Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21210 del 08/08/2019

Cassazione civile sez. II, 08/08/2019, (ud. 08/04/2019, dep. 08/08/2019), n.21210

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17265/2015 proposto da:

COSTRUZIONI T. S.R.L., rappresentata e difesa dall’Avvocato

T.G., dall’Avvocato FAUSTINO DE PALMA e dall’Avvocato ATTILIO

PIATTELLI, presso il cui studio a Roma, viale Giulio Cesare 59,

elettivamente domicilia, per procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

VINANDA SOCIETA’ AGRICOLA A R.L., rappresentata e difesa

dall’Avvocato PIERLUIGI VICEDOMINI ed elettivamente domiciliata a

Roma, via San Tommaso d’Aquino 7, presso lo studio dell’Avvocato

LUCA GIOVARRUSCIO, per procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1319/2015 della CORTE D’APPELLO DI NAPOLI,

depositata il 18/3/2015;

udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale

dell’8/4/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Benevento, con sentenza del 17/3/2014, in accoglimento della domanda proposta dalla Costruzioni T. s.r.l., ha condannato la Vinanda Società Agricola a r.l. al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di Euro 120.000,00, oltre IVA ed interessi legali, quale saldo per i lavori svolti da quest’ultima in favore della società convenuta.

La Vinanda Società Agricola a r.l., con citazione notificata in data 20/8/2014, ha proposto appello lamentando, innanzitutto, che il giudice di primo grado aveva erroneamente fondato la decisione sulla mancanza del fascicolo di parte affermando che la convenuta non aveva provveduto alla sua restituzione, laddove, al contrario, tale fascicolo, benchè ritirato dal procuratore costituito all’udienza del 26/9/2013, risultava, tuttavia, restituito alla Cancelleria in data 14/12/2013, al momento del deposito della memoria di replica ai sensi dell’art. 190 c.p.c.: la sentenza di primo grado, pertanto, aveva erroneamente omesso di tener conto di un documento di rilievo dirimente, contenuto nel fascicolo della società convenuta, vale a dire l’atto di quietanza, sottoscritto da T.G., in proprio e quale legale rappresentante della Costruzioni T. s.r.l., recante la data del 31/1/2008, nel quale questi aveva dichiarato di essere stato pienamente soddisfatto in ordine al corrispettivo maturato per la realizzazione dei cosiddetti “lavori extra POR”.

La società appellante, inoltre, ha lamentato la quantificazione dell’importo dovuto sulla base di un computo metrico che il tribunale ha ritenuto essere stato redatto dal direttore dei lavori, ing. P.S., laddove, in realtà, tale computo risulta privo di sottoscrizione e lo stesso direttore dei lavori, sentito quale testimone, ha disconosciuto il computo metrico in questione ed ha affermato di non essere in grado di ricordare l’entità dell’importo complessivo dei lavori da lui stesso contabilizzati.

La Costruzioni T. s.r.l. si è costituita in giudizio ed ha eccepito, ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., l’inammissibilità dell’appello, non avendo alcuna ragionevole probabilità di essere accolto, e, nel merito, la sua infondatezza, deducendo l’omesso deposito in primo grado della richiamata quietanza liberatoria, procedendo al disconoscimento della stessa e denunciandone l’inconferenza rispetto al giudizio. L’appellata, inoltre, ha evidenziato che vi sono, in atti, bozze di transazione, le quali provano l’entità della somma ancora dovuta dalla società Vinanda.

La corte d’appello, con la sentenza impugnata, ha accolto l’appello ed ha, per l’effetto, in riforma della sentenza di primo grado, rigettato la domanda proposta dalla Costruzioni T. s.r.l. nei confronti della Vinanda Società Agricola a r.l..

La corte, in particolare, ha, innanzitutto, respinto la censura con la quale la società appellante aveva dedotto l’erroneità della decisione di primo grado in quanto assunta in mancanza del fascicolo di parte. Al riguardo, la corte ha ritenuto che, seppure l’appellante avesse effettivamente reinserito il proprio fascicolo di parte all’atto del deposito della memoria di replica ai sensi dell’art. 190 c.p.c., tale deposito sarebbe stato comunque tardivo ai sensi dell’art. 169 c.p.c., che fissa, per la restituzione del fascicolo di parte ritirato, il termine perentorio costituito dal deposito della comparsa conclusionale. Il tribunale, quindi, quand’anche il fascicolo di parte fosse stato reinserito, non avrebbe potuto che decidere prescindendo dallo stesso e dalla documentazione in esso inserita. In caso di mancata restituzione del fascicolo di parte, ritualmente ritirato, entro il termine previsto dall’art. 190 c.p.c., infatti, ha osservato la corte, il giudice di primo grado deve decidere la causa prescindendo dai documenti in esso contenuti: la parte, tuttavia, ha la facoltà, alla stregua dell’art. 345 c.p.c., nel testo in vigore ratione temporis, di produrre nuovamente in grado di appello i documenti non esaminati nella decisione appellata, i quali, se ed in quanto ritualmente prodotti in primo grado, non sono qualificabili come “nuovi”. Nel caso in esame, ha osservato la corte, l’appellante ha nuovamente prodotto, in grado d’appello, il proprio fascicolo e la quietanza del 31/12/2008: tuttavia, tale documento non risulta indicizzato nel fascicolo di parte di primo grado e non risulta rilegato unitamente al resto della produzione ma spillato all’indice del fascicolo. Ne consegue, ha concluso la corte, che, a fronte della mancata prova circa l’effettiva produzione del documento in primo grado, la quietanza in questione deve ritenersi prodotta per la prima volta solo in appello ed è, quindi, inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c..

Quanto al merito, la corte ha preso in esame il secondo motivo d’appello con il quale la Vinanda s.r.l. ha lamentato l’erroneità della decisione per avere il tribunale ritenuto provato il credito sulla scorta della contabilità a consuntivo, prodotta dalla Costruzioni T. s.r.l., laddove, al contrario, tale contabilizzazione era erronea e, comunque, nulla in quanto priva di qualunque firma, e l’ha ritenuto fondato. A prescindere dalla considerazione se la contabilità a consuntivo prodotta contenesse o meno degli errori, “è certo”, ha osservato la corte, che, “per mancanza di firma”, “tale documento non poteva essere posto a fondamento della dimostrazione del credito vantato dalla Costruzioni T. srl” in quanto irrilevante “ai fini della prova della prodotta contabilizzazione”. Non è, quindi, condivisibile, ha proseguito la corte, la decisione del tribunale che ha ritenuto provato il credito della Costruzioni T. s.r.l. sulla scorta di una documento (il computo metrico consuntivo) privo di qualsiasi valore probatorio: l’ing. P., direttore del lavori, infatti, escusso quale testimone, ha dichiarato di non aver firmato il computo metrico a consuntivo, disconoscendo quello prodotto in giudizio. Il direttore dei lavori, ha proseguito la corte, ha affermato di aver redatto un computo a consuntivo, consegnandone una copia ad entrambe le parti, che lo avevano accettato: la Costruzioni T., tuttavia, non ha provveduto a produrre in giudizio tale contabilizzazione, avendo depositato un atto che lo stesso P. ha affermato di non essere a sua firma e che non è sufficiente a provare il credito della società appellata: in effetti, ha aggiunto la corte, in materia di corrispettivo dovuto per l’appalto privato, laddove il committente contesti l’entità del dovuto, non costituisce idonea prova dell’ammontare del credito nell’ordinario giudizio di cognizione che si apre con l’opposizione trattandosi di documento di natura fiscale proveniente dalla stessa parte, nè costituisce idonea prova del credito dell’appaltatore la contabilità redatta dal direttore dei lavori, a meno che non risulti che essa sia stata portata a conoscenza del committente e che questi l’abbia accettata senza riserve, pur senza aver manifestato la sua accettazione con formule sacramentali, oppure che il direttore dei lavori per conto del committente abbia redatto la relativa contabilità come rappresentante del suo cliente e non come soggetto legato a costui da un contratto di prestazione d’opera professionale, che gli fa assumere la rappresentanza del committente limitatamente alla materia tecnica. Nè è sufficiente, ha proseguito la corte, l’esito della prova testimoniale, non essendo emersa la dimostrazione dell’ammontare del credito nella misura che la Costruzioni T. ha richiesto. I testimoni escussi, infatti, pur riferendo di un residuo importo da versare per i lavori ulteriori eseguiti rispetto a quelli progettati, non hanno saputo, tuttavia, riferire in ordine all’entità dell’importo se non de relato. Ne consegue, ha concluso la corte, che, stante la genericità della prova testimoniale e l’irrilevanza del computo metrico prodotto, ed in mancanza di ulteriorg, elementi probatori, l’appello doveva essere accolto e la domanda proposta dalla Costruzioni T. s.r.l., per l’effetto, rigettata.

La Costruzioni T. s.r.l., con ricorso notificato il 2/7/2015, ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente notificata il 7/5/2015.

Vinanda Società Agricola a r.l. ha resistito con controricorso notificato in data 10/9/2015 e depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per violazione del principio di non contestazione e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che la Costruzioni T. s.r.l. non avesse fornito la prova della sussistenza del credito. La corte, però, ha osservato la ricorrente, così facendo, non ha considerato che la società convenuta non aveva contestato l’esistenza del credito vantato dalla Costruzioni T. s.r.l. se non, in via del tutto generica, nell’atto d’appello: la Vinanda, infatti, nella comparsa di costituzione depositata il 5/3/2010, non ha disconosciuto la sussistenza del credito, limitandosi, piuttosto, a contestarne l’ammontare in quanto fondato su una contabilità unilateralmente predisposta. La corte d’appello, quindi, ha proseguito la ricorrente, avendo ritenuto non provato il credito vantato dalla società attrice, ha violato l’art. 115 c.p.c., a norma del quale, invece, i fatti che non sono stati specificamente contestati, non hanno bisogno di essere provati e devono essere posti a fondamento della decisione. La corte, invece, ha aggiunto la ricorrente, ha ritenuto che la sussistenza del credito fatto valere in giudizio non era stata provata dall’attrice e che sussisteva, in capo alla stessa, l’onere di provare un fatto, e cioè l’esistenza del credito, non contestato dalla controparte e che doveva, al contrario, essere espunto, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., e art. 2697 c.c., dal thema probandum. La corte d’appello, quindi, ha concluso la ricorrente, se avesse rettamente applicato l’art. 115 c.p.c., non avrebbe potuto, in assenza di risultanze istruttorie di senso opposto, ritenere insussistente un credito la cui esistenza costituiva, invece, un fatto pacifico del giudizio, in quanto allegato dalla Costruzioni T. e non contestato dalla società convenuta, ed avrebbe, quindi, senz’altro accolto la domanda che la stessa aveva proposto, che ha, al contrario, rigettato sulla scorta della pretesa carenza di elementi probatori idonei a fondare la sussistenza, rimasta incontestata, del credito azionato.

2. Il motivo è infondato. Gli atti del giudizio di merito, ai quali la Corte accede direttamente in ragione della natura processuale del vizio denunciato, dimostrano, in effetti, che la società convenuta, nella memoria depositata nel giudizio di primo grado, dopo aver premesso che la società ricorrente aveva eseguito “un opificio per la produzione di vino di proprietà della resistente, a decorrere dal mese di giugno 2006 fino al mese di gennaio 2008, sulla scorta del progetto redatto dall’ing. P.S. e dall’arch. R.A., a seguito di regolare contratto di appalto di cui alla scrittura privata del giorno i aprile 2006”, che, ad ogni stato di avanzamento dei lavori, “la resistente, con tutta puntualità, ha provveduto al pagamento dei maturati importi mediante bonifici bancari” e che “tra le parti non sono mai insorte contestazioni di alcun genere anche dopo la chiusura dei lavori e la consegna del cantiere”, ha dedotto, per un verso, che erano intercorse con la società costruttrice trattative “finalizzate a stabilire, in via definitiva, l’esistenza e l’ammontare di eventuali somme residue” e, per altro verso, che, in difetto di un sicuro riscontro tecnico-contabile, la società resistente non poteva essere ritenuta responsabile di alcuna inadempienza, concludendo, quindi, per il rigetto della domanda proposta dalla Costruzioni T. in quanto infondata. Risulta, quindi, evidente che la società convenuta ha dato senz’altro esecuzione all’onere di contestazione dei fatti (costitutivi) dedotti dall’attrice, svolgendo in giudizio una difesa che, a mezzo del testuale riferimento alla mera eventualità che sussistessero somme residue da pagare, risulta oggettivamente incompatibile con il riconoscimento della relativa sussistenza. L’onere di contestazione previsto dall’art. 115, comma 1 c.p.c., in fine, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, deve, infatti, ritenersi adempiuto non soltanto quando il convenuto abbia specificamente contestato i fatti allegati dall’attore ma anche quando lo stesso, pur non avendo espressamente contestato tali fatti, abbia tuttavia assunto una posizione difensiva che, in termini oggettivi, è incompatibile con la loro affermazione, così implicitamente negandone l’esistenza.

3. Con il secondo motivo, la società ricorrente,

lamentando la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2733 e 2697 c.c., la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e l’omesso esame circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda proposta dalla società attrice perchè ha ritenuto insufficiente il compendio probatorio offerto a fondamento del credito azionato. La corte, però, ha osservato la ricorrente, così facendo, non ha considerato che il legale rappresentante della società convenuta, in sede di interrogatorio formale, all’udienza del 24/3/2011, ha dichiarato che, dopo la consegna dei lavori, “c’è stata una trattativa per definire l’entità dell’importo residuo che non aveva avuto esito positivo in quanto non siamo stati in grado di quantificare l’importo”. L’interrogato, quindi, ha proseguito la ricorrente, riconoscendo expressis verbis che di fatto vi era un importo residuo da versare e che vi erano state trattative per definirne l’entità, ha confessato la sussistenza del credito, sia pure incertus nel quantum, vantato dalla società attrice. La corte d’appello, quindi, lì dove ha ritenuto insussistente il credito vantato dalla società ricorrente, ha omesso di valutare, in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e dell’art. 2733 c.c., la dichiarazione confessoria sopra descritta, la quale fa piena prova contro colui che l’ha fatta. La corte d’appello, quindi, ha concluso la ricorrente, ove avesse correttamente applicato le norme richiamate, unitamente all’adeguato vaglio del materiale probatorio in atti, avrebbe ritenuto senz’altro provata la sussistenza del credito azionato dalla Costruzioni T. s.r.l..

4. Il motivo è infondato. La confessione, infatti, deve avere ad oggetto non giudizi ovvero opinioni ma fatti obiettivi (Cass. n. 5725 del 2019). Nel caso di specie, al contrario, il legale rappresentante della società convenuta, lì dove si assume che abbia affermato che, dopo la consegna dei lavori, “c’è stata una trattativa per definire l’entità dell’importo residuo che non aveva avuto esito positivo in quanto non siamo stati in grado di quantificare l’importo”, non ha, evidentemente, dichiarato la verità di alcun fatto storico a sè sfavorevole e favorevole all’altra parte, limitandosi, al più, ad esprimere, con il riferimento ad un “importo residuo” da quantificare, una valutazione soggettiva, come tale irrilevante, in ordine alla sua esistenza.

5. Con il terzo motivo, la società ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e l’omesso esame circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda proposta dalla società attrice avendo ritenuto inattendibile il documento posto a fondamento del quantum debeatur, vale a dire il computo metrico consuntivo, ritenendolo privo di qualsiasi valore probatorio, sul rilievo che l’ing. P., direttore dei lavori, escusso quale testimone, aveva dichiarato di non aver firmato il computo metrico a consuntivo. Così facendo, però, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello ha fornito un’interpretazione delle dichiarazioni rese dall’ing. P., direttore dei lavori, del tutto fuorviante e non corrispondente al significato delle stesse. L’ing. P., infatti, ha proseguito la ricorrente, sentito come testimone, non ha in alcun modo disconosciuto, come ha invece immotivatamente ritenuto la corte d’appello, la paternità della relazione in atti, essendosi limitato a constatare la materiale e oggettiva mancanza della sua sottoscrizione sulla copia della relazione contabile depositata in giudizio, senza, tuttavia, dichiarare di non aver redatto la relazione contabile posta a fondamento del quantum debeatur. La corte d’appello, quindi, ha concluso la ricorrente, ove avesse prudentemente apprezzato le dichiarazioni rese dall’ing. P., avrebbe senz’altro ritenuto che la relazione contabile in atti era idonea a fondare l’ammontare del credito azionato ed avrebbe, quindi, accolto la domanda originariamente proposta dalla Costruzioni T. s.r.l..

6. Con il quarto motivo, la ricorrente, lamentando la nullità della sentenza per illogicità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda proposta dalla società attrice ritenendo che il materiale probatorio posto a fondamento dell’ammontare del credito era insufficiente a provarne, a volte, la sussistenza, altre volte, l’entità. In tal modo, però, ha osservato la ricorrente, la corte, con una decisione non sorretta da un’idonea e logica motivazione, finisce per confondere due profili distinti, uno attinente all’an debeatur e l’altro relativo al quantum debeatur.

7. Il terzo ed il quarto motivo, da trattare congiuntamente, sono infondati. Intanto, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi – nella specie neppure invocata – in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non, invece, laddove l’oggetto della censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 13395 del 2018). Nello stesso modo, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., può trovare ingresso nel giudizio di legittimità solo ove si alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 1229 del 2019): resta, dunque, fermo che tali violazioni non possono essere ravvisate, come invece pretende la ricorrente, nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre: “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra pero nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016, in motiv.). Quanto al resto, la sentenza impugnata è soggetta alla norma prevista dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo conseguente alle modifiche introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con modif. con la L. n. 134 del 2012: ed è noto come, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), la predetta norma, nel testo in vigore successivamente alle citate modifiche, consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia, nella specie neppure invocata, si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (così, più di recente, Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). Al di fuori di tale omissione, il controllo del vizio rimane, pertanto, circoscritto alla sola verifica dell’esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità. Pertanto, laddove non si contesti – come nel caso di specie l’inesistenza, nei termini predetti, del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di motivazione può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Cass. n. 23940 del 2017, in motiv.). Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente, che denuncia il vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ha l’onere di indicare non una mera “questione” o un semplice “punto” della sentenza ma il “fatto storico”, principale (e cioè il fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) ovvero secondario (cioè dedotto in funzione di prova di un fatto principale) – vale a dire un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017; Cass. n. 21152 del 2014; Cass. SU. n. 5745 del 2015) – il cui esame sia stato omesso, nonchè il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti ed, infine, la sua “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.). L’omesso esame di elementi istruttori non dà luogo, pertanto, al vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). E’, quindi, inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per sostenere semplicemente il mancato esame di deduzioni istruttorie ovvero di documenti da parte del giudice del merito (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.). Nel caso di specie, la società ricorrente non ha specificamente dedotto quali sono stati i fatti storici che la corte d’appello, benchè decisivi ed oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, avrebbe omesso di esaminare, limitandosi, piuttosto, a sollecitare una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, infatti, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Com’è noto, il compito di questa Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti)/fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato i documenti e le prove testimoniali raccolte in giudizio, ha, in modo logico e coerente, indicato le ragioni per le quali ha ritenuto che mancasse la prova della sussistenza, in capo alla Costruzioni T. s.r.l., di un residuo credito verso la società convenuta ed ha, per l’effetto, rigettato la domanda di pagamento che la stessa aveva proposto nei confronti della società Vinanda.

8. Il ricorso è, dunque, infondato e dev’essere, pertanto, rigettato.

9. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

10. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

la Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 6.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e spese generali nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 8 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2019

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