Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21220 del 02/10/2020

Cassazione civile sez. II, 02/10/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 02/10/2020), n.21220

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ugo – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20393-2019 proposto da:

C.A., rappresentato e difeso dall’Avvocato GIUSEPPE

BRIGANTI ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in

FERMIGNANO (PU), VIA R. RUGGERI 2/A;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore;

– resistente –

avverso la sentenza n. 3050/2018 della CORTE d’APPELLO di ANCONA,

depositata il 19/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/01/2020 dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.A., cittadino del Gambia, ha impugnato la sentenza della Corte d’appello di Ancona n. 3050/2018, pubblicata il 19/12/2018, con la quale è stato respinto l’appello proposto per la riforma dell’ordinanza del Tribunale di Ancona del 9/02/2018 a definizione del ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale di Ancona.

Il ricorrente, cittadino del Gambia, aveva richiesto il riconoscimento della protezione internazionale, deducendo di provenire dal Gambia da genitori maligni da un villaggio a prevalenza di etnia Wolof e di avere sempre subito discriminazioni in ragione della sua origine Banbara; e di avere avuto (per questo) una infanzia difficile, in quanto non aveva diritti, non poteva uscire nè giocare e nè andare a scuola. Pertanto, a 14 anni, decideva di lasciare il suo paese, recandosi in Senegal, in Mali, e in Libia, da dove aveva raggiunto l’Italia.

La Corte d’appello – rigettando il ricorso avverso la pronuncia del Tribunale – ha, in particolare, rilevato che il ricorrente, oltre ad affermazioni pelesemente non veritiere in quanto contraddittorie e lacunose, a domanda sul perchè non potesse tornare nel sue paese, si è limitato a fare riferimento a possibili discriminazioni nei suoi confronti, ma senza spiegazioni concrete, e non sufficienti al fine di concedere l’invocata protezione, quali il fatto che lo picchiassero alcuni compagni o il fratello e la madre e che non fosse stato pagato da datori di lavoro. Quanto, poi, al riferimento ad un Gruppo di Boko Aran che lo avrebbe derubato, rapito e maltrattato, la Corte ha osservato che l’episodio fosse scarsamente credibile anche perchè avulso dal contesto generale del racconto, come se fosse inserito ad colorandum una vicenda improbabile.

Propone ricorso per la cassazione di tale decisione C.A.A. affidandosi a quattro motivi. L’Avvocatura generale dello Stato, per il Ministero dell’Interno pro tempore, si è costituita tardivamente al fine di eventualmente partecipare alla udienza di discussione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, nel testo applicabile ratione temporis e dell’art. 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2, art. 342 c.p.c., nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6; in subordine, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, in ragione del fatto che la Corte di merito – non essendo stato messo in discussione in sede di appello anche il giudizio di veridicità della narrazione operata dal giudice di primo grado – non poteva ritenersi investita della cognizione su tale aspetto e pertanto non poteva riformulare il giudizio in parte qua raggiungendo conclusioni opposte a quelle del primo giudice; dovendo, sotto altro profilo, compiere ogni più opportuna indagine (in virtù del dovere di collaborazione istruttoria) al fine di accertare la attuale situazione socioeconomica – politica del Gambia in rapporto alla specifica vicenda narrata dal ricorrente.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Occorre rilevare che il motivo risulta basato sulla asserita incoerenza della motivazione del giudice di appello, essendo questa fondata su un giudizio di non veridicità della narrazione mai formulato dal giudice di primo grado, il quale invece aveva basato la propria decisione sulla asserita irrilevanza della vicenda ritenuta credibile. Secondo il ricorrente, dunque, la Corte di merito si sarebbe limitata ad un generico richiamo della decisione di primo grado senza tener conto dei motivi di appello del richiedente, che avrebbero invece richiesto una valutazione alla luce delle caratteristiche specifiche della situazione.

Orbene, la motivazione della sentenza per relationem è ammissibile, purchè il rinvio venga operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e dell’identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio (ex plurimis Cass. n. 21978 del 2018; Cass. n. 7347 del 2012; Cass. n. 11138 del 2011). Nella specie, tuttavia, tale fattore di corrispondenza non risulta concretamente evidenziabile, non essendo stato trascritto nel ricorso il contenuto della decisione di primo grado; e ciò, tanto più, in considerazione del fatto che, viceversa, nel medesimo ricorso sono stati integralmente riportati sia l’atto di appello, sia relative conclusioni del richiedente.

In applicazione del principio processuale della “ragione più liquida”, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., il Collegio ritiene che il motivo possa essere deciso con riguardo alla questione ritenuta di più agevole soluzione (appunto, quella della mancanza del termine di riferimento della asserita motivazione della sentenza impugnata per relationem) senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. (Cass. n. 11458 del 2018; conf. Cass. sez. un. 9936 del 2014; Cass. n. 363 del 2019).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento all’art. 2 Cost., art. 10 Cost., comma 3, art. 32 Cost.; alla L. n. 881 del 1977, art. 11; al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27, e 32 e all’art. 16 direttiva Europea n. 2013/32 nonchè agli artt. 2 e 3 – anche in relazione agli artt. 115 e 117 c.p.c., D.Lgs. n. 25 del 2007, artt. 5, 6, 7 e 14 e all’art. 5, comma 6, e art. 19, comma 2, TU286/1998, nel testo applicabile ratione temporis”.

2.1. – Il motivo è infondato.

2.2. – Va premesso che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016). Ciò in quanto, il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

2.3. – Il motivo del ricorso deve, dunque, necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; essendo, pertanto, inammissibile la critica generale (e inevtabilemente generica) della sentenza impugnata, formulata con una articolazione di doglianze riferibili ad una eterogeneità di profili non chiaramente individuabili e collegabili ad una delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (Cass. n. 11603 del 2018).

Ne consegue che le censure, come rapsodicamente articolate, appalesano piuttosto lo scopo del ricorrente di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c., per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, dunque, cercando di attribuire al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse (Cass. n. 22355 del 2019; Cass. n. 2051 del 2019).

2.4. – Peraltro, questa Corte (Cass. n. 16925 del 2018) ha chiarito che “in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona”, cosicchè “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori”.

Come precisato, inoltre, da questa Corte (Cass. n. 14006 del 2018) con riguardo alla protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), “l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia”. Nel ricorso, viceversa non si spiegano e ragioni per le quali, nello specifico caso in esame, sussisterebbero i presupposti per il riconoscimento della tutela in favore del ricorrente, limitandosi il ricorrente a riferire del rischio in caso di suo rientro nel paese d’origine, di subire discriminazioni in ragione della sua origine Banbara.

La parte ricorrente mira, insomma, del tutto inammissibilmente, a confutare le valutazioni di merito operate dalla Corte distrettuale, tra e quali quella relativa alla sua inattendibilità, tenuto conto che il riconoscimento della protezione sussidiaria, cui il motivo sostanzialmente si riferisce, presuppone che il richiedente rappresenti una condizione, che, pur derivante dalla situazione generale del paese, sia, comunque, a lui riferibile e sia caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento agli artt. 6 e 13 della convenzione EDU, all’art. 47 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e all’art. 46 della direttiva Europpea n. 2013/32”.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – Ribadite le considerazioni svolte sub 2.2., va rilevato che il richiamo alla normativa convenzionale, risulta nel caso di specie inconferente rispetto alla “liquidità” e specificità della ratio decidendi sottesa alla concreta vicenda in esame.

4. – Con il quarto motivo, il ricorrente deduce la “nullità del decreto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, nel testo applicabile alla controversia ratione temporis e dell’art. 132 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6; in subordine, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5; in ulteriore subordine, violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; TU n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 2.

4.1. – Il motivo non è fondato.

4.2. – Il ricorrente richiede che nella specie debba concedersi la protezione sussidiaria (“come rilevato in sede di ricorso di primo grado e di atto di appello anche in considerazione del suo percorso migratorio e del sue apprezzabile periodo di permanenza in Senegal, Niger e Libia, e del suo effettivo “radicamento” in detti territori.

Orbene, la Corte di merito ha espressamente affermato la non veridicità, per contraddittorietà e lacunosità, del racconto del ricorrente; e tale giudizio è sorretto da una valutazione di totale inattendibilità di quanto dedotto, che, essendo adeguatamente motivata, non è censurabile in questa sede, implicando accertamenti di merito che sono per loro natura estranei al giudizio di legittimità (Cass. n. 2858 del 2018; Cass. n. 30117 del 2018).

La censura di lacuna motivazionale in parte qua (tanto se basata su violazione di legge quanto se dedotta per omessa motivazione) risulta infondata, poichè formulata su circostanze la cui veridicità è stata esclusa (Cass. n. 16925 del 2018).

5. – Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va respinto. Nulla per le spese in ragione del fatto che l’intimato non ha svolto alcuna difesa. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2020

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