parte di analisti finanziari.

Infine, la Corte d’Appello ha smentito la giustificazione del P. circa le ragioni della vendita delle azioni finalizzata a rimodulare il profilo di rischio del suo portafoglio e alla necessità di ottenere liquidità per far fronte ad esigenze di spesa personale e per ottenere la provvista necessaria per finanziare un’altra società.

Nella sentenza si legge, infatti, che il carattere anomalo dell’operazione si fondava sul fatto che non poteva giustificarsi la scelta del P. sulla necessità di liquidità, avendo egli reinvestito il ricavato della vendita in altri strumenti finanziari.

Deve peraltro ribadirsi che, in tema di sanzioni amministrative, il ricorso alle presunzioni semplici è possibile (Cass. S.U. 30 settembre 2009, n. 20930; Cass. 10 agosto 2007, n. 17615 cit.); in tal caso i fatti sui quali esse si fondano devono essere tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza del fatto noto, alla stregua di canoni di ragionevole probabilità e secondo regole di esperienza, restando il relativo giudizio insindacabile in sede di legittimità se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 4 febbraio 2005, n. 2363). La questione finisce quindi per risolversi sul piano della correttezza delle argomentazioni spese dal giudice del merito per inferire il fatto ignoto da quello noto. Ma sul punto si è detto che la sentenza riguardo agli argomenti presuntivi spesi è ampiamente motivata. La decisione della Corte d’Appello, dunque, si fonda su un ragionamento presuntivo fondato interamente su fatti certi e complessivamente considerati, sicchè non vi è stata alcuna violazione del divieto di doppia presunzione.

Peraltro, in proposito deve anche richiamarsi il seguente principio di diritto affermato di recente da questa Corte: “Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile nè agli artt. 2729 e 2697 c.c., nè a qualsiasi altra norma e ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto” (Sez. 5, Ord. n. 20748 del 2019).

6. Il sesto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di norme di diritto art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 187 sexies TUF e art. 117 Cost., artt. 30 e 31 regolamento UE n. 596/2014 e 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

La Corte milanese sarebbe incorsa nelle suddette violazioni nella determinazione delle sanzioni irrogate. In particolare, con riguardo alla confisca dell’intero ricavato della vendita in luogo del solo illecito profitto conseguito con l’utilizzo dell’informazione privilegiata.

In tal modo la sanzione irrogata al ricorrente sarebbe irragionevole e sproporzionata e in violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza di cui agli artt. 3 e 117 Cost., nonchè al regolamento Ue n. 596/2014 necessariamente vincolante nell’interpretazione dell’art. 187 sexies TUF.

6.1 Il sesto motivo è fondato.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 112 del 2019 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-sexies, nel testo originariamente introdotto dalla L. 18 aprile 2005, n. 62, art. 9, comma 2, lett. a), (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto e, in via consequenziale, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-sexies, nella versione risultante dalle modifiche apportate dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 107, art. 4, comma 14, recante “Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE”, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.

Secondo la Corte Costituzionale, il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito è applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative. Ciò premesso, in tema di abusi di mercato, mentre l’ablazione del “profitto” ha una mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente in capo all’autore, la confisca del “prodotto” – identificato nell’intero ammontare degli strumenti acquistati dall’autore, ovvero nell’intera somma ricavata dalla loro alienazione – così come quella dei “beni utilizzati” per commettere l’illecito – identificati nelle somme di denaro investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore – hanno un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore. Tali forme di confisca assumono pertanto una connotazione “punitiva”, infliggendo all’autore dell’illecito una limitazione al diritto di proprietà di portata superiore (e, di regola, assai superiore) a quella che deriverebbe dalla mera ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito.

Nel vigente sistema sanzionatorio degli abusi di mercato, la (predominante) componente “punitiva” insita nella confisca del “prodotto” dell’illecito e dei “beni utilizzati” per commetterlo si aggiunge all’afflizione determinata dalle altre sanzioni previste dal D.Lgs. n. 58 del 1998 e, in particolare, dalla sanzione amministrativa pecuniaria. Una sanzione, quest’ultima, la cui cornice edittale è essa pure di eccezionale severità, potendo giungere sino ad un massimo di cinque milioni di Euro, aumentabili in presenza di particolari circostanze fino al triplo, ovvero fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito.

In conclusione la Corte Costituzionale ha ritenuto che la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere “punitivo” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati.

La sentenza n. 112 del 2019 della Corte Costituzionale impone di rivedere l’entità della confisca adeguandola alla sola quantificazione del profitto, escludendo dal calcolo il prodotto e i mezzi utilizzati per commettere l’illecito che, invece, nel caso di specie sono stati anch’essi oggetto della misura della sanzione accessoria.

7. Il settimo motivo di ricorso è così rubricato: violazione falsa applicazione di norme di diritto art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 3, e art. 117 Cost. e art. 7 CEDU.

La censura attiene alla quantificazione della sanzione e alla mancata applicazione della L. n. 72 del 2015, art. 6, comma 3, secondo cui alle sanzioni amministrative previste dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, non si applica la L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 39, comma 3, con il quale i minimi e i massimi della sanzione erano stati portati da un minimo di Euro 20.000 a un minimo di Euro 100.000 e da un massimo di Euro 5.000.000 a un massimo di Euro 25.000.000.

7.1 Il settimo motivo è fondato.

All’applicazione del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 3, invocato dal ricorrente, ostava il disposto del comma 2 del medesimo articolo, che espressamente escludeva l’applicazione retroattiva in mitius delle modifiche al trattamento sanzionatorio degli illeciti previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, introdotte dallo stesso D.Lgs. n. 72 del 2015, tra i quali, pertanto, anche quelle di cui al comma successivo.

Tale ragione ostativa è superata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 2019 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito disciplinato dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-bis, nonchè, in via consequenziale, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), alla mancata previsione – da parte del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, – della retroattività delle modifiche apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle corrispondenti sanzioni amministrative previste per l’illecito di cui all’art. 187-ter (Manipolazione del mercato) del D.Lgs. n. 58 del 1998.

Dalla declaratoria di incostituzionalità del D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, art. 6, comma 2, discende che nella fattispecie in esame non può (e non poteva) applicarsi la quintuplicazione delle sanzioni prevista dalla L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 39, comma 3 e che, invece debba trovare applicazione il nuovo regime sanzionatorio, di cui al citato D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 3.

8. In conclusione la Corte accoglie il sesto e il settimo motivo di ricorso, rigetta i retanti, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione al fine di rideterminare la sanzione pecuniaria comminata in via principale e quella accessoria della confisca. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto e il settimo motivo di ricorso, rigetta i restanti, cassa e rinvia alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che deciderà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2 Sezione civile, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2021

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